PROTOCOLLO DI KYOTO
PROTOCOLLO DI KYŌTO. – Contesto, soggetti e competenze. COP (Conference Of the Parties). As sess ment reports (AR). Principali attori. Stati Uniti e Canada. Unione Europea. Cina. Le rotte della CO2. Prossimi scenari. Bibliografia. Webgrafia
Contesto, soggetti e competenze. – La Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC, United Nations Framework Convention on Climate Change) è un trattato internazionale, negoziato in occasione della Conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente e lo sviluppo (UNCED, United Nations Conference on Environment and Development), tenutasi a Rio de Janeiro dal 3 al 14 giugno 1992. L’UNFCCC è anche il nome del Segretariato delle Nazioni Unite incaricato di sostenere il funzionamento della Convenzione, i cui uffici sono a Bonn, in Germania. Il Segretariato, anche con il supporto del Gruppo intergovernativo di esperti sul cambiamento climatico (IPCC, Intergovernmental Panel on Climate Change), ha lo scopo di acquisire e proporre soluzioni condivise.
L’IPCC, premio Nobel per la pace 2007, è il foro scientifico istituito con lo scopo di indagare sul riscaldamento globale e sui cambiamenti climatici, analizzarne le possibili cause, valutare il livello di sensibilità dei sistemi naturali, ipotizzare scenari di riferimento e suggerire strategie di mitigazione. Non è un organo dell’UNFCCC, ma supporta e accompagna tecnicamente, attraverso una collazione dei lavori scientifici più prestigiosi sulla materia e una loro rielaborazione critica, le decisioni politiche in ambito UNFCCC.
I report dell’IPCC sono il prodotto di tre working groups (WG), una task force e un team di lavoro che coordina le attività di ciascun gruppo e supporta il presidente dell’IPCC per la relazione di sintesi. Il WG I valuta le conoscenze scientifiche e tecniche sul sistema climatico e i suoi cambiamenti; il WG II, la vulnerabilità dei sistemi socioeconomici e naturali al cambiamento climatico, in termini sia negativi sia positivi; il WG III si occupa delle possibili azioni per la mitigazione limitando le emissioni di gas serra (greenhouse gases, GHG) o promuovendo attività che le assorbano. La task force si occupa degli inventari nazionali dei GHG.
COP (Conference Of the Parties). – La Convenzione quadro, che al marzo 2014 contava 195 nazioni firmatarie (più la UE in qualità di organizzazione economica regionale integrata), ha l’obiettivo di stabilizzare le concentrazioni di GHG nell’atmosfera a un livello tale da impedire pericolose interferenze di origine antropica con il sistema climatico e limitarle a un livello in cui gli ecosistemi abbiano la possibilità di adattarsi ai cambiamenti conseguenti, la produzione alimentare non sia minacciata e lo sviluppo economico possa procedere in modo sostenibile. Sebbene originariamente non vincolante sui limiti di emissione dei GHG, prevedeva l’adozione di successivi ‘protocolli’ che dovevano essere invece vincolanti.
L’art. 3, 1° co. della Convenzione sancisce il principio in base al quale le par ti devono agire per proteggere il sistema climatico, con responsabilità comuni ma differenziate, e che i Paesi sviluppati dovrebbero prendere l’iniziativa per combattere i cambiamenti climatici e gli effetti negativi che comportano. Al contrario, i Paesi in via di sviluppo (PVS) non hanno restrizioni alle emissioni per non porre limiti alla loro crescita industriale (storicamente correlata all’uso crescente di energia) e per impedire che tali Paesi possano vendere i propri crediti di emissione alle nazioni industrializzate.
Importante, infine, il principio di precauzione, riconosciuto nell’art. 3.3, tale per cui l’incertezza scientifica sull’evoluzione dei cambiamenti climatici non è un motivo per non agire con azioni finalizzate alla mitigazione delle emissioni.
Ogni anno, dal 1995, le parti si riuniscono nella COP per confrontare le rispettive posizioni, esaminare gli eventuali progressi sul cambiamento climatico e prendere decisioni sul modo di affrontarlo. Dal 2005, le COP sono anche il luogo di riunione delle MOP (Meetings Of the Parties) del protocollo di Kyōto.
Dopo la prima COP (1995) tenutasi a Berlino (nelle cui conclusioni furono previsti due anni per l’analisi della situazione energetica ambientale e la formulazione di un pacchetto di proposte) e la COP 2 a Ginevra (con il rifiuto di politiche uniformi in favore di meccanismi che offrissero flessibilità nel perseguimento degli obiettivi), fu definito il
p. d. K., adottato durante la COP 3 che si tenne nel dicembre 1997 nella città giapponese.
