PROTAGORA (Πρωταγόρας, Protagŏras) di Abdera
Massimo rappresentante dell'antica sofistica greca, la quale, in quanto movimento speculativo, si può considerare inaugurata da lui. Apollodoro colloca il suo fiorire nell'olimpiade 84ª (444-440 a. C.): la sua data di nascita verrebbe quindi a cadere tra il 484 e il 481; e quest'ultima data parrebbe confermata dalla probabilità che il processo a cui seguì la sua morte abbia avuto luogo nel 411, dato che Platone (Meno, 91 e) riferisce com'egli abbia vissuto circa 70 anni (meno attendibile è la notizia, rimasta in Diogene Laerzio accanto alla precedente, che abbia avuto invece 90 anni di vita). Certo è, comunque, che egli appartiene al quinto secolo, e che è contemporaneo tanto del suo grande avversario Socrate quanto del suo concittadino Democrito, rispettivamente più giovani di lui di più che dieci e venti anni. Di conseguenza, nonostante che la struttura della sua concezione gnoseologica faccia pensare a una soluzione soggettivistica delle difficoltà implicite nella gnoseologia oggettivistica di Democrito, non è verosimile che egli sia stato suo scolaro (come pur sosteneva Epicuro), ed è anzi attestato che Democrito combatté la sua dottrina. Che egli sia nato, come l'atomista, ad Abdera non è d'altronde dubbio, perché anche l'indicazione del poeta comico Eupoli, il quale negli Adulatori dà a P. la qualifica di Teio, si spiega in quanto Abdera, dopo la distruzione operatane dai Traci nel 543, era stata ricostruita da coloni di Teo. Secondo il citato passo del Menone platonico, P. esercita per quarant'anni, dai trenta in poi, la professione del sofista: erra per la Grecia ammaestrando i giovani nell'arte oratoria e dialettica, e raggiunge con tale opera prestigio e ricchezza enormi. Per la sua fama di sapienza riceve anche incarichi importanti, come quello della compilazione di un codice di leggi per la colonia abderita di Turi. Ma l'antitesi dell'illuminismo sofistico, da lui eminentemente rappresentato, rispetto alla cultura tradizionale suscita il sospetto degli ambienti a quella più fedeli; e la pubblicazione del suo scritto Sugli dei (dove, stando all'unico frammento superstite, egli sostiene di "non potere asserire nulla circa gli dei, né se esistano, né se non esistano, né quale natura abbiano, giacché molte sono le cose che impediscono di saperlo, come l'oscurità dell'argomento e la brevità della vita umana") offre il destro a Pitodoro, uno dei Quattrocento, di accusarlo di ateismo. Condannato, è costretto ad abbandonare, non si sa bene se bandito o fuggiasco, Atene, che era stata il centro principale della sua attività e dove egli aveva goduto dell'amicizia del ricco mecenate Callia e di uomini quali Euripide e Pericle (quest'ultimo appare anzi, a più tardi giudici, quasi suscettibile di biasimo, per essersi lungamente trattenuto a discutere col sofista di problemi etico-giuridici). Il suo libro Sugli dei viene arso sulla piazza del mercato di Atene, ed egli muore, forse per naufragio, mentre naviga verso la Sicilia.
