PROCESSO
. Quanto più si rinforza l'organizzazione politica, tanto più si restringe il campo dell'autodifesa, che è assai ampio nelle organizzazioni primitive. La lotta giuridica sostituisce la lotta materiale, della quale sopravvivono le tracce nelle forme simboliche dei processi antichi, che sono, come H. J. Sumner Maine le chiama, la drammatizzazione delle origini del giudizio. Lo stato moderno considera come propria essenziale funzione l'amministrazione della giustizia e ha il potere di applicare il diritto al caso concreto: potere che si dice giurisdizione. La legge italiana punisce l'esercizio arbitrario delle proprie ragioni (cfr. cod. pen. articoli 392 e 393); solo eccezionalmente permette all'individuo di provvedere alla conservazione o al conseguimento di un bene giuridico compiendo atti che normalmente sono vietati (articoli 582, 713, 1863 cod. civ.), e non punisce il fatto commesso "per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio od altrui contro il pericolo attuale di un'offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all'offesa" (legittima difesa: art. 52 cod. pen.) o "per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo" (stato di necessità: art. 54 cod. pen.).
Sommario. - Diritto greco (p. 274). - Diritto romano: Processo civile (p. 275); Processo penale (p. 276). - Diritto intermedio (p. 276); Processo civile (p. 277); Processo penale (p. 279). - Ordinamento italiano vigente: Processo civile (p. 280); Processo penale (p. 282); Processo penale militare (p. 284); Processo amministrativo (p. 284); Processo del lavoro (p. 285). - Diritto canonico (p. 286).
Diritto greco.
È nelle origini, come presso tutti i popoli, completamente assorbito nella difesa privata; che di fronte al delinquente è vendetta (esercitata dalla vittima o dalla sua famiglia o γένος) e di fronte al debitore è presa di possesso della persona, col risultato finale di metterlo a morte o di venderlo come schiavo. In progresso di tempo, la vendetta si trasforma in facoltà di trascinare il colpevole davanti a una superiore autorità che, riconosciuta la colpevolezza, autorizza l'esercizio della vendetta, o, più tardi, infligge una pubblica pena e ne ordina l'esecuzione. Le tracce della concezione primitiva e dei suoi sviluppi sono evidenti ad Atene sia nella procedura dei reati di sangue, che può essere messa in movimento soltanto da un'azione (δίκη) intentabile da un numero assai ristretto di persone, sia nella discriminante sancita per l'uccisore degli adulteri e del ladro notturno, sia nella complessa procedura del furto flagrante. Quanto alle liti di carattere patrimoniale, l'esercizio della difesa privata, che nello stadio dell'esecuzione rimane la regola anche in età avanzata, trova il suo primo limite nell'opportunità, sentita dalle parti stesse, di chiedere preventivamente una pronuncia arbitrale circa la situazione giuridica controversa: la decisione dell'arbitro vale, in linea di massima, solo in quanto le parti si siano vicendevolmente impegnate a osservarla; ma trae poscia la sua validità dall'autorevolezza del tribunale stesso a cui le parti si rivolgono, che nelle antiche monarchie omeriche è costituito dal re assistito dagli anziani (come nella nota figurazione dello scudo di Achille, Iliade, XVIII, v. 497 segg.) e nelle oligarchie s'identifica senz'altro col collegio degli anziani.
Così affermandosi sempre più il potere della città di decidere le controversie e reprimere i delitti, si creano anche magistrati aventi come propria competenza la giurisdizione (così a Gortina il giudice, δικαστάς); ma più spesso la funzione, considerata come esplicazione di potere politico, è data agli organi che nelle varie costituzioni predominano, o a loro rappresentanze piò o meno numerose, oppure è ripartita tra i varî organi. Così a Sparta giudicano, secondo la natura e l'importanza dei processi, i re o gli efori o la gerusia; e ad Atene, mentre i processi di omicidio trovano presto il loro tribunale nell'Areopago, le altre competenze sono in un primo momento ripartite fra i varî magistrati, ma col rinforzarsi della democrazia ricadono alle sezioni che ciascun magistrato presiede nell'Eliea, la gran corte di giustizia eletta per estrazione a sorte fra il popolo. In questa fase, il processo ha pienamente perduto il suo carattere arbitrale, e si svolge anche contro il convenuto recalcitrante: ma per alleggerire il lavoro delle corti giudiziarie e per rendere più lievi gli effetti della soccombenza, si stabilisce il costume di esperire preliminarmente la via dell'arbitrato, e sembra che le leggi ateniesi rendessero obbligatorio questo ricorso agli arbitri (διαιτηταί), da scegliersi entro un'apposita lista di cittadini designati anch'essi dalla sorte.
Nel sistema accusatorio, dominante in Grecia come dovunque nell'era antica, ogni processo è iniziato da un'azione (δίκη in senso largo); e i tipi di processo sono caratterizzati dalla varietà delle azioni. La distinzione fondamentale è quella fra le azioni pubbliche e le private: le prime, dette normalmente γραϕαί, possono essere intentate da ogni cittadino avente piena capacità giuridica, e dànno luogo a processi criminali; le seconde, δίκαι in senso stretto, sono intentate dall'interessato e dànno luogo a processi privati. Queste ultime si distinguono, poi, in azioni in contrasto di qualcuno e azioni contro qualcuno (πρός τινα e κατά τινος): la sfumatura è difficile da tradurre nella terminologia romanistica o moderna, ma nel primo gruppo prevale l'idea di una controversia da risolvere (come nella rivendicazione di una cosa o nella domanda di adempimento di un contratto), mentre nel secondo prevale l'idea del torto da riparare (come nell'azione d'ingiuria o in quella di tutela). Lo svolgimento del processo non è peraltro profondamente diverso, neppure nel confronto fra processi criminali e privati, salvo che nei primi le giurie sono normalmente più numerose: l'accusatore di un processo pubblico e l'attore di un processo privato sono i primi a prendere la parola, sospendendo, nei punti opportuni, l'orazione per dar luogo alla lettura di documenti e di leggi (che in tanto vincolano il tribunale in quanto le parti le producano) o all'escussione dei testimonî; e allo stesso modo parla a propria difesa l'accusato o convenuto. Il processo può complicarsi in vario modo, e specialmente in quanto il convenuto opponga all'attore una παραγραϕή, cioè una circostanza estranea al vero e proprio rapporto controverso, ma tale da paralizzare il diritto dell'attore: ciò poteva scindere il dibattimento in più fasi, pur rispettandosi l'unità del processo.
Per qualche particolare sull'organizzazione giudiziaria e sull'andamento del processo, massime in Atene, v. arconte; grecia: Diritto; tribunale; e per gli ordinamenti ellenistici: Egitto: Diritto, XIII, p. 584 segg.
Bibl.: C. Ferrini, Quid conferat ad iuris criminalis historiam homericorum hesiodeorumque poematum studium (1881), ristampato in Opere, V, Milano 1930, p. i segg.; Th. Thalheim, articoli Δικασταί, Δικαστήρια, Δίκη, in Pauly-Wissowa, Real-Encykl., V, Stoccarda 1903, col. 565 segg.; R. Hirzel, Themis Dike und Verwandtes, Lipsia 1907; J. H. Lipsius, Attisches Recht und Rechtsverfahren, ivi 1915; E. Weiss, Vergleich. Zivilprozesswissenschaft, in Rhein. Zeitschr. f. Zivil-und Prozessrecht, 1921, p. i segg.; A. Steinwenter, Die Streitbundigung durch Urteil, Schiedsspruch u. Vergleich nach griech. Recht, Monaco 1925.
Diritto romano.
Processo civile. - La storia del processo civile si può dividere in due periodi: il primo, dalle origini quasi al sec. III d. C., chiamato ordo iudiciorum privatorum, ha carattere privatistico: esso rappresenta la primitiva difesa privata organizzata e disciplinata dallo stato, il quale interviene per imporre alle parti in contesa un arbitrato; pertanto la decisione è devoluta a un iudex, che è un privato cittadino designato dal magistrato d'accordo con le parti. In questo sistema actio è l'attività giuridica del singolo, disciplinata dalla legge rivolta alla tutela del proprio diritto. All'arcaico agere, arbitrario e violento, si sostituisce dopo la costituzione della civitas, l'agere regolato dalla legge (lege agere). Diritto e actio sono entità inseparabili. Il diritto è così intimamente compenetrato nel processo, che il diritto romano, certo per tutto il periodo classico, si presenta come un sistema di actiones e in genere di mezzi processuali; donde la grande varietà e il grande numero di actiones, che sono tutte tipiche, giacché a ciascuna corrisponde un determinato diritto, che viene sempre riconosciuto per mezzo dell'actio.
Il sistema dell'ordo a sua volta si divide in due fasi: il periodo delle legis actiones, fino alla lex Aebutia della prima metà del sec. II a. C.; e il periodo delle formulae, fino al sec. III d. C. In entrambi si ha la separazione del processo in due stadî. Il primo si svolge in iure davanti ai magistrati aventi iurisdictio (nelle varie epoche storiche e secondo la diversa competenza territoriale: consules, praetores, duoviri iuri dicundo, proconsules) o davanti ai loro delegati. Chi si ritiene leso in un proprio diritto intima all'autore della lesione di presentarsi davanti al magistrato competente (in ius vocatio), e può anche trascinarvelo a forza, se ricusi o non presenti una garanzia (vindex). Davanti al magistrato e all'avversario l'attore afferma la sua pretesa. Nel periodo delle legis actiones tale affermazione aveva luogo nelle forme solenni stabilite dalla legge (legis actio), che erano diverse secondo le varie pretese: la l. a. sacramento (in rem e in personam) aveva carattere generale; speciale applicazione avevano la l. a. per iudicis arbitrive postulationem, e per condictionem; funzione esecutiva, invece, la l. a. per manus iniectionem, e per pignoris capionem.
Queste forme scompaiono nel processo per formulas: in questo processo la pretesa è presentata senza alcuna forma; il magistrato, udite le pretese e le contropretese, trasmette al iudex privatus, nominato dal magistrato d'accordo con le parti, una formula, la quale è un'istruzione scritta, in cui, dopo la nomina del giudice (Lucius Titius iudexesto) si enuncia la pretesa dell'attore (intentio: ad es., si paret rem Auli Agerii esse) e s'impone poi al iudex di condannare o assolvere (condemnatio), secondo che risulti provata, o meno, la pretesa dedotta nell'intentio (si paret... condemna, si non paret absolve). Nella formula venivano inserite anche le exceptiones allegate dal convenuto, a guisa di condizioni negative della condanna (si paret... nisi... condemna). Gli schemi di formule e di exceptiones erano proposti nell'editto del magistrato, il quale pertanto applicava al caso concreto quella formula o exceptio, indicata nell'editto, corrispondente alle pretese sollevate dalle parti. Solo eccezionalmente il magistrato, in base al suo imperium, poteva rilasciare una formula ex decreto, cioè non contenuta nell'editto. La prima fase (in iure) del processo si chiude con la litis contestatio: con questo atto le parti accettano i termini della controversia, così come sono redatti nella formula (iudicium dictare, iudicium accipere), e s'impegnano a sottostare alla decisione del iudex. La seconda fase si svolge davanti al iudex privatus (cioè in iudicio) e le parti devono provare le allegazioni contenute nella formula. Vige il sistema della libera prova; in conformità alla redazione della formula, il giudice condanna il convenuto, se la pretesa dell'attore risulti fondata, e infondate le exceptiones addotte dal convenuto; lo assolve nel caso inverso. Egli ha soltanto quei poteri e quell'ambito di conoscenza delimitato dalla formula. Qualunque condanna è pecuniaria; e l'ammontare è diverso secondo i varî tipi di formula. Dato il carattere arbitrale del processo, come non esiste un processo contumaciale (altra cosa sono i provvedimenti del magistrato nel caso di mancata comparizione), così non si ammette né appello né alcun mezzo d'impugnativa della sentenza, all'infuori della restitutio in integrum, con la quale il magistrato annulla tutto il giudizio.
