FATTINANTI CENTURIONE, Prospero
Nacque, probabilmente a Genova, tra 1510 e il 1520 da Agostino e da Pomellina Zoaglio.
La famiglia Fattinanti, originaria di Voltaggio, si era trasferita in Genova alla fine del XIII secolo; diversi esponenti figurano tra gli Anziani fin dal XIV e per tutto il XV secolo, quando numerosi compaiono tra i notai e i dottori in legge. Nel 1528, nell'anno della riforma doriana che riuniva in "alberghi" la nobiltà cittadina, quattro Fattinanti furono ascritti nell'"albergo" Centurione: tra questi, il padre di Agostino.
L'ingresso del F. nella vita pubblica risale al 1555, anno in cui entrò nel Minor Consiglio e venne incaricato di due dicasteri, della Moneta e degli Straordinari. L'anno successivo entrò all'ufficio dell'Abbondanza e, alla fine dello stesso 1556, venne eletto procuratore della Repubblica. Negli anni seguenti, fino al 1560, perfezionò la propria competenza economica e finanziaria come ufficiale delle Compere presso il Banco di S. Giorgio. Tra il 1562 e il 1563 tornò alle cariche politico-amministrative come padre del Comune. Ma sono del 1565 la carica e la circostanza che dovevano prepararne la fortuna politica di mediatore, la sua capacità di destreggiarsi tra interessi e legami, economici e familiari, della nobiltà vecchia - o almeno dei suoi componenti più autorevoli - e della nobiltà nuova, alla quale per origine apparteneva. In quell'anno il F. era infatti unò dei cinque sindacatori supremi cui spettava il compito istituzionale di sottoporre a sindacato l'operato del doge appena uscito di carica.
Quell'anno si trattava di giudicare G. B. Lercari, uno dei più intelligenti e prestigiosi leader della nobiltà vecchia, al quale il dinamismo politico e il fasto principesco con cui aveva ricoperto la più alta carica dello Stato avevano procurato invidie e rancori anche all'interno del suo gruppo politico. Tra i cinque sindacatori, solo il F. e Bartolomeo Cattaneo difesero animatamente il Lercari, che ebbe sindacato sfavorevole per l'opposizione dei tre componenti di parte "vecchia" e subì perciò l'affronto di non poter entrare tra i procuratori perpetui.
Nonostante il fallimento momentaneo della sua presa di posizione, il F. si era comportato in modo da apparire ispirato da senso di giustizia, scevro da personali meschinità e, soprattutto, capace di superare la logica delle barriere di parte: questa fama, adeguatamente propagandata contro le accuse di opportunismo, ambiguità e doppiogiochismo, che pure non gli vennero risparmiate, si consoliderà in quegli anni di acutizzazione dei malessere sociale e di ribaltamento dei tradizionali equilibri sociopolitici all'interno della classe di governo; quella stessa fama gli aprirà la strada del dogato durante la guerra civile.
Nei dieci anni intercorsi tra il sindacato a favore del Lercari e l'elezione ducale, il F. proseguì infaticabile nell'impegno politico-economico-amministrativo, alternandosi ancora preferibilmente tra l'ufficio di S. Giorgio e il magistrato dei Padri del Comune. In queste e in altre magistrature, come quella di Corsica, continuava a coltivare i suoi legami personali con altri esponenti della nobiltà vecchia (in assenza del Lercari, che si era allontanato in volontario esilio presso la corte di Spagna), in apparenza senza avvertire contraddizione con ostentate simpatie popolari, sfruttate per perfezionare un ruolo politico di mediazione. Così, il 17 ott. 1575, subito dopo la conclusione del dogato di Giacomo Durazzo Grimaldi - alla cui linea politica moderata il F. certamente aveva aderito -, mentre si faceva sempre più pressante il rischio della guerra civile tra nobiltà vecchia, secessionista e fuoruscita, e nobiltà nuova, divisa e timorosa delle nuove alleanze popolari, tra Giovanni Andrea Dona da una parte, pronto alla soluzione armata del contrasto, e Bartolomeo Coronata dall'altra, forte dell'appoggio popolare nella città in stato d'assedio, il F. venne eletto doge con 240 voti da un Senato che lo vedeva come l'ideale prosecutore della linea moderata del Durazzo. Ma il F. si era conquistato il diritto alla carica nei mesi precedenti, durante l'estate del 1575, quando era stato inviato al cardinale G. G. Moroni su precisa indicazione del Lercari. ritornato allora a Genova dalla Spagna.