Nonostante che l'importanza del pensiero protagoreo nell'evoluzione della filosofia classica appaia indiscussa, assai controversa è la determinazione della sua esatta fisionomia storica, soprattutto a causa della scarsezza dei documenti superstiti e della loro natura. Di frammenti autentici di P., se si prescinde da un brano citato da Plutarco e d'interesse sopra tutto stilistico-retorico, in cui Pericle è elogiato per la serenità con cui sopportò la morte dei figli (fr. 9 Diels), e qualche altra minuzia, di contenuto prevalentemente pedagogico-didattico (fr. 3, 10, 11, 12 Diels), non rimangono infatti che le celebri frasi iniziali dello scritto Sugli dei e di quello sulla Verità (fr. 1 e 4 Diels): per il resto, il suo pensiero ci è noto solo attraverso altrui testimonianze, che sono spesso anche interpretazioni e ricostruzioni ideali (raccolta completa dei frammenti, e abbondante, ma per qualche aspetto insufficiente, silloge di testimonianze in H. Diels, Die Fragmente der Vorsokratiker, II, 4ª ed., Berlino 1922, pp. 219-35; trad. ital., non sempre sicura, di questa edizione in M. Timpanaro Cardini, I sofisti, Bari 1923, pp. 4-32. Un tentativo di ampliare la silloge del Diels è stato compiuto da E. Bodrero, P., II, Bari 1914, che contiene inoltre anche i principali dialoghi in cui Platone si occupa di P., e cioè il Protagora e il Teeteto, anch'essi in versione italiana). Malsicura è la stessa serie delle sue opere, incompleta essendo quella fornita da Diogene Laerzio (IX, 55), la quale tuttavia contribuisce a testimoniare che gli altri scritti di P. non subirono la sorte che per la condanna di P. toccò a quello Sugli dei. Il più celebre fra tutti era quello intitolato 'Αλήϑεια, Verità, che s'iniziava con le parole superstiti nel frammento fondamentale di P., sull'homo mensura: e giacché queste parole sono pure citate come inizianti i Καταβάλλοντες (scil. λόγοι, cioè i Ragionamenti demolitori, stroncatori), così i due titoli dovevano riferirsi a un'unica opera ('Αλήϑεια ἢ Καταβάλλοντες), o 'Αλήϑεια designare una prima parte dei Καταβάλλοντες (quando non si volesse ammettere, col Diels, che il primo titolo si fosse generato - anche per analogia con l'eguale titolo di opere di Parmenide, Antifonte, ecc. - da una didascalia iniziale, in cui ciò che seguiva venisse annunciato come "ciò che sembrava vero a P."). Non diversi dai Καταβάλλοντες potrebbero anche essere, per alcuni, il Περὶ τοῦ ὄντος (Sull'ente) e le 'Αντιλογίαι (Confutazioni). Quest'ultima opera, comunque, dalla quale, secondo la tendenziosa testimonianza di Aristosseno, Platone avrebbe attinto la massima parte della sua Repubblica, doveva per ciò stesso occuparsi di problemi politici, mentre nella sua struttura formale rispondeva certo al metodo protagoreo dell'ἀντιλογία, della contradictio, mediante cui a ogni tesi poteva sempre essere vittoriosamente contrapposta la sua antitesi. Vera infatti (come sarà meglio chiarito più oltre) essendo per P. ogni soggettiva opinione, e potendo quindi a proposito di ogni argomento sussistere opinioni contrarie (esistenza del δισσὸς λόγος, del "ragionamento duplice"), l'abilità dell'oratore doveva consistere nel sostituire, nel convincimento dell'ascoltatore, un'opinione a un'altra: e giacché tale abilità era naturalmente tanto maggiore quanto più valide radici avesse avuto l'opinione da oppugnare, s'intende come questo ideale della retorica-dialettica protagorea potesse essere simboleggiato nella formula del "far prevalere la tesi altrimenti destinata alla sconfitta" (τὸν ἥττω λόγον κρείττω ποιεῖν, letteralmente "render più forte l'argomentazione più debole": dove il rapporto di prevalenza di un λόγος rispetto all'altro non è da intendere in senso assoluto, perché ciò contraddirebbe alla tesi protagorea della pari verità relativa di ogni λόγος - donde l'errore di Aristofane, che nelle Nubi viene di fatto a identificare i due λόγοι al "ragionamento giusto" e al "ragionamento ingiusto", riferendo del resto questa concezione protagorea a Socrate - ma solo dal punto di vista della maggiore o minore sua plausibilità in seno all'ambiente che doveva essere fatto mutar di parere). A tale aspetto specificamente retorico-dialettico della concezione di P. doveva rispondere anche la Τέχνη ἐριστικῶν, cioè l'Arte delle controversie; mentre probabilmente al Περὶ τῶν μαϑημάτων appartiene la critica della conoscenza matematica che P. svolgeva (fr. 7 Diels), nello spirito della sua gnoseologia escludente l'antitesi di una norma oggettiva di verità ai dati dell'esperienza empirica, quando osservava come gli enti della geometria non esistessero di fatto nella loro ideale realtà, la tangente non toccando mai il cerchio in un punto solo. Dubbî, d'altronde, sono i titoli di queste ultime due opere, che potrebbero essere stati ricostruiti soltanto più tardi, in base alle citazioni stesse del loro contenuto; e così dubbî sono gli altri titoli pure riferiti da Diogene Laerzio (su cui cfr. Diels, op. cit., pp. 230-31 n.), tra i quali sia da ultimo ricordato il Περὶ τῆς ἐν ἀρχῇ καταστάσεως (Sulla condizione originaria dell'umanità), che, se non è stato escogitato proprio per rendere conto del Protagora platonico, dovrebbe designare l'opera concernente la stessa questione alla quale si riferisce il "mito" protagoreo che Platone, imitando il pensiero e lo stile del sofista, ha inserito in quel dialogo.