Riguardo all'esecuzione bisogna distinguere. Nelle azioni in personam il ius civile ammette soltanto l'esecuzione personale, per cui l'attore vittorioso, nelle forme e modi di legge, s'impossessa della persona del iudicatus insolvente. Il pretore, senza escludere tale esecuzione, ha organizzato il sistema dell'esecuzione patrimoniale, per cui l'attore si soddisfa sul patrimonio del debitore che non esegue il giudicato: esso viene venduto all'asta (bonorum venditio) e aggiudicato a colui che si obbliga a pagare i debiti del debitore insolvente in una percentuale maggiore; il bonorum emptor diventa successore del debitore: acquista tutto l'attivo, e per i debiti risponde solo nella misura della percentuale per cui il patrimonio gli è stato aggiudicato. Incerta è l'esecuzione nelle azioni in rem nel periodo delle legis actiones. Probabilmente l'attore vittorioso poteva di propria autorità rientrare ìn possesso della cosa, senza pericolo di esercitare un'attività contraria alla legge, dal momento che la cosa giudizialmente era stata riconosciuta come sua. Nel sistema formulare l'esecuzione in natura si ottiene per mezzo della clausola nisi restituet, inserita nella formula prima della condemnatio, per cui il convenuto aveva interesse a restituere rem volontariamente per evitare una condanna che poteva essere anche grave.
Accanto al sistema formulare sorge in via eccezionale e sporadica la cognitio extra ordinem, così chiamata perché al di fuori dell'ordo iudiciorum privatorum. Per l'esecuzione di ordinanze del principe in materia giuridica si organizza gradatamente tutto un nuovo sistema processuale indipendente dall'ordo. Nell'epoca classica la cognitio coesiste con l'ordo: ma poi gradatamente (le fasi sono dubbie) la cognitio diventa il sistema processuale generale e finisce col soppiantare totalmente le formule, le quali, quando non si comprende più l'esigenza dell'antico carattere arbitrale del processo su cui si fondavano, sembrano un vuoto formalismo (aucupium syllabarum). Tutto il processo è diventato extra ordinem. Scompare ogni traccia privatistica; le formule sono abolite; la litis contestatio, su cui s'imperniava tutto il processo, ha perduto il suo valore; la separazione in due stadî non ha ragione di essere. Il processo ha impostazione pubblicistica: è lo stato che amministra la giustizia come funzione propria, e quindi non occorre alcun atto (come la litis contestatio dell'ordo) col quale le parti si sottomettano alla decisione del giudice. Il processo si svolge tutto dinnanzi al giudice, che è organo dello stato e ha la funzione di riconoscere e applicare il diritto al caso concreto. Nella sfera della sua competenza il giudice non riceve i poteri da un'istruzione, come era la formula classica, ma direttamente dalla legge. Giustiniano dà assetto legislativo a questo processo extra ordinem, che si era formato nella prassi giudiziaria dell'epoca precedente. Nel Corpus iuris gl'istituti processuali dell'ordo (actio, litis contestatio, iurisdictio, sententia, ecc.) sono accolti non con quel valore che avevano al tempo delle formule, ma con quel significato che possono avere nel nuovo assetto processuale. Nel diritto giustinianeo l'attore non ha bisogno d'indicare alcuna formula o tipo d'azione né di chiedere alcuna formula o azione al magistrato; basta che alleghi un diritto. Il processo s'inizia con il libellus conventionis, contenente la pretesa dell'attore, rimesso per mezzo dell'exsecutor all'avversario, che a sua volta rimette il libellus contradictionis contenente le sue difese. Il sistema della libera prova incomincia a essere sostituito da quello della prova legale. La sentenza non è più necessariamente pecuniaria, e può avere come obietto la reintegrazione in natura del diritto dedotto in giudizio; e, qualora sia possibile, la sentenza viene eseguita manu militari, cioè con la forza pubblica. La bonorum venditio è sostituita dalla bonorum distractio, che importa vendita all'asta non del patrimonio in blocco, ma piuttosto di singole cose del debitore e successiva distribuzione del prezzo ai creditori. Si delinea poi tutto un sistema di rimedî contro le sentenze, e l'appello diventa istituto generale.
In epoca postclassica e giustinianea spuntano taluni processi speciali, non senza precedenti classici: 1. processo sommario (summatim cognoscere), che presenta maggiore rapidità soprattutto in ordine alla prova; 2. processo per rescriptum principis, nel quale il giudizio viene devoluto al principe; 3. episcopalis audientia, per le controversie tra ecclesiastici, e tendente a generalizzarsi nella pratica; 4. processo contumaciale.
Processo penale. - È posto su basi diverse da quelle del processo civile, nonostante qualche contraria apparenza. Bisogna premettere che ai Romani il diritto penale non si presenta come ordinamento unitario: si distinguono i delicta o maleficia, che importano lesione di diritti individuali (furto, danneggiamento, ecc.), dai crimina, che ledono gl'interessi dello stato (perduellio, falso, ecc.). A favore della parte lesa nasce dai primi contro il reo un'actio, che ha per oggetto il pagamento di una pena pecuniaria e si svolge come tutte le altre actiones del diritto privato. I secondi invece dànno luogo a una pena afflittiva irrogata ed eseguita dallo stato per mezzo di un procedimento diverso dal processo civile, al quale pertanto si dà la qualifica di processo penale.
Il processo penale ha base essenzialmente pubblicistica: ciò spiega perché non presenti quella precisa impostazione e quello sviluppo storico rettilineo che si riscontra nel processo civile. Esso si richiama alla lex e nulla presenta di tradizionale: appare anzi quanto mai mutevole, talvolta anche occasionale, perché risente molto da vicino non soltanto lo sviluppo generale del diritto pubblico, ma altresì le vicende e i singoli avvenimenti politici. L'esigenza di un processn penale sorge e si afferma in Roma come garanzia del singolo rivolta a limitare quel potere di coercizione insito nel supremo magistrato della città; così, ad es., il traditore, anziché essere messo a morte per semplice autorità insindacabile del magistrato, può essere condannato alla stessa pena solo in seguito a legale inchiesta compiuta da organi speciali e sotto la garanzia di determinati atti e forme; e si ammette inoltre che il condannato possa ricorrere al popolo (provocatio ad populum). Come l'antico processo civile rivela la difesa privata organizzata dalla lex, così l'antico processo penale rappresenta la coercitio del magistrato disciplinata e organizzata legalmente: il primo disciplina, e in sostanza esclude, la difesa privata; il secondo attenua la coercizione del magistrato. Un vero processo penale s'instaura con la costituzione delle singole quaestiones perpetuae, specie di tribunali speciali permanenti, chiamati ciascuno a giudicare di singoli delitti tassativamente determinati. Questo processo, organizzato definitivamente da Augusto con le leges iudiciorum publicorum et privatorum, ha carattere accusatorio, e il giudizio si qualifica come publicum, perché, dei crimina, cuivis ex populo persecutio datur (Gai Inst., IV, 15, 17). La direzione del processo è affidata a un pretore designato dal senato, il quale prepara un elenco di 450 cittadini scelti fra i senatori; per ogni singolo processo 100 ne sceglie l'accusatore e 100 l'accusato; fra essi vengono sorteggiati 50 giudici, che formeranno il tribunale; oppure l'accusato nella lista dei 100 giudici proposti dall'accusatore ne sceglie 50. L'accusa (criminis vel nominis delatio) è preceduta da una postulatio, con la quale si chiede al magistrato la facoltà di poter accusare. Accolta la postulatio (nomen recipere), il magistrato cita il reo e, in mancanza di confessione, si procede alla costituzione della giuria, dinnanzi alla quale ha luogo il dibattito tra l'accusa e la difesa. Esaurite le prove, si passa alla decisione; il tribunale, a meno che non decida di non essersi formata alcuna convinzione (sibi non liquere) o di domandare un supplemento di istruttoria (ampliatio), pronunzia l'assoluzione o la condanna del reo, e non ha potere di graduare la pena stabilita astrattamente dalla legge. Il processo può essere interrotto o cessare per varie cause, come la morte del reo, oppure per amnistia del principe relativa a tutte le cause in corso (abolitio publica), oppure per intercessio e veto del magistrato. Dal carattere accusatorio del processo discende la necessità di punire qualche comportamento illecito dell'attore relativo al giudizio, come la calumnia, la tergiversatio e la praevaricatio. Nelle provincie probabilmente funzionava qualche cosa di simile alle quaestiones.
In antitesi però alle quaestiones sorgono i iudicia extra ordinem, per cui la conoscenza della causa non è più devoluta ai giurati né l'iniziativa a un privato accusatore, ma piuttosto direttamente agli organi di stato (senato, tribunali imperiali, singoli magistrati), che iniziano di propria autorità il processo e lo conducono fino alla fine con una maggior libertà nella valutazione del reato e nella misura della pena. Mentre dapprima si trattava forse di provvedimenti di polizia, gradatamente la cognitio si consolida, in quanto viene a comprendere nuove figure di reato non comprese nelle quaestiones, finché questa nuova forma di processo diventa generale e soppianta addirittura le quaestiones. È un fenomeno analogo a quello avvenuto nel campo del processo civile: lo stato avoca a sé direttamente ogni funzione giurisdizionale, sia civile sia penale. Questa evoluzione si spiega non solo con l'incalzare dell'assolutismo, ma altresì con la considerazione che il sistema accusatorio si dimostrava insufficiente per la repressione dei delitti; la potestà del magistrato andò invadendo sempre più la sfera devoluta all'accusatore privato, tanto che si ammette la possibilità che il giudice proceda d'ufficio. È appunto a questi principî che s'ispira il processo giustinianeo.
Bibl.: per il processo civile v.: F. L. Keller, Der röm. Civilprozess und die Aktionen, 1ª ed., Lipsia 1852; 6ª ed. rifatta da A. Wach, Lipsia 1883; A. Bethmann-Hollweg, Der röm. Civilprozess, voll. 3, Bonn 1864-66; E. I. Bekker, Die Aktionen des röm. Privatrechts, voll. 2, Berlino 1871-73; M. Wlassak, Röm. Prozessgesetze, voll. 2, Lipsia 1888-1891; id., Litiskontestation in Formularprozess, Berlino 1889; id., Zum röm. Provinzialprozess, Vienna 1919; id., Der Judikationsbefehl der röm. Prozesse, Vienna 1921: id., Die klassische Prozessformel, Vienna 1924; O. Lenel, Das Edictum perpetuum, 3ª ed., Berlino 1927; C. Bertolini, Appunti didattici di dir. rom., Il processo civile, voll. 3, Torino 1913; E. Costa, Profilo storico del processo civile rom., Roma 1918; A. Checchini, Studi sull'ordinamento processuale rom. e germ., I, Il processo romano, Padova 1925; L. Goldschmidt, Prozess als Prozesslage, Berlino 1925; L. Heyrovský, Òimský civilní proces, Bratislava 1925; L. Wenger, Inst. des röm. Zivilprozessrechts, Monaco 1925; P. Collinet, La proc. par libelle, Parigi 1932; A. Steinwenter, Die Anfänge des Libellprozesses, in Studia et documenta hist. et iuris, Roma 1935, e bibliografia ivi richiamata.
Per il processo penale v.: S. Di Marzo, La procedura criminale al tempo delle XII tavole, Palermo 1898; Th. Mommsen, Röm. Strafrecht, Lipsia 1900, pp. 339-522 (trad. franc. Duquesne, Parigi 1907, II, pp. 1-213); H. F. Hitzig, Die Herkunft des Schwurgerichts im röm. Stafprozess, Zurigo 1909; P. F. Girard, Le leges Iuliae iudiciorum publicorum et privatorum, in Zeitschrift der Sav.-Stift. (Roman. Abteil.), XXXIV (1919), pp. 295-377.
Diritto intermedio.
