di Silvia Menegazzi
La pluralità terminologica è una delle caratteristiche distintive del dibattito sulla società civile in Cina, un concetto tradotto con tre termini utilizzati secondo il loro specifico significato. Nei primi due, gongmin shehui e shimin shehui, letteralmente ‘società dei cittadini’, la relazione stabilita tra stato e società è intesa in termini positivi. La differenza tra i due vocaboli riguarda il senso originario di cittadino: gongmin fu introdotto in Cina agli inizi del 20° secolo fin da subito con un significato politico, intendendo un cittadino attento ad anteporre il bene collettivo a quello del singolo. Shimin invece, anch’esso tradotto come ‘cittadino’, è una parola di origine cinese, inizialmente priva di connotazione politica e utilizzata ancora oggi per indicare il cittadino in ambito privato. Un terzo termine, minjian shehui (‘società del popolo’), indica invece una società operante in un contesto autonomo rispetto al potere politico, nel quale stato e società sono considerati come forze antagoniste. La stessa traduzione cinese di ONG, fei zhengfu zuzhi, è spesso inadatta a illustrare la moltitudine di organizzazioni attive al di fuori del settore governativo, laddove per descrivere la complessa realtà cinese è necessario distinguere tra organizzazioni civili (shehui tuanti), unità private non-imprenditoriali (min ban fei qiye danwei) e fondazioni (jijinhui). Una dimensione, quella cinese, spesso distante dalla concezione liberale di società civile, nella quale le organizzazioni non governative diventano parte integrante di un sistema definito da alcuni ‘corporativismo di stato autoritario’. In questo caso il successo dello schema corporativo è stabilito anche grazie all’istituzione di ONG controllate dallo stato (GONGO) e attive in collaborazioni con le organizzazioni di base della società civile, garantendo così il controllo della società anche in quei settori a prima vista distaccati dall’apparato governativo.
Prima della fondazione della Repubblica Popolare Cinese la sfera sociale in Cina era gestita da organizzazioni operanti su base familiare, oppure da organizzazioni statali. In epoca maoista, le organizzazioni autonome (inclusi i gruppi politici, sociali e religiosi) furono per la maggior parte assorbite all’interno dell’apparato governativo, rimpiazzate dalle cosiddette organizzazioni di massa, oppure semplicemente disperse. Con il periodo di ‘riforma e apertura’ inagurato da Deng Xiaoping nel 1978, il governo iniziò a condividere responsabilità ed erogazione dei servizi destinati al benessere sociale con le organizzazioni non governative. Da un lato, la cooperazione tra stato e ONG è quindi oggi considerata in termini positivi dal partito, in particolare per il loro ruolo di ‘supporto’ alle politiche pubbliche destinate alla gestione sociale. Dall’altro, nella primavera del 1989, le organizzazioni non governative guidate da intellettuali e dissidenti, alle quali aderirono migliaia di studenti e lavoratori, contribuirono notevolmente alla rivolta di Piazza Tian’anmen, e i leader cinesi restano tutt’oggi preoccupati del forte potere associazionistico e di mobilitazione delle masse di queste organizzazioni. Forti restrizioni sono applicate verso le ONG operanti nei settori considerati più sensibili dal governo, come quello dei diritti umani, dove la repressione messa in atto dagli apparati di sicurezza dello stato obbliga molto spesso le organizzazioni a stabilire le loro sedi direttamente all’estero, come avvenuto per HRIC (Human Rights in China). Il ministero per gli affari civili (MOCA), l’organo supremo incaricato di vigilare sulle organizzazioni non governative e non profit cinesi, proprio dal 1989, con il ‘Regolamento sulla registrazione e sull’amministrazione delle associazioni’, stabilisce regole precise circa l’esistenza delle ONG, come il processo di duplice registrazione, secondo il quale ogni organizzazione deve assicurarsi un’associazione in funzione di garante. O ancora il principio della supervisione a diversi livelli, che limita le attività di tali organizzazioni alla provincia di registrazione.
Nonostante un controllo capillare della società, negli ultimi anni le proteste definite come ‘incidenti di massa’ sono aumentate in maniera esponenziale, con stime ufficiali che ammontano tra le 250 e le 500 proteste giornaliere. Diverse le cause: dalle proteste nelle aree rurali contro i funzionari locali corrotti alle rivolte per i disastri ambientali, fino alle proteste definite ‘pro-democratiche’, come quella del 2011, coeva alle Primavere arabe; o ancora alle manifestazioni di stampo nazionalistico, come quella del 2012, in risposta alla nazionalizzazione delle Isole Diaoyu-Senkaku da parte di Tokyo. Ci sono poi le proteste considerate di natura ‘etnica’, anch’esse molto frequenti in Cina, in particolare nelle provincie di frontiera quali Tibet, Mongolia Interna e Xinjiang. Ultime, ma non in ordine d’importanza, le manifestazioni di dissenso online: l’associazionismo ‘virtuale’ sembrerebbe essere tra le forme di aggregazione preferite da molti dissidenti cinesi, che sempre più utilizzano la rete per condividere informazioni considerate sensibili e organizzare mobilitazioni. Proprio per questo, le proteste online sono considerate dal governo come una pericolosa minaccia ai fini della stabilità sociale e politica del paese.