Data l'incertezza in cui resta avvolta la produzione letteraria di P e la scarsezza delle testimonianze relative a sue dottrine particolari, problema essenziale della critica storica a suo riguardo resta quello dell'interpretazione della sua fondamentale tesi gnoseologica: dalla retta soluzione di tale problema dipende infatti anche la possibilità di meglio intendere quegli stessi accenni alle dottrine particolari. Il problema è costituito dal fatto che da un lato l'unico frammento protagoreo riferentesi a quella tesi (e che, come si è detto, costituisce l'inizio dell'opera intitolata 'Αλήϑεια, o Καταβάλλοντες) ammette, per la stessa sobrietà della sua formula, più d'una interpretazione, e che d'altro lato le testimonianze degli antichi autori che dovrebbero aiutare a comprenderla sono in molti casi tanto soggettivamente orientate, da rendere problematica la distinzione di ciò che in esse sia propriamente protagoreo da ciò che in base alle premesse del sofista vi si trovi invece dedotto a scopo teorico o polemico. Il frammento (1 Diels) suona: πάντων χρημάτων μέτρον ἐστὶν ἄνϑρωπος, τῶν μὲν ὄντων ὡς ἔστιν, τῶν δὲ οὐκ ὄντων ὡς οὐκ ἔστιν. E cioè, letteralmente: "Di tutte le cose è misura l'uomo, di quelle che sono, in quanto sono, di quelle che non sono, in quanto non sono". La prima difficoltà sorge a proposito dell'ὡς (sopra tradotto, genericamente, "in quanto"), il quale può valere infatti tanto "che" quanto "come", risultando di conseguenza subordinata da P. all'esperienza umana nel primo caso l'esistenza stessa delle cose, nel secondo caso solo la qualità, la configurazione che esse verrebbero ad assumere per il loro presentarsi a quell'esperienza. La maggioranza degl'interpreti moderni (p. es. Diels, Th. Gomperz, H. Gomperz) opta per il primo significato, riferendosi soprattutto al frammento sugli dei, in cui la determinazione qualitativa (ὁποῖοί τινες ἰδέαν) appare distinta e successiva a quella esistenziale (οὐϑ'ὡς εἰσὶν οὐϑ'ὡς οὐκ ἐισίν), e al fatto che altrimenti non s'intenderebbe in che senso si potesse parlare qualitativamente, e non solo esistenzialmente, del non essere degli οὐκ ὄντα. Quest'ultima argomentazione peraltro non regge quando si pensi come dal punto di vista di chi creò l'antitesi del non-essere all'essere, e cioè di Parmenide (e che P. abbia polemizzato contro l'eleatismo è altrove esplicitamente attestato), "non enti" erano di fatto tutti i particolari, e quindi qualitativamente determinati, aspetti della realtà, in quanto contraddicevano all'unico ente: P. poteva quindi ben far dipendere dalla soggettività umana il concreto modo d'apparire tanto delle realtà che potevano dirsi enti quanto di quelle che potevano dirsi non enti. Né convince l'argomento tratto dal frammento circa gli dei, dato che in esso medesimo non è sicura l'esistenza dell'aggiunta qualitativa, la quale mal quadra con la tesi negativa che immediatamente precede, e addirittura manca in alcuni dei testi che riferiscono il frammento (v. su ciò Diels, l. c., p. 230 n.). Non adeguatamente sorretta da tali argomenti, l'interpretazione puramente esistenziale dell'ὡς è d'altronde nettamente contraddetta dallo stesso concetto che tali critici si formano della gnoseologia protagorea, secondo il quale essa sarebbe piuttosto uno schietto positivismo (Th. Gomperz) o un fenomenismo realisticamente orientato, teorizzante il molteplice riflettersi soggettivo dei molteplici aspetti oggettivi della realtà (H. Gomperz) e non quel puro soggettivismo idealistico, di stampo berkeleyano, che essa dovrebbe pur essere se la "misura" umana si riferisse senz'altro all'esistenza. La contraddizione si elimina bensì quando si noti come il problema della determinazione del valore esistenziale o qualitativo dell'ὡς sia storicamente mal posto, proprio in quanto non poteva essere presente alla consapevolezza di P. la distinzione dell'esistenza dall'essenza, le quali solo nell'ulteriore sviluppo del pensiero dovevano venire in luce nella loro alterità. Tale distinzione veniva di fatto a coincidere con quella dell'essere esistenziale dall'essere predicativo, i quali nella concezione parmenidea, a cui P. doveva opporsi, erano di fatto fusi e unificati, e che solo Aristotele, al termine di tutta un'ulteriore evoluzione del pensiero logico, doveva distinguere. Come Parmenide, cioè, diviene comprensibile solo quando si ricostituisca storicamente l'unità indifferenziata di quei concetti nell'unico vocabolo εἶναι, così l'ὡς protagoreo viene sottratto alle difficoltà ermeneutiche quando si avverta la necessità di non esigere da esso determinazioni storiche seriori. Lo stesso motivo critico vale del resto a eliminare anche l'altro grosso problema, più volte dibattuto, della natura dell'"uomo" elevato da P. a metro delle cose: ché si è dubitato se si trattasse dell'uomo singolo o della natura umana in universale, e non sono mancati sostenitori (p. es. Th. Gomperz) di quest'ultima tesi. L'uomo in universale era infatti un concetto di cui il vecchio P. avrà forse sentito parlare dal suo più giovane avversario Socrate, ma che non avrebbe comunque mai potuto considerare fondamento e criterio di tutte le cose, giacché solo Platone giunse a concepire e a sostenere la sua reale esistenza. La restituzione dell'ambiente storico elimina così, in questo caso, il problema, non riportando all'unità originaria i termini della controversia seriore, ma escludendo come seriore uno dei termini della controversia.