Alla formazione del processo medievale hanno contribuito tre fondamentali elementi o fattori: il romano, l'ecclesiastico e il germanico. A questi se ne può aggiungere un quarto: l'elemento volgare o popolare, costituito dalla degenerazione del diritto aulico, resa possibile dal disgregarsi della compagine dello stato e dalla conseguente involuzione della vita giuridica e sociale.
Nel periodo che immediatamente segue alla caduta dell'Impero romano d'Occidente - il periodo bizantino - le istituzioni giudiziarie e le forme processuali romane mantengono la loro efficacia, pur subendo una lenta ma progressiva involuzione, attraverso la quale esse acquistano struttura e caratteri tali da avvicinarle a quelle germaniche, di cui viene così preparata e facilitata la diffusione in Italia. Il principio romano dell'unico magistrato-giudice, sempre vigente secondo i precetti della legge scritta, perde valore nella pratica, con l'affermarsi della tendenza a rendere più persone partecipi, di fatto o di diritto, alla formazione della sentenza. Nel procedimento penale il sistema accusatorio cede gradualmente il posto a quello inquisitorio e segreto, promosso come persecuzione d'ufficio dei delinquenti. Ma nel disordine della vita sociale e nella rilassatezza e incapacità dei pubblici poteri, si va diffondendo il triste costume di farsi giustizia da sé, con l'esercizio della privata vendetta, già esaltata da Giovenale come bonum vita iucundius ipsa. Nel processo civile, che s'inizia con la citazione notificata al convenuto dal nuntius o mandator per ordine del giudice (in seguito alla presentazione, da parte dell'attore, del libellus conventionis contenente una breve relazione della controversia) e che si svolge secondo le regole della extraordinaria cognitio, la dichiarazione della contumacia tende ormai a determinare, contro il principio sancito dal diritto giustinianeo, la perdita della lite, senza che l'attore sia tenuto a dimostrare il fondamento delle sue pretese. L'onere della prova continua a gravare, secondo il principio fondamentale del diritto romano, sull'attore; ma tale principio già subisce, nella pratica, qualche eccezione. Romano si conserva pure il sistema probatorio, per quanto nell'editto di Teodorico cominci ad affermarsi il germanico giuramento di purgazione. Infine, anche nel processo esecutivo, in contrasto col principio dell'esecuzione attuata dalla pubblica autorità, già si afferma l'uso della pignorazione privata.
La diffusione, in Italia, degl'istituti germanici, anche nel campo del processo, s'inizia con la conquista longobarda e si completa con la successiva dominazione franca. I principî dell'originario sistema processuale germanico, le cui caratteristiche risultano più fedelmente riprodotte nella legge dei Franchi Salî, sono molto semplici e corrispondono a quella fase di sviluppo della costituzione sociale e politica in cui lo stato, prima completamente estraneo alle contese fra i privati, non considerando come suo compito la difesa e la reintegrazione dei diritti individuali, interviene timidamente con un'attività diretta soltanto a disciplinare e controllare quella delle parti, alla cui libera iniziativa sono dovuti gli atti più importanti attraverso i quali il processo si svolge. Elementi caratteristici del giudizio sono la popolarità e collegialità.
La funzione giudiziaria è ripartita fra il magistrato (Richter), che presiede l'assemblea, guida il processo e dà esecuzione alla sentenza e il giudice (Urteiler), a cui spetta il compito di pronunciarla. Il processo - che è nella sua essenza unitario, non conoscendo il diritto germanico la separazione fra quello civile e quello penale - s'inizia con la citazione privata (mannitio), alla quale verrà più tardi sostituito un atto pubblico del giudice (bannitio), promosso, però, dalla parte. Attore e convenuto devono presentarsi personalmente davanti all'assemblea giudiziaria e personalmente sostenere le proprie ragioni, non ammettendo il diritto germanico primitivo la rappresentanza processuale, salvo eccezioni giustificate da ragioni di necessità. Pure ignoto al diritto germanico è il processo contumaciale. Chi disobbedisce all'ordine di presentarsi in giudizio viene considerato come violatore della pace e colpito dalla grave sanzione della perdita della pace (Friedlosigkeit), dalla quale deriva l'esclusione dalla tutela giuridica (chiunque può impunemente offenderlo e persino ucciderlo) e la confisca dei beni.
Lo svolgimento del giudizio, di cui sono caratteri fondamentali l'oralità e la pubblicità, procede secondo un rigido formalismo, al quale è particolarmente informato il sistema probatorio. La prova, infatti, che viene considerata, non come un onere imposto all'attore, ma come un vantaggio concesso al convenuto, non è diretta a determinare la convinzione del giudice, ma a risolvere la controversia, secondo l'esteriore materialità del suo esito. Fra i mezzi di prova presentano importanza preminente il giuramento di purgazione e i giudizî di Dio (v. ordalia), il cui valore è fondato sulla credenza che la divinità, invocata con riti solenni, intervenga per far riuscire vittoriosa la parte che afferma la verità. Il giuramento è prestato, non dal solo convenuto - eccezionalmente dall'attore - ma anche da un numero vario (da tre a settantadue) di coniuratores o sacramentales (aidi, secondo la terminologia longobarda), che vengono scelti fra i parenti, proximiores, propinqui, del convenuto stesso e stanno a esprimere e a consacrare la solidarietà del gruppo gentilizio. Va rilevato che il giuramento dei congiuratori non è de veritate, ma de credulitate: afferma, cioè, non che i fatti si sono effettivamente svolti nel modo indicato dal giurante principale, ma che alle affermazioni di costui si deve prestar fede. Dei giudizî di Dio il più diffuso in Italia è il duello (v.), che viene combattuto o personalmente dai litiganti o, in caso d'incapacità fisica di questi (per malattia, minore età, sesso, ecc.), da campioni. Avversata dai re longobardi e specialmente da Liutprando, questa prova riacquista grande importanza nei torbidi tempi feudali, in seguito al famoso editto di Ottone I, del 976, e scompare completamente dall'uso giudiziario, insieme con le altre ordalie (prova del fuoco, del ferro infuocato, dell'acqua calda o fredda, ecc.), soltanto nel sec. XIV. La sentenza, generalmente, precede la prova e ha carattere condizionale e ipotetico, affermando che vincerà la causa quello dei litiganti che nella prova stessa riuscirà vittorioso. L'efficacia obbligatoria della sentenza è fondata, più che sul comando del giudice come organo dello stato - a cui spetta soltanto, come si è visto, un'attività di controllo e di guida - sulla volontà delle parti, le quali, con un accordo formale conchiuso per mezzo della wadia, si impegnano ad accettarla e ad eseguirla. L'originario diritto germanico non ammette l'appello; ma in quello longobardo-franco è possibile un nuovo giudizio davanti a un tribunale superiore (generalmente quello del re), in seguito a reclamatio della parte soccombente che si consideri vittima di un'ingiusta condanna o di denegata giustizia. Riconosciuto il fondamento della reclamatio, il giudice ingiusto o negligente viene punito, come viene punito l'appellante nel caso in cui la reclamatio risulti infondata. Nei riguardi del procedimento esecutivo, il primitivo fondamentale principio è quello dell'autogiustizia. Ma, col tempo, la pubblica autorità, come interviene, sia pure soltanto per controllare e integrare l'attività dei litiganti, nella fase di accertamento del diritto, interviene pure nella fase esecutiva. Se la parte, che ha contrattualmente accettato l'impegno di assoggettarsi al pronunciato del giudice, non adempie spontaneamente all'obbligo assunto, deve subire l'esecuzione forzata, che viene compiuta o contro la persona del condannato, che è consegnato al creditore e sarà costretto a servirlo fino a che non avrà scontato il debito, o contro i suoi beni mobili (servi, animali, ecc.) o immobili.
A cominciare dal sec. XII, come le altre parti del sistema giuridico, anche l'ordinamento processuale, pur conservando alcuni elementi ereditati da quello barbarico, subisce un profondo rinnovamento, che è promosso e guidato dalla risorta scienza civilistica e canonistica. A questo nuovo ordinamento processuale, che dall'Italia si diffuse in tutta l'Europa continentale, è stata attribuita la qualifica di romano-canonico, in considerazione del duplice fondamento, canonistico e romanistico, dei suoi principî fondamentali. Ma può essere più esattamente attribuita a esso la qualifica d'italiano, tenendo presente che gl'istituti elaborati con concordia di intenti e di metodi da civilisti e da canonisti, e praticati nei tribunali civili ed ecclesiastici, sono, in notevole parte, una creazione nuova. I caratteri principali che il sistema processuale assume nel periodo del Rinascimento consistono nella sostituzione dell'oralità con la forma scritta e della pubblicità del giudizio col procedimento segreto; nella divisione del processo in una serie di atti, l'uno dall'altro nettamente distinti; nel rigoroso formalismo che vincola con norme inderogabili l'attività del giudice, al quale è conseguentemente vietata qualsiasi libera iniziativa e al quale, inoltre, il principio che egli deve giudicare non secundum conscientiam, ma iuxta allegata et probata, toglie la possibilità di determinare liberamente la sua convinzione. Ormai pienamente ammessa è la rappresentanza processuale (che già nell'epoca feudale aveva ottenuto un primo riconoscimento nell'istituto dei causidici o advocati) e anzi, proprio in questo periodo, "si designa la distinzione fra il procurator, che assiste o rappresenta la parte negli atti processuali, e l'advocatus, che presta il suo consiglio sul punto di diritto". (A. Solmi, Storia del dir. it., 3ª ed., p. 604). Si attua, infine, nel nuovo ordinamento processuale, la differenziazione fra processo civile e processo penale che era ignota al diritto barbarico. Dell'uno e dell'altro dobbiamo qui limitarci a tracciare sinteticamente le linee generali.
Processo civile. - Il processo civile s'inizia con la presentazione del libello che dà occasione al convenuto: ut deliberet utrum velit cedere aut contendere. Il giudice, a cui il libello viene presentato (oblatio libelli) notifica al convenuto, per mezzo dell'exsecutor, insieme con un estratto del libello stesso, la citazione a comparire entro un termine, che normalmente è di trenta giorni. Contro il latitans, o, comunque, nei casi in cui la citazione per nuncium non si renda possibile, si ricorre a quella pubblica per editti o proclami. Dopo tre citazioni rimaste inefficaci, viene dichiarata la contumacia, che in alcune città - non distinguendosi la civile dalla penale, secondo i principî ereditati dal processo barbarico - fa incorrere il disobbediente nel bando, o in una forma attenuata di bando, il blasmum, mentre in altre - in base al presupposto di una confessione presunta - essa procura all'attore l'investitura provvisoria (ad salvam querelam) o la possessio taedialis (dal "tedio" che doveva procurargli lo spossessamento) dei beni del contumace; investitura o possessio ehe dopo un anno possono diventare definitive.
Il giudizio si svolge attraverso fasi ben determinate e distinte, ciascuna delle quali ha il suo termine, che può essere abbreviato dal giudice, quando le circostanze lo rendano necessario.
Il primo atto che le parti devono compiere appena si trovino presenti davanti al giudice è la prestazione del iusiurandum calumniae - concettualmente distinto, ma praticamente spesso confuso con quello de veritate - col quale esse affermano la credenza e la coscienza del proprio diritto. Esaminate, subito dopo, e risolte le questioni pregiudiziali e constatata, da parte del giudice, l'idoneità dell'azione, il convenuto, ove non respinga in pieno la domanda dell'attore, può opporre le eccezioni, destinate a paralizzare l'azione, senza contraddirla. Le eccezioni devono essere proposte in limine litis, in ogni caso prima della litis contestatio, che continua a essere, anche nel processo medievale, un momento essenziale del giudizio - o, come dicono le fonti, fundamentum litis - col quale le parti, attraverso uno scambio di affermazioni e di negazioni (per narrationem actoris et contradictionem rei) dimostrano l'intenzione di persistere nel litigio fino alla sua risoluzione.