Mentre in città si formava la nuova alleanza tra i "vecchi" rimasti e i "principali" dei "nuovi" (cioè il nuovo blocco del quale gli accordi di Casale avrebbero riconosciuto il ruolo dirigente), il F., portavoce di questo gruppo, concordava con l'inviato di papa Gregorio XIII, il Moroni appunto, modi e tempi del processo di normalizzazione. Ad incarico espletato, il F. veniva eletto doge. Gli accordi di Casale, sottoscritti ufficialmente nel marzo 1576, rispecchiavano m pieno la linea della alleanza di cui il F. era stato il portavoce. Appare dunque ben giustificato il sospetto ingenerato in buona parte dei "nuovi" e nei popolari sul vero ruolo del F., "cittadino desideroso di giovare a tutti, in apparenza al popolo" (Commentari..., p. 111), grazie a qualche clamorosa (o provocatoria? nella linea del suo protettore Lercari) proposta demagogica. Il F. fu invece certamente lo strumento della politica di consolidamento delle grandi famiglie, secondo il disegno di distribuzione del potere trasversale ai due gruppi dei "vecchi" e dei "nuovi", sancito appunto dalla pacificazione di Casale.
La denuncia dell'amarezza e della frustrazione degli esclusi dai nuovi equilibri risuona nello "scandaloso discorso" pronunciato per l'incoronazione del F. dal medico Silvestro Fazio (o Facio), esponente del gruppo dei dottori che era stato culturalmente il più agguerrito nella polemica contro i grandi. Da questo momento sembra innescarsi una lotta sorda e tenace tra questo gruppo intellettuale di delusi e quei "nobili nuovi" che, ai loro occhi, apRanvano non senza ragione i veri traditon: primo tra i quali, il nuovo doge Fattinanti Centurione. In diretta replica al discorso del Fazio, che avrebbe incitato alla insurrezione popolare, il F. fece emanare misure straordinarie di polizia, ufFicialmente giustificate dalla necessità di stroncare forme di dissenso interno in un momento tanto delicato per la conclusione della pacificazione. Nel gennaio 1576, prima che fossero ratificati gli accordi di Casale, il gruppo dissidente diffuse contro il F. e un altro leader dei nuovi, Paolo Moneglia, l'accusa di aver venduto Genova alla Spagna; seguì, da parte del Senato, la proibizione di tutte le riunioni e l'arresto del Coronata e dei suoi principali collaboratori, tra cui il Fazio. Liberati dopo gli accordi di Casale, nel successivo dicembre fu elevata contro gli stessi la ben più grave accusa di congiura. Il processo fu istituito davanti alla ruota criminale, in un clima in cui il Lercari e gli altù grandi poterono plaudire alla destrezza e alla energia del doge F., vero "salvatore della patria".
Che accusa e processo fossero una montatura politica, in cui lo stesso doge F. svolse il ruolo di grande provocatore, trova conferma nel giudizio di assoluzione degli iinputati. Ma per questo suo comportamento indipendente, la ruota criminale che aveva emanato la sentenza fu sospesa e sostituita con un'altra che, ovviamente, rivisti gli atti dei processo, giunse alla condanna di buona parte degli accusati, mentre si sfaldava tra i timori politici il collegio di difesa. Fu però mandato assolto il Fazio e impedita così la vendetta personale del F.: indizio della ricerca di margini di decenza da parte dei nuovo tribunale o di perdita di autorità del Fattinanti Centurione. In effetti, una volta esaurito il mandato ducale, il F. uscì del tutto dalla scena politica: forse anche per ragioni personali o di salute, ma rimane il sospetto che egli fosse stato solo uno strumento del gioco nelle mani dei grandi, abili a sfruttarne ambizioni e ambiguità.
Nominato procuratore perpetuo secondo la prassi costituzionale, il F. non ricoprì più alcuna carica e, nel 1578. stese il proprio testamento. Morì a Genova nel 1581 e fu sepolto probabilmente nella chiesa di S. Chiara in Albaro, che era stata costruita dalla sua famiglia e che il figlio Giovanni Battista donò poi all'Ordine domenicano. Dal matrimonio con Geronima Giustiniani gli erano nati nove figli, cinque maschi e quattro femmine, quasi tutti entrati in Ordini religiosi: con loro si estinse la sua discendenza.
Fonti e Bibl.: Genova, Civ. Bibl. Berio, ms. X, 2, 168: L. Della Cella, Famiglie di Genova, 1780, II, c. 129; G. B. Spinola, Commentari delle cose successe ai Genovesi dal 1572 al 1576, a cura di A. Alizeri, Genova 1838, p. 111; F. Casoni, Annali della Repubblica di Genova, Genova 1800, III, p. 193; IV, pp. 78, 81; C. Varese, Storia della Repubblica di Genova, Genova 1814, VI, p. 147; G. Banchero, Genova e le due Riviere, Genova 1846, p. 345; F. Donaver, Storia della Repubblica di Genova, Genova 1913, II, p. 261; L. Levati, I dogi di Genova, Genova 1930, I, pp. 156 ss. (con bibl.); V. Vitale, Breviario della storia di Genova, Genova 1955, I, p. 235; C. Costantini, La Repubblica di Genova, Torino 1978, pp. 128 ss., 137 s.