Produzione
La costituzione di una struttura tecnico-finanziaria destinata stabilmente alla p. di film si impose molto presto nel panorama industriale della settima arte, e cioè quando all'offerta delle macchine da proiezione si affiancò un mercato autonomo di pellicole impressionate, destinato a crescere a velocità considerevolmente maggiore anticipando quella distinzione tra software e hardware che avrebbe caratterizzato, quasi un secolo dopo, il settore informatico.
Gli apparati tecnico-finanziari necessari alla p. di film risultano d'impianto molto meno oneroso rispetto all'infrastruttura industriale necessaria a produrre macchinari. Così, mentre era ancora in atto la guerra dei brevetti tra Thomas A. Edison, i fratelli Lumière e gli altri 'inventori' del cinema, entrarono sulla scena economica del nuovo spettacolo di massa numerosi nuovi protagonisti, decisi a occuparsi esclusivamente della realizzazione di film, svincolandosi dall'ambizione o dall'obbligo di produrre macchine da presa. Queste prime manifatture di film si dettero un'organizzazione che si collocava a metà tra le nascenti case editrici delle pubblicazioni di massa e la moderna fabbrica fordista. Dal punto di vista editoriale, i nuovi produttori furono inizialmente tentati di darsi una specializzazione per genere cinematografico, che fu presto contraddetta nei fatti e sostituita dal tentativo di rendere riconoscibili alcune caratteristiche di marchio: dal 'Famous players in famous plays' con cui Adolph Zukor tentò la scalata al pubblico rispettabile delle prime visioni teatralizzando il cinema, al vero e proprio headline pubblicitario con cui la Itala Film di Giovanni Pastrone riaffermava la perfezione dei propri mezzi tecnici vantando la 'fissità' del fotogramma in proiezione, fino alle successive personificazioni della politica artistica delle majors nelle star della casa (non a caso lo slogan della Metro Goldwyn Mayer era 'più stelle che in cielo'), o, di nuovo, nell'identificabilità dello stile dello studio in un genere di punta, come l'horror per la Universal Pictures, il noir per la Warner Bros., il musical per la MGM; mentre nel cinema italiano si sarebbe parlato della 'qualità Lux' o del melodramma popolare Titanus.In questa molteplicità di modelli produttivi spiccava quello che si può definire il 'modo di produzione hollywoodiano classico' (v. Hollywood) che, instaurato già verso il 1910, prevedeva la proprietà diretta dei mezzi di produzione da parte di alcune grandi majors che 'facevano il mercato', lasciando alle case minori quote residuali. La struttura produttiva delle majors implicava il possesso di stabilimenti di produzione attrezzati per l'allestimento dei set, con sezioni tecniche per tutte le specializzazioni di mestiere necessarie alla realizzazione di un film, dalla sartoria alla scenotecnica, dal maquillage alla falegnameria al montaggio; l'equipaggiamento te-cnico indispensabile alle riprese; laboratori di sviluppo e stampa; grandi estensioni di terreno per gli esterni; e un'organizzazione del lavoro integrata che accompagnava il prodotto dalla concezione sulla scrivania degli sceneggiatori alla proiezione nelle sale cinematografiche, passando per il lancio pubblicitario e per il costante lavoro di ufficio stampa che aveva la funzione di valorizzare uno degli assets più preziosi delle case: gli attori, tenendo viva l'attenzione del pubblico attorno alle loro gesta pubbliche e private. In realtà, questa organizzazione apparentemente monolitica presentava fin dall'inizio una serie di articolazioni interne che garantivano una dialettica di sistema, resa praticamente obbligata dalla necessità di prevedere un'interfaccia finanziaria per una struttura produttiva che seguiva logiche di mercato spesso divergenti.