Da questo momento il processo si svolge attraverso le positiones, che costituiscono un'innovazione italiana e sono destinate a liberare le parti dall'onere della prova, nei riguardi di quei fatti che possono diventare acquisiti al giudizio attraverso l'ammissione dell'avversario. Le positiones - distinte dalle interrogazioni rivolte ai litiganti dal giudice - erano domande presentate in iscritto da una delle parti al giudice, il quale doveva provocare dalla controparte una perentoria risposta. Sui punti che, non essendo stati acquisiti al giudizio per mezzo delle positiones, restavano controversi, si faceva luogo alle prove.
Il sistema probatorio subisce, nel periodo del Rinascimento, una profonda trasformazione e acquista maggiore elasticità. Trionfa, ormai, il principio, già recisamente affermato dalla scuola di Pavia: ei qui dicit, non ei qui negat incumbit onus probandi. Al germanico giuramento di purgazione e alle germaniche ordalie vengono gradualmente sostituiti mezzi di prova più razionali: testimonî e documenti. Norme minuziose e complesse disciplinano la prova testimoniale. Chi voleva ricorrere ad essa doveva fare la publicatio dei nomi, per consentire alla controparte l'eventuale ripulsa. Seguiva la formulazione e pubblicazione dei capitula, sui quali i testi erano chiamati a fare le deposizioni, che venivano raccolte da notai. Numerose erano le cause di esclusione dalla testimonianza (banditi, scomunicati, usurai manifesti, ecc.) e fra queste il sesso. La testimonianza delle donne era, infatti, o esclusa, o ammessa con valore di semplice indizio, in mancanza di altre prove. Col tempo, alla prova testimoniale venne preferita quella scritta. Gli strumenti si distinguevano in pubblici e privati. I primi facevano piena fede in giudizio, e contro essi non era ammessa che la querela di falso. Il valore delle scritture private variava, invece, a seconda delle diverse specie (epistolae, libri mercatorum, ecc.) e veniva talora assimilato a quello dell'atto pubblico: ad es., se il documento risultava scritto di pugno dalla parte o sottoscritto da tre testimonî. Grande importanza assunse pure il giuramento - da non confondersi con quello de calumnia - che poteva essere deferito o riferito fra le parti o imposto dal giudice (fu questo il cosiddetto iuramentum suppletorium, in supplementum probationis), nel caso in cui l'attore avesse offerto una prova semipiena.
Esauriti tutti i mezzi posti a disposizione delle parti, scaduti i termini per l'eventuale produzione di nuovi documenti, l'istruzione della causa giungeva a termine con la conclusio: atto formale che, come riferiscono le fonti canoniche, claudit os partibus (regola che però nella pratica subiva numerose eccezioni). Sui puncta, nei quali venivano precisate e riassunte le questioni controverse, il giudice era chiamato a pronunciare la sentenza, entro un termine che si computava dal momento della conclusio. Il suo giudizio era però tutt'altro che libero, non soltanto in applicazione della già ricordata norma, che gl'imponeva di decidere secundum allegata et probata, ma anche perché era pratica quasi universalmente diffusa e confermata anche dalle leggi, che prima di pronunciare la sentenza egli dovesse chiedere il consiglio di persone esperte di diritto (consilium sapientis) - istituto questo che, secondo alcuni, dovrebbe essere considerato come un avanzo della primitiva collegialità del giudizio, mentre, secondo altri, deriverebbe la sua origine da quello romano dei consiliarii o adsessores - e in molti luoghi anche obbligatoriamente seguirlo, riducendosi la sua attività, in questo caso, alla sola pubblicazione del consiglio stesso. Con l'affermarsi, poi, nel periodo dei principati e delle monarchie, del più rigido assolutismo, il giudice veniva spesso obbligato, prima di pronunciare la sentenza, a far relazione della causa al principe (consultatio ad principem) e a rimettersi alla sua decisione.
Se il tribunale era collegiale, si nominava, di solito, un giudice relatore, ed era regolata da norme precise la formazione della maggioranza. La sentenza doveva essere redatta in iscritto e pubblicata in presenza delle parti, che venivano appositamente citate. Dal secolo XIV entrò nell'uso la notificazione per pubblico ufficiale, dalla data della quale decorreva il termine per appellare. Le sentenze si distinguevano in interlocutorie e definitive. Sulla natura giuridica e sul valore delle prime i pareri erano discordanti, considerandole alcuni come sentenze semipiene che vicem rei iudicatae non optinent, mentre altri, specialmente i canonisti, sostenevano che in certi casi la sentenza interlocutoria acquistava efficacia di definitiva e come questa era appellabile.
In antitesi col primitivo principio del diritto germanico, che escludeva, di regola, qualsiasi reclamo contro le sentenze, che erano accettate contrattualmente dalle parti prima che fossero pronunciate, nel sistema processuale del Rinascimento, contro le sentenze definitive erano possibili varî rimedî, dei quali il più importante era l'appello. La pace di Costanza lo riservava, nelle cause superiori alle 25 libre imperiali, all'imperatore (che, quando era assente dall'Italia, per esercitare la iurisdictio in causa appellationum, inviava vicarî nei diversi comuni). Ma quando, dal secolo XIV in poi, le civitates riuscirono ad affermare la loro più completa indipendenza di fronte all'Impero - espressa da Bartolo nella famosa formula: civitas superiorem non recognoscens est tibi princeps - ottennero il riconoscimento della piena autonomia giudiziaria, e con questa del diritto di affidare a speciali magistrature comunali la giurisdizione di seconda istanza. L'appello, che prima veniva proposto verbalmente nel momento della pronuncia della sentenza (viva voce iudice sedente), venne poi presentato in iscritto, entro un termine stabilito, al magistrato giudicante (se questo si rifiutava di accettarlo, poteva essere proposto direttamente al giudice superiore), il quale rilasciava, allegando la sentenza e gli atti processuali, le litterae dimissoriae o apostoli al magistrato investito del nuovo giudizio, il cui svolgimento procedeva con termini abbreviati. Se la sentenza aveva tali vizî di forma da doversi considerare come inesistente, il rimedio era la querela di nullità, che veniva presentata allo stesso giudice d'appello. Altri rimedî contro le sentenze furono la revocazione, cioè la riforma da parte dello stesso giudice sentenziante (ciò che poteva avvenire quando, dopo la sentenza, fosse offerta la prova di un errore di fatto in cui il giudice era incorso, o risultasse la falsità dei documenti in base ai quali la sentenza stessa era stata pronunciata) e, nel periodo delle monarchie assolute, la supplicatio, cioè il ricorso di grazia al principe, contro sentenze inappellabili.
La cognizione ordinaria, di cui abbiamo schematicamente esposta la struttura e richiamate le fasi, allo scopo di attribuire le più complete e sicure garanzie alla difesa giudiziale dei diritti, risultava lenta e macchinosa, con la conseguenza di perpetuare le liti e di compromettere, con grave dispendio delle parti in causa, il proficuo funzionamento della giustizia. Si sentì quindi, fino dalla prima epoca comunale, il bisogno di procedere, in certi casi, più rapidamente alla definizione delle controversie, accorciando i termini, sopprimendo le formalità inutili, evitando le dilazioni non necessarie, concedendo al giudice ampî poteri per eliminare le eccezioni opposte in mala fede, al solo scopo di prolungare la lite e di stancare l'avversario. Ma spetta al diritto canonico (i principi fondamentali furono fissati dalle due decretali: Saepe (1306) e Dispendiosa (1311) di Clemente V) il merito di aver dato completa elaborazione e sistemazione dottrinale a quella forma di processo che dalle parole: summatim cognoscere delle fonti romane, venne qualificato come "sommario" o anche come "planario", perché si svolgeva de plano (in opposizione a pro tribunali)... simpliciter sine strepitu et figura iudicii. Accolto subito dai tribunali laici, il processo sommario (che in origine veniva applicato soltanto in alcune cause penali, in controversie civili di modico valore, in cause alimentari, ecc., e specialmente presso le curie mercantili) si estese più tardi ad altre numerose materie, così da trasformarsi in processo ordinario.
Il procedimento esecutivo ha conservato, nella prima fase del periodo del Rinascimento, alcune sopravvivenze dell'esecuzione privata, il cui persistere era favorito dal riconosciuto valore della clausola, molto frequente nei documenti, con cui il debitore autorizzava il creditore, nel caso d'insolvenza, a procedere di propria autorità contro la sua persona o i suoi beni. Ma contro queste pratiche, ispirate al principio della autogiustizia, reagirono presto i comuni, i quali cercarono di frenare l'arbitrio privato e di avocare ai proprî organi l'esercizio esclusivo della funzione esecutiva, o, per lo meno, di rendere necessario il concorso della pubblica autorità per legittimare l'attività dei privati, intesa ad assicurare con misure preventive, o ad attuare la concreta realizzazione dei loro diritti. Fra le misure preventive, basti qui ricordare il sequestro conservativo e l'arresto.
Contro il debitore sospetto d'insolvenza o di fuga fu attuato nella pratica ed elaborato dalla dottrina l'istituto del sequestro conservativo, che il creditore eseguiva sui beni del debitore, dopo aver ottenuto dal giudice un praeceptum intrandi, capiendi sine ulla citatione et sine cognitione causae. Si trattava di una misura cautelare di carattere provvisorio, a cui si ricorreva indipendentemente dal giudizio, ma allo scopo di attribuire al creditore una garanzia per il futuro giudizio.
Altra misura preventiva, attuata come mezzo di coazione, o allo scopo d'impedire la fuga del debitore insolvente, fu l'arresto, che veniva eseguito da pubblici ufficiali per ordine del giudice, in base a un giusto titolo, e che era mantenuto fino a quando il debitore stesso presentasse idonei fideiussori. La scarcerazione poteva essere ottenuta anche con la cessione dei beni, che era pure un mezzo per evitare l'arresto, e veniva concessa in seguito all'accertata insolvenza del debitore, non per frode, ma per cause indipendenti dalla propria volontà. La cessione, che deriva da quella romana, era accompagnata, nel periodo medievale, da pratiche ignominiose (il cedente veniva condotto nella pubblica piazza, scalzo e coperto della sola camicia, e fatto sedere su una pietra, esposto al pubblico disprezzo) destinate a rendere notorio lo stato di povertà di colui che la subiva.
Mezzo esecutivo di carattere personale fu il bando, che veniva pronunciato, oltre che contro il contumace, anche, a richiesta dei creditori, contro il debitore insolvente. Il bandito, il cui nome era iscritto in libro forbannitorum comunis, perdeva la cittadinanza e poteva essere arrestato e mantenuto in vinculis fino al pagamento del debito o alla presentazione d'idonei fideiussori. Ma le conseguenze del bando per debiti erano meno gravi di quelle derivanti dal bando per maleficio. Era infatti punita l'offesa contro la persona del bandito per debiti, mentre era ammesso a favore dei creditori il pignoramento dei suoi beni mobili e la immissione in possesso degl'immobili.
L'esecuzione reale si compiva prima sui beni mobili, poi sui crediti e finalmente, sugl'immobili. Dei mobili venivano esclusi dall'esecuzione quelli necessarî alla famiglia, gli strumenti di lavoro, ecc.; degl'immobili erano sottratti all'espropriazione quelli feudali, fedecommissarî, beneficiarî ed enfiteutici. Alla stima, fatta da pubblici aestimatores, seguiva o la dazione in solutum di detti beni, ai creditori, o la vendita all'asta, che, annunciata ripetutamente da banditori, doveva svolgersi nella pubblica piazza, in giorno di festa o di mercato. La somma ricavata serviva per soddisfare i creditori e pagare le spese giudiziarie.
Le misure intese a conservare il patrimonio del debitore nell'interesse dei creditori diedero origine al procedimento fallimentare, che è una creazione italiana, di cui una legge senese del 1180, completata da disposizioni contenute nel costituto del 1310, offre la più antica disciplina. Questo procedimento, al quale a Siena, a Napoli e altrove erano soggetti anche i debitori non commercianti, si svolgeva davanti a magistrature speciali, ed era diviso in due fasi: la prima, intesa all'accertamento di tutti i debiti del fallito (si attuava invitando con bandi chiunque a denunciarli e i creditori a presentare i loro titoli) e alla formazione della massa; la seconda destinata all'esecuzione e liquidazione, che si eseguiva con la vendita dei beni al migliore offerente e con la distribuzione del prezzo fra i creditori. Gravi pene erano comminate ai falliti, nel caso che il fallimento risultasse doloso.