Il trattato entrò in vigore il 16 febbraio 2005, con la ratifica della Russia, dopo che era stato ratificato da 55 nazioni responsabili almeno del 55% delle emissioni mondiali.
Il p. d. K. prevedeva che i Paesi cosiddetti Annex I (che hanno cioè l’obbligo di ridurre o stabilizzare le loro emissioni; fig. 1), industrializzati, diminuissero le loro emissioni di CO2, o gas equivalenti, di una percentuale minima del 5% rispetto alle emissioni che aveva prodotto nel 1990. Avrebbero raggiunto questo obiettivo con misure interne (fonti rinnovabili ed efficienza energetica), o con misure flessibili: meccanismi di sviluppo pulito (clean development mechanism, CDM, art. 12 del p. d. K.), implementazione congiunta (joint implementation, JI, art. 6) e con il meccanismo (art. 17) alla base di tutto il ‘sistema Kyōto’ ossia l’international emission trading (ET). Questo meccanismo si basa sulla distribuzione di quote di emissioni commerciabili assegnate a Paesi o impianti che sono soggetti a limiti di emissione in quantità pari alle emissioni limite consentite. Le emissioni aggiuntive non coperte dalle assegnazioni dovranno essere acquistate dal mercato o, in caso di comportamento virtuoso, si potranno vendere le quote in eccesso (v. mercati ambientali).
Assessment reports (AR). – L’IPCC ha pubblicato al 2014 cinque rapporti e tutti sono stati dirimenti per alcune questioni politico-scientifiche. La prima relazione (AR1), nel 1990 (e la relazione supplementare nel 1992) aveva accompagnato la nascita dell’UNFCCC, sottolineando alcuni aspetti fondanti: le concentrazioni in atmosfera di GHG sono aumentate per effetto delle attività industriali; tali gas sono responsabili di una parte dei cambiamenti climatici; l’incremento delle temperature medie mondiali continuerà durante il 21° sec. di 0,3 °C per decennio. Nel secondo AR, del 1995, prodromico all’approvazione del p. d. K., erano state confermate: la crescita della concentrazione di GHG; l’incremento della temperatura esponenziale nel periodo industriale; le evidenze scientifiche a sostegno di una diretta causalità antropogenica. Nel terzo (AR3, 2001) è stato affermato, tra l’altro: che le proiezioni sulle emissioni suggeriscono un riscaldamento nel 21° sec. a un ritmo più rapido di quanto riscontrato negli ultimi 10.000 anni; che gli ecosistemi e le specie sono vulnerabili ai cambiamenti climatici e alcuni saranno irreversibilmente danneggiati o persi; che l’adattamento ai cambiamenti può ridurne gli effetti negativi sul breve-medio periodo, ma non impedirà i danni strutturali. Con l’AR4 (2007), gli scienziati dell’IPCC hanno rappresentato che nel corso del 20° sec. il cambiamento climatico è avvenuto a causa di un aumento della temperatura media di 0,74±0,18 °C, attribuibile per il 95% all’attività umana. Il livello degli oceani è aumentato fra il 1961 e il 2003 di 1,8±0,5 mm annui e dal 1993 al 2003 di 3,1±0,7 mm annui. La conclusione dell’AR4 è che il 75% dell’incremento di CO2 negli ultimi 20 anni è attribuibile all’uso dei combustibili fossili e il 25% restante all’aumento della popolazione e alle accresciute necessità alimentari (per es., metano dagli allevamenti, dalle colture agricole e dalla deforestazione).
Infine, l’AR5, pubblicato nel 2014, afferma che il riscaldamento dell’atmosfera e dei mari è inequivocabile: questi ultimi sono ai livelli più alti da quando avvengono le misurazioni, i ghiacci della Groenlandia e dell’Artico si stanno riducendo drasticamente e il trentennio 1983-2013 è stato il più caldo degli ultimi 1400 anni. Inoltre, i gas a effetto serra sono a livelli mai raggiunti negli ultimi 800.000 anni, il livello della forzante radiativa prevalente è diretta conseguenza dell’incremento della CO2 in atmosfera. L’influenza umana è decisiva per il cambiamento climatico (WG I).