I risultati di questa analisi del frammento protagoreo in sé considerato appaiono d'altronde confermati da quelli che si possono ricavare dalle altrui testimonianze, nei limiti in cui è dato considerarle come storicamente aderenti. La testimonianza di gran lunga più importante è a questo proposito, com'è noto, quella di Platone, che dedica la maggior parte del Teeteto all'interpretazione e alla discussione della gnoseologia protagorea. Platone ricollega questa gnoseologia all'eraclitismo, considerandola come una specie di reduplicazione della sua tesi dell'universale divenire: al divenire oggettivo delle cose verrebbe infatti ad aggiungersi il divenire soggettivo dei senzienti, e dalle sintesi che caso per caso si realizzerebbero tra i momenti dei due processi deriverebbero le effettive esperienze sensibili, cioè l'aspetto della realtà manifestantesi istante per istante all'uomo, con eguale e indiscriminabile valore di verità nonostante le differenze di contenuto. A questa esposizione platonica risale, di fatto, la maggioranza degl'interpreti moderni, in quanto considera la dottrina di P. non come un semplice relativismo soggettivo ma piuttosto come un "correlativismo", cioè come una sorta di contemperamento tra oggettivismo e soggettivismo. Ma un minuto esame della trattazione platonica mostra, attraverso molteplici elementi tanto formali (p. es. la designazione del presupposto e rielaborato eraclitismo come di "dottrina segreta", che quindi non poteva trovarsi nel libro di P.) quanto materiali, come essa dipenda in realtà solo dalla raffigurazione della gnoseologia protagorea come tale che venga a coincidere con la definizione avanzata da Teeteto, per cui la conoscenza è sensazione. Non s'intenderebbero infatti i varî aspetti, gnoseologici, dialettici e retorici, del relativismo protagoreo, quali risultano dallo stesso dialogo platonico oltre che dalle altre testimonianze, se non si risalisse, anche qui, all'indifferenziato concetto del δοκεῖν, del "parere", che a tutti quegli aspetti poteva riferirsi: δοκεῖ μοι, mihi videtur, poteva infatti concernere tanto il contenuto della sensazione quanto quello dell'immaginazione e del sogno, quanto, infine, quello dell'opinione giuridica e politica, tema del δισσὸς λόγος e modificabile con l'arte dialettico-retorica. L'identificazione della δόξα con la semplice sensazione rendeva di fatto problematica la comprensione di tali altri aspetti, come p. es. di quello del sogno: Platone lo contrappone infatti polemicamente alla veglia proprio in virtù del suo concetto della conoscenza eracliteo-protagorea come risultante da una sintesi di realtà interna e realtà esterna, che nel caso del sogno viene a mancare; e il fatto che egli debba infine riconoscere come tale obiezione non sia valida contro P. conferma come essa sia possibile solo sul piano dell'interpretazione realistico-eraclitea che Platone medesimo dà della sua dottrina. Anche la massima parte delle altre testimonianze, così come molte espressioni dello stesso Teeteto, convengono del resto nel formulare la concezione protagorea nel senso di una semplice identità dell'εἶναι al δοκεῖν: P. sostenne, dicono tutti questi passi, "che le cose erano come sembravano a ognuno", τὰ ἑκάστῳ δοκοῦντα ταῦτα καὶ εἶναι; e chi ricordi l'antitesi parmenidea tra la verità dell'εἶναι e l'errore della δόξα ben comprende come P. abbia potuto apparire antieleatico, con la sua risoluzione dell'εἶναι nel δοκεῖν. Vero è che contro tutto ciò sembra militare la testimonianza delle Ipotiposi pirroniche di Sesto Empirico (I, 216 segg. - Protag., fr. A 14 Diels), considerata da molti (e anche di recente da H. Gomperz) come