A cominciare dal see. XIII il procedimento esecutivo fu ammesso anche in base ai cosiddetti strumenti guarentigiati o confessionati, la cui origine si collega, da una parte con l'esecuzione convenzionale sopra ricordata, dall'altra con la veste di pubblico ufficiale, assunta dal notaio. Con un'interpretazione errata, ma feconda di conseguenze, del principio romano: confessus pro iudicato habetur, si ammise che il notaio, a cui furono attribuite funzioni di giudice (iudex, chartularius), potesse inserire nel pubblico strumento una clausola, che fu detta comandamento della guarentigia o condemnatio (in Piemonte si richiese, in detti strumenti, il sigillo sovrano: stile di sigillato), in forza della quale il debitore consentiva, nel caso d'inadempimento dell'obbligazione entro un termine stabilito, di sottostare a un particolare procedimento esecutivo, che fu detto esecuzione parata. In tal modo, gli strumenti forniti della clausola esecutiva, che probabilmente ebbe origine in Toscana, acquistarono la stessa efficacia della sentenza passata in giudicato.
Processo penale. - Continua ad essere praticato anche in questo periodo il sistema accusatorio, ma accanto ad esso si afferma, nel sec. XIII, e acquista decisa prevalenza nel secolo successivo, quello inquisitorio.
L'accusa, prima pubblica e orale, nel sec. XIII viene invariabilmente presentata in iscritto ed è ricevuta dal notaio del comune, che la trascrive nel Liber accusationum. Segue la citazione, notificata dal nuncius per ordine del giudice, secondo le norme del processo civile ordinario. Nel sistema processuale del Rinascimento non trova, di regola, applicazione la romana inscriptio in crimen - eccezionalmente richiesta da qualche legislazione, come, ad es., dalle costituzioni di Federico II - e la conseguente grave pena del taglione, comminata dal diritto romano contro l'accusatore che non riusciva a provare l'accusa. Si voleva, infatti, in mancanza di un regolare servizio di polizia, facilitare e incoraggiare la cooperazione dei privati all'amministrazione della giustizia. A tal fine l'accusa, sfornita di sanzioni anche se colui che l'aveva presentata non riusciva a provarla, resa possibile da parte di chiunque, anche senza interesse, si trasformò, più tardi, in denuncia, presentata in iscritto e destinata a rimanere segreta. Favorite furono pure le denunce anonime, che resero tristemente famosa la Bocca della verità a Venezia e la Tamburazione a Firenze. Le denunce diventarono così, specialmente nel periodo dell'assolutismo, uno strumento di calunnia e di vendetta, tanto più pericoloso in quanto ai denuncianti venivano promessi premî e persino assicurata l'impunità anche se rei. Le denunce anonime furono uno dei mezzi destinati a promuovere il procedimento inquisitorio o d'ufficio. Tale procedimento - di cui si possono riscontrare remoti precedenti, oltre che nella romana cognitio extra ordinem, nella monarchia longobarda e in quella franca, nelle quali la persecuzione dei reati pubblici (puniti con la grave sanzione della perdita della pace, Friedlosigkeit) era, non sollecitata dalla privata accusa, ma promossa d'ufficio dalla pubblica autorità - ebbe nel diritto canonico (di fondamentale importanza furono, in proposito, alcune decretali d'Innocenzo III, 1198-1216) completa disciplina legislativa ed elaborazione dottrinale, e si estese poi ai tribunali laici, sostituendosi, gradualmente, al sistema accusatorio, così da diventare il procedimento penale ordinario.
Il processo inquisitorio era promosso da denunce presentate o da privati o da magistrati speciali, istituiti nelle città e nelle campagne (massari, giurati, campari, ecc.) col compito d'informare i iudices maleficiorum dei reati commessi, indicandone i presunti autori. Nell'Italia meridionale fu praticata una particolare forma d'inquisitio generalis, importata dai Normanni e più tardi accolta e disciplinata da Federico II. Lo svolgimento successivo dell'inquisizione procedeva in forma scritta e segreta, attraverso due fasi distinte: la prima, preparatoria (generale), destinata ad accertare l'esistenza del reato, a raccogliere indizî, a constatare la pubblica fama. Contro colui che risultava infamatus, si svolgeva l'inquisizione speciale. Se era recidivo, o se gl'indizî a suo carico apparivano gravi, veniva carcerato; altrimenti poteva ottenere la libertà provvisoria (abilitazione) dietro cauzione, o presentando mallevadori. A sostenere l'accusa, promovendo la raccolta delle prove e l'interrogatorio dei testi, provvedeva il pubblico accusatore. È questa un'istituzione di origine italiana, che dal primo nucleo, costituito dall'istituto dell'advocatus de parte publica, elaborato dalla scuola di Pavia, si sviluppa, attraverso quello veneziano degli avogadori del Comun e quello dell'advocatus o procurator fisci, diffuso in Piemonte e in altre regioni italiane, fino a diventare un precedente del moderno pubblico ministero (forse, nella sua figura definitiva, derivato da quello francese). In base al risultato delle testimonianze e delle altre prove raccolte, si formulava l'atto di accusa, che veniva comunicato all'inquisito, il quale, da questo momento poteva predisporre la sua difesa con l'assistenza dell'avvocato, o da lui liberamente scelto, o assegnatogli d'ufficio (a Venezia e altrove, in questo caso, l'avvocato dei poveri). Seguivano gli snervanti interrogatorî - di cui si redigeva processo verbale - nell'eseguire i quali il giudice manifestava tutta la sua abilità, cercando di sorprendere la più piccola esitazione nell'inquisito, di farlo cadere in contraddizione. Se il risultato degl'interrogatorî non riusciva conclusivo, si richiamavano i testimonî già uditi nell'inquisizione generale e con questi l'imputato veniva messo a confronto.
Di tutti i mezzi di prova quello che presenta valore preminente nel processo penale è la confessione. Si può anzi affermare che tutto il meccanismo del sistema inquisitorio era proprio diretto a ottenere la confessione del colpevole, che fu qualificata come optima regina probationum, appunto perché più delle altre prove riusciva a procurare la certezza legale del delitto e ad acquietare la coscienza del giudice. Per conseguirla a tutti i costi si ricorreva all'estremo espediente della tortura. Le leggi e la scienza criminale cercarono di limitare l'uso di questo terribile mezzo d'indagine, condizionandolo alla gravità del reato, alla cattiva fama dell'imputato, all'esistenza di chiari e fondati indizî a suo carico. Ma col tempo prevalse la tendenza all'applicazione dei tormenti: pro quolibet sufficienti inditio, abbandonandosi la valutazione della "sufficienza" all'arbitrio del giudice. Il ricorso alla tortura doveva essere ordinato con sentenza, la quale preseriveva la specie del tormento (morsa di ferro, aculeo o cavalletto, corda, veglia, sete, fuoco alle piante dei piedi, ecc.), e il grado di esso. L'applicazione del supplizio doveva, inoltre, essere preceduta dall'ammonizione a confessare, fatta dal giudice e, se questa risultava inefficace, dalla territio, prima verbale e poi reale, eseguita nella stanza della tortura. La confessione strappata dallo strazio del tormento non portava subito alla condanna. L'imputato doveva ripeterla dopo almeno ventiquattr'ore dalla cessazione del supplizio, davanti al giudice. Se ritrattava, veniva di nuovo torturato e, se dopo la rinnovata tortura rinnovava la confessione, si considerava come provata la colpevolezza. Né l'aver l'inquisito superato la prova senza confessare, portava sempre alla sua assoluzione. Se gl'indizî a suo carico erano gravissimi, gli si poteva infliggere una pena straordinaria, che era però meno grave di quella ordinaria.
La sentenza penale, pronunciata e pubblicata secondo le regole già esposte per quella in materia civile, era, in principio, come quest'ultima, soltanto di assoluzione o di condanna. Ma, a cominciare dal sec. XVI, entrò nell'uso, accanto all'assoluzione per provata innocenza, che estingueva completamente l'azione penale, la liberazione pro nunc, rebus sic stantibus. Questa aveva luogo quando non risultava legalmente provata né l'innocenza né la colpevolezza dell'imputato, contro il quale novis supervenientibus indiciis poteva essere riaperto il giudizio.
Lo svolgimento del processo penale attraverso le fasi e le formalità sopra brevemente accennate non sempre era applicato. Nel caso di flagranza si istituiva un procedimento (in origine riservato ai tribunali supremi) detto ex abrupto, nel quale il giudice era dispensato dall'osservanza delle solennità ordinarie. Così pure, in tempo di guerra o di gravi pericoli per la sicurezza pubblica, o anche nel caso di reati atroci, veniva instaurato un processo straordinario detto: ad usum belli, ad horas, statario, che si concludeva in pochissimi giorni o anche in poche ore e che non ammetteva appello.
Con la struttura e i caratteri qui richiamati in rapidissima sintesi, le istituzioni processuali giungono fino alla fine del sec. XVIII, nel quale l'azione riformatrice dell'assolutismo illuminato, eccitata dalla solenne protesta di Cesare Beccaria e dalle nuove dottrine filosofiche, di cui furono sommi interpreti Gaetano Filangieri, Mario Pagano e Domenico Romagnosi, preparò la formazione e la diffusione - col tramite delle codificazioni francesi - del sistema processuale moderno.
Bibl.: Opere di carattere generale: M. A. Bethmann-Hollweg, Der Civilprozess des gemeinen Rechts in geschichtl. Entwicklung, IV-VI, Bonn 1868-74; A. Pertile, Storia del diritto italiano, VI, i e II, Torino 1900-1902; G. Salvioli, Storia della procedura civile e criminale, in Storia del diritto italiano, pubblicata sotto la cura di Vincenzo del Giudice, III, i e ii, Milano 1925-27. Sul processo germanico si veda l'ampia bibliografia riportata in R. Schröder, Lehrbuch der deutschen Rechtsgeschichte, 6ª ed., Lipsia 1922, p. 90 (par. 13) e pp. 388-89 (paragr. 37), e in H. Brunner, Deutsche Rechtsgeschichte, I, 2ª ed., Lipsia 1906, p. 251 (par. 24); II, 2ª ed., 1928, p. 435 (par. 98); sul processo canonico si veda la bibliografia richiamata in G. Salvioli, op. cit., parte 2ª, p. 157, nota i; sul processo medievale italiano, quella riferita nelle opere del Bethmann-Hollweg, del Pertile e del Salvioli, sopra citate. V. anche A. Solmi, Storia del diritto italiano, 3ª ed., Milano 1930, pp. 211 (par. 37), 292 (par. 56), 609 (par. 105), 709 (par. 121); G. Chiovenda, Saggi di diritto processuale civile, I, Roma 1930, p. 181 segg.; id., Istituzioni di dir. proc. civ., Napoli 1933, pp. 136-37. - Per il richiamo dei più importanti trattatisti medievali del diritto processuale, v. G. Salvioli, op. cit., III, ii, p. 161 segg.
Ordinamento italiano vigente.
Processo civile. - È l'insieme delle attività svolte dagli organi dello stato per l'esercizio del potere di giurisdizione in materia civile (v. giurisdizione), cioè per attuare nel caso concreto il comando della legge allo scopo di rendere praticamente effettivo lo stato di fatto voluto dal diritto. Restano, quindi, esclusi da questo concetto, da un lato, il processo penale, dall'altro, le varie figure di processo amministrativo e del lavoro.