Nessuna area geografica del pianeta sarà immune dai cambiamenti climatici e si individuano otto rischi globali con un’alta probabilità di irreversibilità, che implicano morti, feriti e interruzione dei mezzi di sussistenza a causa di mareggiate e inondazioni costiere, la riduzione di servizi essenziali come l’elettricità, la fornitura di acqua potabile e mezzi di soccorso per condizioni meteorologiche estreme, l’insicurezza alimentare dovuta a riscaldamento, siccità, inondazioni e precipitazioni estreme (WG II). Le emissioni sono aumentate del 2,2% annuo tra il 2000 e il 2010, rispet to allo 0,4% tra il 1970 e il 2000; senza nuove politiche di mitigazione, si indica un potenziale aumento della temperatura media globale nel 2100 di 3,7-4,8 °C rispetto al livello preindustriale. Per raggiungere l’obiettivo limite di 450 ppm di concentrazione di CO2 posto dalla comunità scientifica internazionale per evitare che le temperature medie globali aumentino di oltre 2 °C alla fine del secolo, la riduzione dei GHG dovrebbe essere tra il 40% e il 70% entro il 2050 rispetto ai livelli del 2010, per arrivare al traguardo fissato alla fine del secolo. Più probabilmente la concentrazione di CO2 in atmosfera supererà, entro la fine del secolo, le 550 ppm. Le attività di mitigazione costeranno fra l’1,6% e il 3% del PIL mondiale annuo (WG III).
Principali attori.– Stati Uniti e Canada. – Nonostante il recepimento delle richieste statunitensi sull’introduzione dei meccanismi flessibili e la possibilità di ottenere crediti dai pozzi (sink) di carbonio (boschi e terre agricole), che avrebbero soddisfatto buona parte della riduzione delle emissioni statunitensi, nella COP 6 bis (Bonn, luglio 2001) gli Stati Uniti, anche in conseguenza del fatto che l’allora presidente George W. Bush aveva rigettato a marzo il p. d. K., si sono presentati solo come osservatori. E tali sono rimasti.
La posizione statunitense è rimasta coerente con il principio di simmetria, secondo il quale le limitazioni avrebbero dovuto essere comuni anche ai PVS che non sono invece di fatto coinvolti nella riduzione delle emissioni cosicché queste, in conseguenza della crescita produttiva di tali Paesi, continueranno ad aumentare in maniera proporzionale alla loro crescita economica. Dal 2011 anche il Canada si è ritirato dal protocollo di Kyōto.
Entrambi i Paesi riflettono sull’opportunità di implementare meccanismi volontari interni di riduzione delle emissioni, al di fuori del p. d. K., anche se le ultime indicazioni sono più indirizzate verso la tassazione.
Nel giugno 2014, il presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha annunciato che appoggerà la proposta dell’EPA (Environmental Protection Agency) per abbassare le emissioni di CO2 entro il 2030 del 30% rispetto ai livelli del 2005, ridurre del 25% gli ossidi di azoto e il biossido di zolfo, e ridurre i costi dell’energia elettrica dell’8% con un miglioramento dell’efficienza energetica.
Unione Europea. – L’UE è il principale e più attivo soggetto che abbia assunto gli obiettivi del protocollo di Kyōto. La direttiva 2003/87/CE (ETS, Emissions Trading Scheme), che istituisce una disciplina comunitaria per lo scambio di quote di emissioni dei gas a effetto serra, è il primo e più importante sistema di cap & trade per l’attuazione del p. d. K., ma funziona come un sistema indipendente dallo stesso protocollo. Infatti, l’EU-ETS proseguirà a prescindere da un ulteriore accordo internazionale. L’UE, similarmente all’art. 17 del p. d. K., ha fissato un tetto massimo delle emissioni, a livello di impianti produttivi, e consente ai partecipanti di acquistare e vendere quote secondo le loro necessità all’interno di tale limite. Costringendo le aziende a confrontarsi con i costi delle emissioni si intende stimolare l’iniziativa privata della comunità imprenditoriale per una crescita tecnologica più innovativa ed economica, finalizzata a combattere il cambiamento climatico.
Nell’aprile 2009, è stato approvato il cosiddetto pacchetto clima-energia. Con questo insieme di norme, l’Unione Europea ha assunto l’impegno di ridurre le emissioni di GHG del 20%, entro il 2020, rispetto al 1990. Questa riduzione è un impegno valido prevalentemente all’interno dei confini comunitari, incentrato sull’utilizzo dell’energia rinnovabile, dell’efficienza energetica e sul cap & trade della CO2; rinnovando l’impegno anche per il post Kyōto. Nell’ottobre 2014 l’UE ha trovato un accordo su nuovi obiettivi climatici per il 2030. Il pacchetto prevede una riduzione dei GHG del 40%, rispetto ai livelli del 1990, da attuarsi attraverso un incremento della produzione da fonti rinnovabili e dell’efficienza energetica al 27%. L’EU-ETS sarà riformata e rafforzata. Con questo accordo l’UE si presenterà alla conferenza sul clima di Parigi 2015 (COP 21).