La catena del valore della 'merce-film' prevedeva, per sua natura, una forte integrazione tra il momento della p. e il momento del consumo. Da un lato infatti, l'obiettivo della p. era quello di monitorare il consumo anticipandone le tendenze per garantire il successo dei film prodotti: questa istanza, per es., fu una delle componenti che portarono all'affermazione dei generi cinematografici, come tentativo di passare dal prototipo alla p. in serie. Dall'altro lato, l'integrazione tra p. ed esercizio (v. impresa cinematografica) per il tramite della distribuzione consentiva di attingere, giorno dopo giorno, spettacolo dopo spettacolo, a un'inesauribile fonte di denaro fresco da far risalire alla fonte per finanziare la p., tentando così di svincolarsi almeno in parte dal ricorso al capitale bancario e dai suoi connessi oneri finanziari. Se tuttavia dal punto di vista specificamente industriale gli studi erano sostanzialmente autonomi, potendo contare sui propri mezzi di produzione e su una forza lavoro di attori e tecnici contrattualizzata direttamente, le caratteristiche del sistema rendevano spesso indispensabile un volano finanziario che consentisse alla 'macchina cinema' di restare in movimento nel lasso di tempo, a volte considerevole, che andava dall'ideazione della sceneggiatura all'emissione della fattura di noleggio. Da qui la forte integrazione tra banche, gruppi di investimento e l'industria del cinema che, con le crisi successive agli anni Cinquanta del Novecento, avrebbe finito per perdere la propria indipendenza a profitto delle finanziarie multinazionali.
Anche negli anni d'oro del modo di produzione hollywoodiano la politica degli studi fu dunque sempre sottoposta, dietro una monoliticità di facciata, a una serie di tensioni dialettiche che possono essere esemplificate dalla struttura di comando della MGM negli anni Trenta, uno dei periodi della sua massima potenza. Presidente della società era infatti Nicholas Schenck che, dall'ufficio di New York, impostava le strategie finanziarie trovandosi spesso in duro conflitto con Louis B. Mayer, vicepresidente con l'incarico di direttore generale della produzione a Los Angeles, il quale a sua volta doveva confrontarsi, spesso rudemente, con l'altro vice presidente, Irving Thalberg che aveva la delega di supervisore alle produzioni. Il controllo degli studios sulla produzione cinematografica statunitense era tuttavia ben lungi dall'essere onnicomprensivo; era affiancato infatti da grandi figure di indipendenti, tra cui Samuel Goldwyn e David O. Selznick, il personaggio più emblematico della centralità del produttore nel periodo classico, che partendo dalla piccola casa di p. fondata dal padre produsse alcune tra le opere più significative della storia del cinema. Con l'evolversi del mercato cinematografico, e soprattutto con l'introduzione della televisione, i termini del rapporto si sono invertiti, e nell'equilibrio del sistema sono divenuti sempre più importanti da un lato i produttori indipendenti che elaborano progetti produttivi, dall'altro le finanziarie che ne garantiscono la copertura di capitale. La finanziarizzazione del cinema si è poi progressivamente accentuata con l'entrata in campo di una nuova figura: l'agente delle grandi star. Le leggi degli Stati Uniti infatti limitano in modo rigoroso la percentuale di agenzia riscossa sulle prestazioni degli attori, e dunque gli agenti delle star il cui nome garantisce il successo di un film preferiscono intervenire direttamente nella p. contrattando, come quota di partecipazione, la presenza dell'attore da loro rappresentato. È venuto così a configurarsi un assetto che, da un lato, ha visto crescere l'importanza dei produttori esecutivi, capaci di condurre in porto la realizzazione concreta dei film; dall'altro, a partire almeno dagli anni Ottanta, si è assistito alla trasformazione diretta di registi e attori in produttori di sé stessi, come dimostrano, per es., Francis Ford Coppola e Robert Redford.Fuori dagli Stati Uniti, il modello integrato di p. cinematografica fu tentato in genere nei Paesi totalitari, dove lo Stato si sostituì ai produttori privati come