Il processo civile è stato considerato per moltissimo tempo un'attività prevalentemente privatistica, svolta cioè nell'interesse dei soggetti litiganti che aspiravano a ottenere con l'aiuto del giudice il soddisfacimento dei loro diritti. Solo recentemente si è considerato come principale e assorbente l'interesse che aveva lo stato a vedere rispettate e attuate in concreto le sue leggi e sostituito ai litigi dei cittadini il trionfo della giustizia. Conseguentemente l'organo pubblico, cioè il giudice con i suoi ausiliarî, è considerato oggi come il soggetto principale del processo civile, nel quale svolge una funzione eminentemente pubblica e sovrana, e questa concezione impronta fortemente di sé la teoria e la pratica del processo, e specialmente i progetti di riforma del codice di procedura civile vigente (su di esso, sulle leggi complementari e sui lavori di riforma, v. codice: Il codice di procedura civile). Tuttavia, poiché la materia su cui opera il processo è data dai rapporti giuridici delle parti, ed esse meglio di ogni altro li conoscono e hanno un personale interesse a vederli regolati, l'influenza della loro volontà, l'importanza delle loro iniziative e della loro collaborazione, sono sempre grandissime. La legge anzi si serve di questa collaborazione delle parti e la disciplina minutamente cercando di garantire l'uguaglianza della loro posizione, compatibilmente con le varie necessità dei singoli casi: il principio del contraddittorio (audiatur et altera pars) non risponde solo a esigenze di equità, ma è ritenuto il mezzo migliore per raggiungere la conoscenza della verità e per fornire al giudice tutti gli elementi che gli occorrono per svolgere la sua funzione.
La prima manifestazione di questo potere, che hanno le parti, si riscontra subito all'inizio del processo, che non si svolge d'ufficio, ma solo dietro iniziativa e per lo stimolo della parte interessata. Non vi è processo senza una parte che lo domandi e lo provochi: nemo iudex sine actore. In questo potere della parte di promuovere il processo consiste l'azione (v. azione). In tutto lo svolgimento del processo domina poi l'impulso di parte, perché è affidata prevalentemente alle parti l'attività diretta a ottenere il progressivo movimento del processo. E infine nell'istruttoria domina il principio dispositivo, perché nella formazione del materiale di cognizione il giudice è prevalentemente soggetto all'iniziativa delle parti, e la causa deve essere decisa sugli atti delle parti e sulle risultanze delle prove fornite o raccolte nel processo; il giudice è libero solo nella determinazione e nell'accertamento della norma giuridica applicabile alla fattispecie (iura novit curia; narra mihi factum, dabo tibi ius). Solo eccezionalmente, quando per il suo oggetto il processo ha importanza sociale (ad es., nelle questioni di stato personale e nei rapporti di famiglia), questi principî risultano attenuati (cosiddetto processo civile inquisitorio), e insieme un organo dell'amministrazione, il pubblico ministero, interviene nel processo per controllarne l'andamento e può talvolta anche farsi parte attrice (v. pubblico ministero).
Così, attraverso l'attività contradditoria delle parti contendenti, assistite di solito dai rispettivi difensori (procuratori e avvocati), utilizzando ove occorra le dichiarazioni e le cognizioni di terzi, esaminando i documenti e le cose che alla causa si riferiscono, il giudice è posto in grado di ricostruire imparzialmente i fatti e di applicare a essi il diritto oggettivo, provvedendo in conseguenza con attività, ora giuridica (pronuncia di comandi), ora materiale, allo scopo di tutelare, con i mezzi di cui dispone lo stato, le ragioni di chi ha un diritto insoddisfatto, incerto o minacciato. Per conseguire questo scopo si richiedono attività svariatissime, che si raggruppano nelle tre funzioni fondamentali del processo: cognizione, esecuzione, conservazione. A ciascuna di esse corrisponde una fase distinta del processo, o meglio un processo autonomo; e a sua volta ciascun processo, mentre riceve nella sua unità il carattere che corrisponde al suo scopo fondamentale, raggruppa in sé più o meno delle attività che, per sé considerate, rispondono a tutte e tre le funzioni indicate. Secondo i casi e le vicende di ciascuna fattispecie può essere necessario uno solo o più di questi processi, variamente combinati fra loro.
Azione e rapporto processuale. - Il processo rappresenta anch'esso un rapporto giuridico che nasce, si svolge e finisce. Tutti gli atti del processo servono a farlo procedere verso la sua conclusione. Soggetti del rapporto processuale sono, da un lato, l'organo dello stato; dall'altro le parti, che sono almeno due (attore e convenuto, creditore e debitore; v. parti). Questo rapporto ha proprî presupposti di esistenza e di regolarità, ed è fonte di poteri e oneri e anche (secondo alcuni) di diritti e obblighi per i suoi soggetti. Il contenuto fondamentale del rapporto processuale consiste nell'attività dell'organo dello stato per provvedere sull'azione proposta. Condizioni di ammissibilità dell'azione sono l'interesse ad agire (che è dato dall'interesse a conseguire ciò che si domanda per opera degli organi giurisdizionali, ciò che suppone genericamente uno stato di fatto contrario al diritto o al normale godimento dei beni che spettano a ciascuno, che possa essere rimosso per opera degli organi giurisdizionali), e la legittimazione ad agire (che consiste nella titolarità attiva e passiva dell'azione, cioè nell'identità delle persone dell'attore e del convenuto con le persone a cui e contro cui rispettivamente l'azione è concessa a norma di legge). Ma l'organo dello stato non può provvedere sull'azione, se non sussistono in concreto i presupposti di regolarità del rapporto processuale (presupposti processuali), che riguardano principalmente la capacità dei soggetti, vale a dire la competenza del giudice (v. competenza) e la capacità processuale delle parti (v. parti). Su questi presupposti, ove siano dubbî, sorge la necessità d'indagini e decisioni per sé stanti; e se si riscontrano mancanti, il processo finisce senza provvedimento sull'azione.
Gli atti del processo sono soggetti a determinati requisiti di forma, la cui inosservanza ha per sanzione la nullità dell'atto; e devono essere compiuti entro certi termini, il cui decorso produce la preclusione, cioè la perdita della facoltà di compiere utilmente l'atto stesso.
Processo di cognizione. - Il processo di cognizione ha lo scopo di conoscere e accertare i rapporti giuridici esistenti fra le parti e provvedere su di essi con la pronuncia di un comando. L'atto finale del processo di cognizione è quindi una decisione e precisamente una sentenza o un provvedimento equiparato, che provvede sull'azione proposta dichiarandola fondata o infondata e conseguentemente accogliendola o respingendola. Questo risultato è rafforzato dall'autorità della cosa giudicata, allo scopo di evitare il prolungarsi e moltiplicarsi delle liti (v. cosa giudicata).
Le sentenze si distinguono per il contenuto e gli effetti in più categorie (a cui corrispondono parallelamente le azioni e i processi che mirano a conseguirle): si ha sentenza di accertamento, quando il giudice si limita ad accertare e dichiarare lo stato attuale dei rapporti giuridici fra le parti, e l'accertamento può avere un contenuto positivo o negativo secondo che accerti l'esistenza o l'inesistenza di un rapporto giuridico. L'effetto di questa sentenza è unicamente quello di procurare la certezza sullo stato attuale di una determinata situazione giuridica. Appartengono a questa categoria tutte le sentenze che rigettano un'azione, perché contengono l'accertamento della sua infondatezza. Si ha invece sentenza costitutiva, quando il giudice, previo accertamento della situazione giuridica esistente, interviene a modificarla a norma di legge, costituendo, mutando, o sciogliendo un rapporto giuridico; nel momento in cui la sentenza diventa definitiva, subentra fra le parti il mutamento pronunciato dal giudice. Una sottospecie di questo tipo è data dalla sentenza dispositiva o determinativa, nella quale la misura o le modalità del mutamento che il giudice può produrre non sono astrattamente fissate dalla legge, ma sono rimesse a una sua valutazione discrezionale. Si ha infine sentenza di condanna, quando il giudice, previo accertamento di un obbligo di prestazione, condanna il debitore all'adempimento, e cioè ne assoggetta il patrimonio all'esecuzione forzata destinata a procurare al creditore ciò che gli spetta: l'effetto caratteristico della condanna è, dunque, di valere come titolo esecutivo e di rappresentare, quindi, il ponte di passaggio tra processo di cognizione e d'esecuzione. In alcuni casi un provvedimento equivalente alla condanna, agli effetti esecutivi, può essere ottenuto in modo più rapido attraverso una cognizione sommaria: tali sono il decreto d'ingiunzione (v. ingiunzione) e la condanna con riserva in base a cambiale (art. 324 cod. comm.; v. cambiale) o in caso di eccezione di compensazione (art. 102 cod. proc. civ.; v. compensazione).
Secondo il diritto vigente il procedimento ordinario di cognizione davanti ai tribunali e alle corti d'appello si svolge secondo le regole del procedimento sommario (art. 155 cod. proc. civ.), riformato dalla legge 31 marzo 1901 e relativo regolamento. Esso è un procedimento prevalentemente scritto, perché gli atti importanti della causa devono essere fatti per iscritto e l'udienza non serve alla trattazione della causa, ma solo a presentare le scritture e a chiedere un provvedimento al giudiee. La domanda è fatta con atto di citazione, che deve essere, a cura dell'attore, notificato al convenuto e contenere invito a comparire in giudizio a una udienza fissa (art. 1 legge 31 marzo 1901; v. domanda giudiziale). A tale udienza, o a una successiva a cui la causa sia stata rinviata, le parti possono costituirsi a mezzo di procuratore o (nelle cause commerciali) anche personalmente. Le conclusioni delle parti (cioè il testo esatto e definitivo delle loro domande) e lo svolgimento delle ragioni atte a giustificarle sono contenuti in atti scritti che si chiamano comparse (art. 162 cod. proc. civ.) e si scambiano e presentano all'udienza. Nella stessa forma si chiede l'assunzione di un mezzo istruttorio, che viene disposto con ordinanza del presidente, se le parti sono d'accordo o se vi è urgenza, altrimenti con sentenza del collegio, e affidato di solito a un giudice delegato, il quale lo raccoglie in apposita udienza istruttoria e ne redige verbale, che sarà poi presentato per copia dalla parte interessata (art. 206 segg. cod. proc. civ.; v. prova). Intorno all'ammissibilità e concludenza della prova possono sorgere le più svariate questioni e i più diversi incidenti in sede di assunzione; e la decisione delle une e degli altri, e in genere le sentenze interlocutorie, sono impugnabili secondo le regole generali, potendo così occasionare la nascita di vere e proprie cause incidentali nel seno della causa principale. Altre complicazioni possono essere provocate da terzi (v. intervento, App.) che possono intervenire volontariamente nel processo (art. 201 cod. proc. civ.) sia per sostenervi un proprio diritto (intervento principale), sia per aiutare una delle parti (intervento adesivo), o possono essere chiamate in causa tanto per iniziativa di una parte quanto per disposizione del giudice (art. 193 segg., 203 segg., cod. proc. civ.). Quando è istruita, la causa viene spedita, cioè cancellata dal ruolo di udienza e affidata al magistrato per la decisione, con la consegna al medesimo dei fascicoli contenenti le comparse e i documenti. La legge consente che all'udienza di spedizione si svolga una discussione orale (art. 349, 350 cod. proc. civ.), che è però scarsamente usata. Alcune semplificazioni sono disposte per le cause davanti ai pretori e conciliatori (art. 415 segg. cod. proc. civ. e legge 15 settembre 1922 e relativo regolamento 20 settembre 1922).
Il processo può terminare anche senza decisione, cioè per componimento, quando le parti si accordano davanti al giudice sull'oggetto della causa; o per rinuncia agli atti, quando l'attore rinuncia agli effetti del processo col consenso del convenuto (art. 343 cod. proc. civ.); o infine per perenzione, quando trascorre un certo tempo senza che si compia alcun atto processuale (art. 338 e segg. cod. proc. civ.). In questi due ultimi casi la fine del processo non influisce direttamente sull'azione, che resta impregiudicata.