Cina. – La Cina è diventata, dall’ingresso nel WTO (World Trade Organization) nel 2001, la prima potenza commerciale al mondo. Nel 2013 ha importato circa 6 milioni di barili di petrolio al giorno e 37 miliardi di metri cubi di gas; il consumo di carbone per la produzione elettrica è cresciuto nel 2011 del 9,7%; oggi il Paese asiatico è il maggiore emettitore mondiale. La Cina ha ratificato il p. d. K. e si è impegnata a firmare un ulteriore accordo internazionale sul clima a patto che questo non limiti il proprio sviluppo. La Cina sostiene, infatti, che i Paesi sviluppati hanno creato la propria industrializzazione senza tenere conto delle esternalità negative dell’inquinamento, dunque, oggi non si dovrebbe chiedere ai PVS di rallentare la propria crescita sulla base delle emissioni.
Ciononostante, in circa dieci anni, la Cina ha quasi dimezzato il rapporto intercorrente tra emissioni e prodotto interno lordo (carbon intensity); nel 2013 ha soddisfatto il 10% della sua richiesta elettrica da fonti rinnovabili (si è autoimposta come target al 2020 di arrivare al 15%) e investe nel settore poco meno del 5% del proprio PIL. He Jiankun, presidente del Comitato consultivo della Cina sui cambiamenti climatici, nel giugno 2014, ha affermato che è intenzione della Cina imporre un limite massimo di emissioni di CO2 quando il suo prossimo piano quinquennale entrerà in vigore nel 2016. Sebbene non sia possibile stabilire ora quanto stringenti potranno essere questi limiti, l’annuncio ha creato grande entusiasmo in vista della COP 21, soprattutto perché nell’area asiatica il Giappone, quinto emettitore mondiale nel 2013, ha dichiarato che non firmerà un accordo sul clima se i suoi concorrenti industriali, Cina, Unione Indiana e Indonesia, non faranno lo stesso.
Le rotte della CO2. – Al netto dei trasporti, nel 1990, le emissioni complessive mondiali erano di 22,7 miliardi di tonnellate (Gt), con il 51,22% a carico dei Paesi sviluppati (USA, UE, Giappone e altri Annex II), il 18,63% riconducibile ai Paesi con economie in transizione (ex URSS) e soltanto il 30,14% ai PVS, fra cui la Cina. Dopo 22 anni la geografia economica emissiva è molto cambiata. Nel 2012 le emissioni di GHG imputabili ai Paesi Annex II (al netto delle economie in transizione, 8,42%) sono state di 11,37 Gt pari al 34,05%; i PVS hanno prodotto il 57,5% delle emissioni globali. In compenso, in 22 anni le emissioni complessive di GHG sono cresciute del 51,26%, rispetto ai livelli del 1990, arrivando alle 33,37 Gt, con un incremento medio annuo del 2,33%. Il PIL mondiale, al netto della svalutazione monetaria, è cresciuto nello stesso periodo del 3% annuo, da 27.539 miliardi di dollari del 1990 a 45.730 miliardi del 2012 (al valore 1990; 71.830 miliardi al valore corrente). Si evidenzia un disallineamento tra la crescita del PIL e le emissioni, pur considerando che in questi anni una parte significativa della ricchezza è derivata dall’incremento del terziario (i servizi), che spesso ha un’alta remunerazione a fronte di una bassa intensità carbonica. Nello specifico, la crescita tra il 1990 e il 2015 dei Paesi OECD (Organisation for Economic Co-operation and Development)si è mantenuta intorno al 2,2% annuo, quella dei non OECD è stata del 4,9% tra il 1990 e il 2010 e del 6,1% nel quinquennio successivo.
La domanda di energia primaria, nello scenario delle politiche attuali, si prevede possa crescere dai 10 Gtep del 2000 a 18,6 Gtep nel 2035, con un baricentro che si sposta verso le economie emergenti, Cina, India e Medio Oriente. La Cina sta diventando il principale importatore di petrolio e l’India lo diverrà entro il 2020 del carbone (IEA 2013). Anche considerando che in Africa 700 milioni di persone non hanno accesso all’energia elettrica (la metà circa della popolazione mondiale che ne è priva), le emissioni di GHG potranno aumentare al 2035 di oltre il 20%, in linea con lo scenario di 3,6 °C di aumento della temperatura a fine secolo.