nella Russia sovietica o nell'Italia fascista con la creazione di Cinecittà. Ma in generale nelle cinematografie extra-hollywoodiane lo Stato, a partire dagli anni Trenta e poi nel secondo dopoguerra, si è assunto spesso il ruolo di cofinanziatore o, al limite, di garante dell'intervento di sostegno bancario a p. cinematografiche insufficientemente remunerative. In mercati non così ampi come quello statunitense, che può inoltre contare su una distribuzione dei propri prodotti su scala mondiale, è apparso più conveniente ripartire i rischi suddividendo il processo industriale tra la proprietà degli studi e dei laboratori e la p. vera e propria. Le cinematografie extra-hollywoodiane sono così fiorite spesso attorno a fi-gure di produttori che hanno segnato prepotentemente con la loro personalità l'impianto artistico e organizzativo dei loro film, come Erich Pommer all'UFA, Nagata Masaichi in Giappone, Alexander Korda in Inghilterra, Raoul Lévy in Francia, dove la tradizione del 'produttore autore' è proseguita con Pierre Braunberger e poi, per es., con Daniel Toscan du Plantier che ha rilanciato la Gaumont negli anni Settanta.Sul modello statunitense si mosse in Italia a cavallo degli anni Trenta Stefano Pittaluga che, rilevati nel 1924 gli stabilimenti torinesi della FERT, li unificò all'ex Itala Film fondando la Società Anonima Stefano Pittaluga, egemone sul mercato dopo l'ulteriore acquisto degli stabilimenti romani della Cines, con la quale produsse, tra l'altro, i primi film sonori italiani. Pittaluga costruì un sistema integrato che copriva, oltre a p., distribuzione, esercizio, anche gli stabilimenti di sviluppo e stampa con La Positiva di Torino: un impero che alla sua morte, avvenuta nel 1931, passò direttamente alla Banca commerciale italiana. In Italia, l'unica dinastia di produttori che, partita con il cinema muto, è rimasta attiva soprattutto nella realizzazione di fiction televisive, è quella dei Lombardo la cui attività, iniziata da Gustavo fondatore della Titanus, fu portata al successo economico e artistico dal figlio Goffredo Lombardo. Dal 1935 alla fine degli anni Cinquanta invece, il modello italiano di 'produttore finanziere' fu rappresentato sicuramente da Riccardo Gualino della Lux Film, che per lo più affidava, con contratti di appalto a budget chiuso, la realizzazione dei film a produttori indipendenti come Luigi Rovere, Carlo Ponti, Dino De Laurentiis. Angelo Rizzoli ha personificato invece una concezione anticipatrice di integrazione tra i media, affiancando al suo impero editoriale la Cineriz. Mentre Giuseppe Amato, che con Rizzoli si trovò spesso coinvolto in rapporti di conflittuale collaborazione, è l'esempio di 'indipendente all'italiana', capace di inventare combinazioni produttive per districarsi tra film popolari, attrici affascinanti e autori come Alessandro Blasetti, Vittorio De Sica, Roberto Rossellini, Federico Fellini, di cui rese possibili alcuni capolavori.
Tutte le stagioni del cinema italiano, in realtà, sono contraddistinte dalla sintonia che geniali 'capitani di ventura' sono riusciti a istituire sia con settori di pubblico sia con le nuove leve di cineasti, da Fortunato Misiano con le sue produzioni di genere che alimentarono le seconde visioni negli anni Cinquanta, a Franco Cristaldi, ad Alfredo Bini, a Mario Cecchi Gori, fino ad Alberto Grimaldi che è passato dai western di Sergio Leone ai film di Fellini per realizzare, ancora nel 2002, Gangs of New York di Martin Scorsese.I produttori dell'ultimo decennio sono obbligati a confrontarsi con un mercato in profonda trasformazione, imparando a navigare tra finanziamenti ministeriali, prevendite televisive, coproduzioni europee, che rendono l'attività meno continuativa e più aleatoria; anche se, dopo anni di crisi, la struttura produttiva dell'industria italiana, non più del cinema ma degli audiovisivi, con il nuovo millennio sembra ritrovare un'articolazione strutturale definita: con Aurelio de Laurentiis, che rilancia la tradizione del cinema popolare, e nuove leve come Domenico Procacci che, da Sergio Rubini a Gabriele Muccino, accompagna l'emergere dei cineasti della sua generazione.