Non verificandosi una di queste ipotesi, la causa viene decisa con la sentenza, che contiene (oltre all'indicazione del giudice che pronuncia, delle parti e delle loro conclusioni) la motivazione in fatto e in diritto, il dispositivo (art. 360 cod. proc. civ.), cioè il concreto provvedimento, e infine la condanna del soccombente nelle spese del giudizio (art. 370 cod. proc. civ.). Questa sentenza è però definitiva solo se le parti non propongono contro di essa un mezzo d'impugnazione. Il sistema delle impugnazioni s'ispira anzitutto al principio del doppio grado, cioè della possibilità che la causa venga esaminata una seconda volta in tutti i suoi elementi da un giudice superiore (v. appello); la sentenza d'appello è a sua volta per determinati vizî soggetta al ricorso per cassazione, a cui segue eventualmente il giudizio di rinvio (v. corte: La Corte di Cassazione; rinvio, giudizio di); e tanto quella di primo quanto quella di secondo grado possono essere impugnate, in caso di contumacia del convenuto, con l'opposizione del contumace, e per altri vizî eventuali con la domanda di revocazione e l'opposizione del terzo (v. contumacia; revocazione; opposizione).
La sentenza si considera passata in giudicato, cioè definitiva, quando non è soggetta a opposizione contumaciale, né ad appello, né a ricorso in cassazione, né a revocazione secondo l'art. 494, n. 4 e 5 (G. Chiovenda).
Processo esecutivo. - Quando è accertata più o meno definitivamente l'esistenza di un obbligo alla prestazione di una cosa o di una quantità determinata di un genere, il processo deve far ottenere al creditore ciò che gli spetta togliendolo o procurandoselo dal patrimonio del debitore. A questa funzione adempie il processo esecutivo, che talvolta sta a sé, tal'altra si presenta come la continuazione del processo di cognizione in cui il debitore fu condannato. Esso è costruito in modo da renderlo quanto più possibile libero da ogni necessità d'indagare sull'esistenza del diritto del creditore. Per questo è subordinato a un titolo esecutivo (art. 553 cod. proc. civ.), necessario e sufficiente perché la domanda del creditore possa aver corso, senza che s'istituisca alcuna forma di giudizio sul suo fondamento. Titolo esecutivo è propriamente l'atto costitutivo dell'azione esecutiva del creditore e della responsabilità esecutiva del convenuto, cioè della soggezione del suo patrimonio all'esecuzione forzata; e insieme il documento di questo atto, che il creditore deve possedere per poter agire. I principali titoli esecutivi sono: la sentenza di condanna ordinaria o sommaria, quando non sia più soggetta ad appello e opposizione contumaciale, o anche prima, se fu dichiarata provvisoriamente esecutiva (articoli 475, 482, 363, 409 cod. proc. civ.), ivi comprese le sentenze arbitrali e le sentenze straniere rese esecutive rispettivamente dal pretore e dalla corte d'appello; i ruoli delle imposte; gli atti contrattuali ricevuti da notaio o altro pubblico ufficiale (art. 554 cod. proc. civ.); la cambiale e l'assegno bancario, ecc. Se il debitore ha delle ragioni da far valere in contrario, deve istituire un processo incidentale di cognizione (cosiddetta opposizione di merito), che ora sospende, ora no, il proseguimento degli atti (articoli 570, 580, 660 cod. proc. civ.); nella stessa forma può sollevare le nullità o irregolarità eventuali degli atti esecutivi.
Oggetto dell'esecuzione è il patrimonio del debitore, e cioè tanto i suoi beni mobili e immobili quanto i suoi crediti; e inoltre anche quei beni altrui cui si estende la responsabilità esecutiva in forza di uno dei cosiddetti diritti reali di garanzia (pegno, ipoteca), nel qual caso il processo si fa direttamente contro il terzo possessore (art. 706 cod. proc. civ.). Se invece il processo esecutivo colpisce per errore un bene appartenente a un terzo estraneo, questi ha diritto d'intervenire e di pretenderne la restituzione (domanda in separazione: art. 647 e 699 cod. proc. civ.).
Quando il creditore ha diritto a ottenere dal debitore una cosa determinata mobile o immobile, l'esecuzione mira a togliere al debitore la cosa stessa e a consegnarla al creditore (rilascio). Quando invece il creditore deve ricevere una somma di denaro, l'esecuzione si fa vendendo all'incanto i beni del debitore mobili o immobili e destinando al creditore la somma così ricavata (espropriazione), somma che va però distribuita proporzionalmente fra tutti i creditori concorrenti, salvi sempre gli eventuali diritti di prelazione (v.). L'attività del creditore procedente giova quindi a tutti gli altri creditori partecipanti o iscritti, i quali hanno perciò diritto di essergli surrogati nella procedura in caso di sua negligenza (art. 575 cod. proc. civ.). È però discusso fra gl'interpreti se per partecipare alla distribuzione del ricavato sia necessario (F. Carnelutti) oppur no (L. Mortara) il titolo esecutivo. Le fasi principali dell'espropriazione sono quindi tre: il pignoramento, che serve a individuare i beni destinati all'esecuzione e a impedire al debitore di nasconderli, deteriorarli o alienarli, e ciò fa immobilizzando i beni stessi nelle mani del debitore o eventualmente di un terzo, rendendo la persona che li detiene responsabile della loro integrità anche con sanzioni penali e producendo l'inefficacia di fronte al procedimento esecutivo della loro alienazione (salvo per l'acquisto di buona fede dei beni mobili, art. 707 cod. civ.); la vendita all'incanto dei beni pignorati, di cui è molto discussa la natura giuridica, ritenendo taluni che si tratti di un contratto di vendita, altri di un atto autoritativo di trasferimento della proprietà; infine la distribuzione o riparto del ricavato tra i creditori, che specialmente nell'espropriazione immobiliare è molto complessa e prende il nome di giudizio di graduazione, servendo a determinare l'entità e il grado (cioè l'ordine di preferenza) dei creditori, e pertanto la quota che spetterà a ciascuno.
Lo svolgimento del processo esecutivo ha inizio con la domanda del creditore, che si fa col precetto, atto scritto che si notifica al debitore e contiene invito ad adempiere all'obbligazione, con avvertimento che in difetto si procederà all'esecuzione forzata (articoli 563, 577, 659, 741 cod. proc. civ.).
Il successivo svolgimento del processo è molto diverso secondo la qualità dell'esecuzione:
a) Processo di rilascio. - È dubbio se questa forma di esecuzione possa farsi solo in forza di una sentenza di condanna, o anche degli altri titoli esecutivi. Comunque, non è necessario il precetto, quando la condanna contenga prefissione del termine entro cui si debba eseguire il rilascio e si proceda nei 180 giorni successivi alla sua notificazione (art. 565 cod. proc. civ.). Per eseguire il rilascio, l'ufficiale giudiziario si reca sul luogo in cui si trovano i beni mobili o immobili dovuti e, previa ingiunzione al debitore di adempiere al suo obbligo, rimette le cose mobili al creditore o lo immette nel possesso dell'immobile, redigendo processo verbale delle operazioni compiute, il tutto secondo le disposizioni degli articoli 741-749 cod. proc. civ.
b) Processo esecutivo mobiliare. - Il pignoramento si fa in forma diversa secondo che si tratti di beni esistenti presso il debitore o di beni o crediti presso il terzo. Nel primo caso esso è fatto dall'ufficiale giudiziario che si reca sul posto, sceglie e stima approssimativamente i beni da espropriare, nomina loro un custode e redige un verbale delle operazioni fatte (art. 593 segg. cod. proc. civ.); nel secondo caso è fatto dall'ufficiale giudiziario che ingiunge al terzo il divieto di disporre della cosa pignorata senza ordine di giustizia e lo cita a comparire davanti al pretore perché dichiari i mobili che presso di lui si trovano o le somme da lui dovute al debitore (art. 611 segg. cod. proc. civ.). La vendita è ordinata con decreto del pretore (art. 623 e 618 cod. proc. civ.), annunciata con bando (art. 629) e infine eseguita dall'ufficiale giudiziario al pubblico incanto (art. 634 segg.). Se il bene pignorato presso il terzo è un credito, esso può invece, a determinate condizioni, essere assegnato in pagamento al creditore (art. 619). Alla distribuzione del ricavato concorrono in ragione dei crediti rispettivi i creditori istanti e quelli che abbiano fatto opposizione prima della vendita, senza pregiudizio dei diritti di privilegio (art. 651 cod. proc. civ., 1952 segg. cod. civ.). Se essi e il debitore accettano lo stato di ripartizione proposto, esso è tosto eseguito, altrimenti decide come di ragione il pretore o il tribunale competente per valore (art. 652 segg.).
c) Processo esecutivo immobiliare. - Il pignoramento si fa mediante la trascrizione presso l'ufficio delle ipoteche del precetto contenente l'indicazione dei beni immobili da espropriare, e da tale data il debitore ne rimane in possesso come sequestratario giudiziale, mentre i frutti saranno distribuiti unitamente al prezzo degli stessi beni (art. 2085 cod. civ.). La vendita deve essere autorizzata con sentenza del tribunale (art. 666 cod. proc. civ.), annunciata con bando (art. 667), infine eseguita al pubblico incanto in apposita udienza del tribunale (art. 674 segg.). Entro quindici giorni è ammesso l'aumento non minore del sesto sul prezzo della vendita (art. 680). In caso d'inadempimento del compratore, qualunque creditore può chiedere che i beni siano rivenduti a spese e rischio di lui (art. 689). La vendita trasferisce nel compratore soltanto i diritti che appartenevano sui beni immobili al debitore espropriato (art. 686). Il giudizio di graduazione è dichiarato aperto dalla sentenza che autorizza la vendita (art. 666). I creditori iscritti e gli altri che vogliono concorrere alla distribuzione del ricavato devono presentare la domanda di collocazione con i documenti giustificativi nella cancelleria del tribunale (art. 709). Lo stato di graduazione è poi omologato dal tribunale, sentiti i creditori e il debitore (art. 716).
Processo conservativo. - Possono darsi talora circostanze tali che rendano necessarî provvedimenti provvisorî e urgenti allo scopo di conservare lo stato di cose attuale, soprattutto quando vi sia il pericolo che, mentre si compie il processo, si possano produrre avvenimenti che compromettano in tutto o in parte il suo risultato. L'indole di questi provvedimenti esclude la possibilità di indagini approfondite sul loro buon fondamento, e cioè sull'effettiva esistenza di un diritto e di un pericolo che ne minacci il pratico soddisfacimento. Essi sono subordinati al fondato timore di un danno giuridico, cioè all'imminenza di un possibile danno a un diritto o a un possibile diritto.
Il processo conservativo si distingue in due fasi, quella della concessione e quella dell'esecuzione del provvedimento. Le principali misure conservative (o cautelari o assicurative) sono: il sequestro conservativo, che tende a conservare i beni mobili del supposto debitore, quando vi sia pericolo di una sua fuga o di sottrazione (art. 924 cod. proc. civ.); il sequestro giudiziario, che tende a conservare la cosa mobile o immobile su cui taluno pretende di avere un diritto (art. 1875 cod. civ.; art. 921 cod. proc. civ.); la denuncia di una nuova opera (v. opera nuova, denuncia di) e di danno temuto (v. danno: Azione di danno temuto, App., p. 158) che tendono a evitare un danno a una cosa posseduta, che possa essere provocato da un'attività altrui (opera nuova), o altrimenti (art. 698 e 699 cod. civ.; 938 segg. cod. proc. civ.).
Bibl.: Sul codice di procedura civile vigente, v. i Commenti di L. Borsari, F. S. Gargiulo, E. Cuzzeri, e soprattutto: F. Ricci, Commento al codice di procedura civile, voll. 4, 8ª ed., Firenze 1905; L. Mortara, Commentario del codice e delle leggi di procedura civile, voll. 5, 5ª ed. Milano 1922; G. Chiovenda, Principii di diritto processuale civile 3ª ediz., Napoli 1923 (ristampa, 1928), con ampia bibliografia italiana e straniera; id., Istituzioni di diritto processuale civile, voll. 2, Napoli 1933-34; F. Carnelutti, Lezioni di diritto processuale civile, voll. 7, Padova 1921-31; L. Mattirolo, Trattato di diritto giudiziario civile, voll. 6, 6ª ed. (rist. 5ª ed.), Torino 1931.