Il settore energetico e produttivo è responsabile di due terzi delle emissioni complessive: pertanto, per comprendere le rotte della CO2 e la geografia emissiva, con buona approssimazione, è sufficiente seguire la produzione manifatturiera e moltiplicarla per un coefficiente che rappresenti il mix energetico del Paese produttore (fig. 2). Per es., nel 2013 gli Stati Uniti hanno esportato beni verso la Cina per 122 miliardi di dollari e assorbito importazioni per 440 miliardi. L’UE ha esportato verso la Cina beni per 148 miliardi di euro e importato per un valore di 280 miliardi. Il bilancio commerciale per entrambi risulta negativo anche con l’India, rispettivamente di 20 miliardi di dollari per gli USA e 1 miliardo di euro per l’UE. L’India è passata da una richiesta energetica, nel 1990, di 180 Mtep ai 543 Mtep del 2010. L’elettricità, nello stesso anno, è stata prodotta per il 50% da carbone, per il 30% da petrolio, per il 10% da gas e per il rimanente 10% da fonti rinnovabili e nucleare (attualmente soltanto il 55% della popolazione indiana accede all’energia elettrica). In Cina, nel 2010, il carbone ha coperto la produzione elettrica fino all’80%. Questi dati, e altri, chiariscono che parte dei beni consumati nei Paesi OECD vengono prodotti da PVS con un’alta intensità carbonica.
Prossimi scenari. – Dopo i disimpegni di Giappone, Russia, Stati Uniti e Canada e le dichiarazioni di altre aree a forti emissioni, i negoziati per un trattato post Kyōto non sono giunti ad accordi decisivi. Nonostante le dichiarazioni d’impegno, come il piano d’azione di Bali (COP 13, 2007), l’accordo di Copenaghen (COP 15, 2009), gli accordi di Cancún (COP 16, 2010) e la piattaforma di Durban per un’azione rafforzata (COP 17, 2011), gran parte delle aspettative di trovare un accordo mondiale sulle limitazioni dei GHG sono riposte nella COP 21.
Nell’ambito della COP 15, una parte dei Paesi partecipanti ha raggiunto un accordo secondo il quale il riscaldamento globale deve essere limitato al di sotto di 2 °C. L’accordo non precisa se tale obiettivo faccia riferimento ai livelli preindustriali o del 1990. In realtà, l’assemblea ha solo ‘preso atto dell’accordo’.
A Durban, le parti hanno convenuto di «sviluppare un protocollo, un altro strumento giuridico o un risultato concordato con forza legale, ai sensi della Convenzione, applicabile a tutte le parti». Questo nuovo accordo dovrebbe essere adottato in occasione della COP 21 a Parigi e dispiegare i suoi effetti dal 2020.
La conferenza di Lima, nata con le minime aspettative di un quadro comune di regole e processo da discutere nel corso dell’anno e ratificare a Parigi, ha pienamente confermato le difficoltà tutt’ora persistenti per il raggiungimento di un accordo che coinvolga tutti i Paesi. Le parti hanno convenuto di presentare su base volontaria contributi, anche indicativi, sulle misure da adottare per contrastare e mitigare i cambiamenti climatici. Il Segretariato UNFCCC ha assunto il compito di stilare un report sintetico sull’effetto aggregato di queste proposte. Tuttavia è di rilievo la cancellazione della distinzione tra Paesi sviluppati e non sviluppati.
Le risultanze, influenzate più dall’accordo USA-Cina sulla riduzione delle emissioni nei rispettivi ambiti nazionali (2015) che non dall’impegno europeo, fanno ritenere plausibile per la conferenza di Parigi (2015) l’impegno a raggiungere obiettivi con scadenze differenziate tra i vari Paesi in relazione al loro grado di sviluppo in un arco di tempo dilazionato. Decisive ai fini dell’efficacia del nuovo accordo saranno le modalità di conteggio delle emissioni, la trasparenza e la condivisione dei dati.
Bibliografia: International energy agency (IEA), World energy outlook 2013, Paris 2013; A. Gerbeti, CO2 nei beni e la competitività industriale europea, Milano 2014; European commission, directorate-general for trade, DG trade, statistical pocket guide, Luxembourg 2015.
Webgrafia: Commissione europea, Libro verde: un quadro per le politiche dell’energia e del clima all’orizzonte 2030, Bruxelles 2013, http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=COM:2013:0169:FIN:IT:PDF; IPCCC, Fifth assessment report (AR), Geneva 2014, https://www.ipcc.ch/report/ar5/; Energy information administration (EIA), International Energy outlook 2014, Washington (D.C) 2015, http://www.eia.gov/forecasts/ieo/pdf/0484 (2014).pdf. Tutte le pagine web si intendono visitate l’ultima volta il 20 ottobre 2015.