fondamentale, in cui la concezione gnoseologica di P. viene esposta in modo simile a quella in cui la ricostruisce Platone nella prima parte del Teeteto. Ma il fatto che a tale presentazione realistico-eraclitea contraddica nettamente una delle frasi conclusive del brano stesso, secondo la quale "tutto ciò che appare agli uomini, anche è, e ciò che non appare a nessun uomo, neanche è", mentre quest'ultima consuona non solo, come s'è detto, con la maggioranza delle altre testimonianze, ma anche con altri passi dell'Adversus mathematicos dello stesso Sesto Empirico, rende ovvia la conclusione che nella prima parte del suo brano il tardo scrittore scettico si sia lasciato influenzare dal ricordo del Teeteto: e che egli non si sia accorto della contraddizione in cui perciò veniva a cadere non è cosa che debba sorprendere, quando si ricordino, per es., le assai più gravi confusioni compiute da Sesto nel riferire il contenuto dello scritto Sul non ente dell'altro grande sofista del secolo V (v. per ciò gorgia).
Questa ricostruzione del più generale e primitivo aspetto della gnoseologia protagorea getta qualche luce, infine, anche sull'oscuro problema dell'atteggiamento storico di P. rispetto all'obiezione fondamentale a cui andava incontro la sua dottrina, in quanto doveva riconoscere come vera, per colui a cui tale fosse apparsa, anche la negazione di sé medesima. Questa obiezione, largamente sviluppata nel Teeteto platonico ma dalla tradizione attribuita già a Democrito, manifesta di fatto tutta la sua forza solo quando si attribuisca alla gnoseologia protagorea la più semplice fisionomia storica della riduzione dell'εἶναι al δοκεῖν: ché se P. l'avesse invece davvero presentata come teoria della percezione sensibile, e costruito perciò il sistema del duplice divenire oggettivo e soggettivo, la distinzione fra la sensazione e la sua teoria, fra la conoscenza relativa risultante dal divenire e la conoscenza assoluta teorizzante il divenire sarebbe riuscita ovvia, e l'obiezione non sarebbe stata più possibile, almeno in quella più semplice forma. E quando Seneca (Ep., 88, 43 = Protag., fr. A 20 Diels) dice che P. ait de omni re in utramque partem disputari posse ex aequo et de hac ipsa, an onmis res in utramque partem disputabilis sit, conferma probabilmente come lo stesso P., per controbattere quell'obiezione, non si riferisse già alla distinzione della relativa conoscenza gnoseologizzata dall'assoluta conoscenza gnoseologizzante, ma si attenesse bensì sempre più tenacemente all'unità indifferenziata della sua δόξα, che nella sua immediata soggettività restava comunque inespugnabile.
Bibl.: Principali trattazioni su P.: Zeller-Nestle, Die Philosophie der Griechen, I, ii, 6ª ed., Lipsia 1920, pp. 1296-1305 (vita) e 1349-64 (gnoseologia); Th. Gomperz, Pensatori greci, trad. it., II, Firenze 1933, pp. 253-306 (si veda anche, di Th. Gomperz, Die Apologie der Heilkunst, 2ª ed., Lipsia 1910, che è lo scritto pseudoippocrateo περὶ τέχνης da lui attribuito a P., mentre è piuttosto un documento di empirismo realistico); H. Gomperz, Sophistik und Rhetorik, I, Lipsia 1912, pp. 126-279 (è la più minuta discussione moderna della gnoseologia protagorea, interpretata in senso realistico-eracliteo). Tra gli scritti italiani: A. Covotti, Per la storia della sofistica greca: studi sulla filosofia teoretica di P., in Annali della R. Scuola normale superiore di Pisa, XII (1897). Della vita e del pensiero di P. tratta anche il vol. I della cit. traduzione di E. Bodrero, Bari 1914. Per la bibliografia più particolare, v. Ueberweg-Praechter, Grundriss der Gesch. d. Philosophie, I, 12ª ed., Berlino 1926, pp. 52*-53*.