Processo monitorio: v. ingiunzione.
Processo penale. - La legge penale contiene la previsione generale e astratta dei reati, delle pene e degl'istituti affini; ma, perché possa servire alla sua destinazione pratica di difesa, è d'uopo venga applicata in confronto di determinati individui e per casi concreti: applicazione, la quale non può effettuarsi volontariamente o in via amministrativa, bensì soltanto mediante organi prestabiliti e secondo norme giuridiche. Cosicché il diritto penale viene realizzato mercé un giudizio che previene l'applicazione della sanzione. Questo giudizio preventivo si chiama appunto, sinteticamente, giudizio penale e anche e più usualmente processo penale. Delle due locuzioni, la prima esprime piuttosto il contenuto psicologico di tale istituzione; la seconda, l'esterna manifestazione.
Il processo penale si può considerare come il complesso delle attività e delle forme mediante cui da appositi organi fissati e prestabiliti dalla legge e con l'osservanza di determinate modalità, si provvede all'applicazione della legge penale nei casi concreti; naturalmente, abbisognano norme giuridiche, che ne regolino e disciplinino l'insieme e i singoli atti, che lo compongono, norme che costituiscono il cosiddetto diritto processuale penale.
Il processo penale si manifesta, pertanto, come lo strumento normalmente obbligatorio per l'applicazione del diritto penale onde si rende palese la sua natura subordinata e formale. Ne segue che lo scopo generale sociale, cui il processo è indirizzato, s'identifica con lo scopo generale o fondamento del diritto di punire, che è la difesa della società contro la delinquenza. Ma uno scopo più urgente e immediato lo pervade e lo sospinge: l'applicazione della legge penale nel concreto caso di delinquenza.
Ne segue, altresì, che il contenuto del processo è determinato dalle norme del diritto penale sostanziale; cioè la materia, su cui discutere e decidere nel processo penale, è quella ammessa dal codice penale. Il codice di procedura penale darà al giudice i poteri istruttorî; ma la fonte dei suoi poteri circa il reato e le sanzioni è essenzialmente nel codice penale. In tale senso il contenuto del codice penale tende sempre più ad estendersi, sia per quanto riguarda l'indagine sulla personalità del delinquente e la sua valutazione, sia per quanto riflette le sanzioni, nell'ordine delle quali le pene si vanno accoppiando, più o meno, alle misure di sicurezza, sia per quanto riguarda l'esecuzione delle stesse. Questi argomenti, entrando nell'ambito del processo, ne allargano il contenuto. L'esempio più cospicuo è il nuovo codice italiano di procedura penale del 1930.
Da quanto precede appare chiaro che oggetto fondamentale e indispensabile del processo penale è un concreto rapporto di diritto penale formulato in via d'incolpazione in confronto di una determinata persona. Si tratta, pertanto, di un rapporto giuridico avente natura pubblicistica: questa constatazione ha importanza somma, sia in quanto essa investe di animazione pubblicistica tutto quanto il processo, sia perché determina due principî, che governano sovranamente la condotta del processo medesimo. L'uno è la non disponibilità dell'oggetto del processo, nel senso che il concreto rapporto di diritto penale deve dedursi e muoversi nel processo penale nella sua interezza, materiale e giuridica, senza che possa essere inceppato da riduzioni e restrizioni imposte dai soggetti processuali; l'altro è l'immutabilità dell'oggetto del processo, nel senso che il processo non possa avere altra soluzione, che nella sentenza del magistrato. Spesso al concreto rapporto giuridico penale si accompagna un ulteriore rapporto giuridico, che diventa oggetto accessorio del processo; avendo riguardo alla sua configurazione più generale, consiste esso nell'obbligazione di risarcimento del danno nascente da reato. Quest'ultimo rapporto ha carattere patrimoniale e può venire innestato nel processo penale, perché presenta un interesse non solo particolare, per la vittima del reato, ma anche sociale, essendo interesse della collettività che i danni del reato vengano rapidamente e efficacemente risarciti.
La più moderna e accreditata concezione del processo penale è quella d'un rapporto giuridico pubblico: in esso si dibattono diritti sostanziali dello stato e dell'individuo ed eventualmente del leso; vengono in considerazione beni giuridici collettivi o individuali, su cui il giudice dovrà decidere. La somma importanza di questa materia implica che la trattazione si svolga secondo norme giuridiche e che vi partecipino gl'interessati, investiti di facoltà e doveri procedurali. Data questa concezione del processo, scaturisce limpidamente la figura dei soggetti processuali, che sono propriamente le persone, fra cui il rapporto giuridico s'istituisce e si svolge. Essi si dividono in principali e accessorî: i primi, indispensabili per il regolare costituirsi e svolgersi del rapporto, più propriamente si riferiscono all'oggetto fondamentale (penale): giudice, pubblico ministero, imputato. I secondi intervengono nel processo assumendo tale veste in quanto lo vogliano o vi siano chiamati e si riferiscono all'oggetto accessorio o secondario del processo, il risarcimento dei danni: parte civile e civilmente responsabile. Di questi soggetti, taluni rivestono la qualità di parte (v.), il che, peraltro, a cominciare dalla nozione di parte, è molto controverso. Ma se, emancipando il concetto di parte nel processo penale dal correlativo concetto di parte nel processo civile, diciamo semplicemente che parte è nel processo penale colui che deduce o contro il quale viene dedotto un rapporto di diritto sostanziale e al quale, per tale scopo, sono conferite correlative facoltà processuali, è facile ammettere che parti sono il pubblico ministero (sia pure quale organo dello stato), l'imputato, la parte civile e il responsabile civile.
I soggetti svolgono una svariata attività, che è governata dai fini del processo e a questi deve idealmente coordinarsi. Come vedemmo, scopo immediato è la decisione del giudice sul concreto rapporto giuridico di diritto penale, che ne rappresenta l'oggetto essenziale. Da qui, intanto, nel contenuto del processo si profilano tre esigenze, cui devono corrispondere altrettante attività: accusare, difendere, decidere. Vedremo come si rispecchino nelle forme. Ma occorre anche istruire, cioè ricercare le prove, raccogliere il materiale per la decisione. A questo proposito, bisogna che venga ricercata la verità materiale, effettiva, reale dei fatti. Ciò determina, anzitutto, quello che si suol dire il potere dispositivo del giudice, in virtù del quale egli è investito di facoltà autonome nell'ordine della prova, che può esercitare indipendentemente dalla richiesta o dal beneplacito delle parti. Insomma qui non vale il precetto civilistico ne eat iudex ultra petita partium. Questo si chiama anche principio inquisitorio, per distinguerlo dal principio accusatorio, secondo il quale tutti i poteri di prova sono cumulati nelle mani delle parti, mentre il giudice non ha che una funzione direttiva e di decisione.
Ma, accanto alla ricerca della verità materiale, s'impone la ricerca rivolta alla piena individuazione della personalità del giudicabile. L'imputato, infatti, è divenuto il protagonista della giustizia penale: si deve giudicare ed eventualmente sottoporre a sanzioni un uomo, donde la necessità che egli sia conosciuto non solo dal punto di vista morale e giuridico, ma anche biologico (antropologico e psicologico) ed eventualmente psicopatologico.
Norme giuridiche disciplinano le forme, secondo le quali deve svolgersi l'attività processuale. Il processo, pertanto, ha un'organizzazione esteriore, per cui si traduce in determinate forme, che lo governano nell'insieme e nei singoli atti. Riguardando i punti culminanti della materia, le forme sono: a) fondamentali o necessarie; b) accessorie o secondarie; c) particolari. Le forme fondamentali sono: l'accusatoria, l'inquisitoria, la mista. Nella prima le tre funzioni o attività, che si attuano in ogni processo, e cioè le funzioni di accusare, di difendere, di decidere sono ripartite rispettivamente fra tre organi, separati e distinti; nella seconda sono cumulate in un organo solo, il giudice; la terza, assume entrambe le precedenti, cronologicamente distinte, per lo più realizzando l'inquisitoria in una prima fase, l'accusatoria in una seconda fase. Le forme secondarie riguardano il modo di manifestarsi del contenuto processuale, sia fra le persone che partecipano al processo, sia di fronte ai terzi: esse sono, le forme contrapposte di oralità o scrittura, pubblicità o segreto. Il processo è scritto, se le varie attività processuali si esplicano essenzialmente con la scrittura; se con la parola, è orale. Culminante e concludente è qui il metodo, con cui viene raccolto il materiale utilizzabile per la sentenza; scrittura o oralità. Nel processo moderno va prevalendo l'oralità, che è il metodo fondamentale per una fase (il dibattimento), mentre nella fase precedente (istruttoria) la scrittura rappresenta il metodo normale. Importantissime sono, pertanto, le violazioni dell'oralità, che possono dar luogo ad annullamenti di atti. Infine, indipendentemente dalle grandi linee di cui sopra, forme particolari possono riguardare la produzione di singoli atti processuali (perizia, testimonianze, ecc.).
Il procedimento, nel quale il giudizio penale si estrinseca, si compone di una serie di atti, concatenati tra loro mercé il triplice criterio, cronologico, logico e dello scopo, vincolati tutti alla comune destinazione, che è la prolazione della sentenza. Le fasi fondamentali di tale procedimento si possono ridurre, in via concettuale e con riguardo alle legislazioni imperanti in Italia e altrove, a tre: istruttoria, giudizio (in senso proprio), esecuzione. Benché non manchino esempî legislativi contrarî, una prima fase deve ritenersi necessaria per raccogliere le prove, le quali, altrimenti, si disperderebbero, e in genere per preparare il materiale da elaborarsi definitivamente nel dibattimento. Più comunemente caratterizzano questa fase il difetto di contradditorio, il segreto, la scrittura. Di gran lunga più importante è la fase del giudizio, nella quale la trattazione si svolge con ampiezza e si concreta in risultati definitivi. Questa fase culmina nel dibattimento e mette capo alla sentenza, che decide sull'oggetto del processo. Questa fase si può dividere in due parti distinte: il giudizio di prima cognizione e il giudizio sulle impugnazioni. In entrambe spicca e grandeggia il dibattimento, con i requisiti essenziali del contradditorio, della pubblicità, dell'oralità. Terza e ultima viene la fase dell'esecuzione, giacché la sentenza di condanna o di adozione di una misura di sicurezza o di proscioglimento deve essere eseguita. Modernamente questa fase ha acquistato e va aequistando sempre maggiore importanza; è, infatti, nell'esecuzione che gli scopi individuali della pena possono realizzarsi. D'altronde, l'ingresso delle misure di sicurezza, le quali abbisognano di costante controllo e vigilanza nel loro svolgersi, hanno accresciuto le funzioni della fase esecutiva. L'esigenza, che a essa sia preposto un giudice, è universalmente riconosciuta; del pari ne è riconosciuto il carattere, se non per intero, certo in gran parte, giurisdizionale.
Dai cenni che precedono, si profilano la cospicua importanza e la complessità del giudizio penale; esso si orienta politicamente, riveste duplice carattere giuridico (sostanziale e formale), ha un contenuto etico, sociale e tecnico insieme. Nel processo penale si trasfonde, infatti, la vita sociale nella sua vibrante molteplicità; d'altronde, dovendosi giudicare di un uomo e del suo delitto, è impossibile al giudice, nell'ampia e libera valutazione commessagli, di prescindere da criterî ed elementi etici; mentre, poi, la tecnicità s'impone sotto varî aspetti per conoscere, sia la personalità del giudicabile, sia determinate prove. Di qui l'esigenza, sempre più evidente, di giudici penali bene specializzati per l'alto e duro compito loro affidato.
La sistematica del processo penale, che abbiamo tracciata in brevi linee, si attaglia perfettamente e corrisponde al contenuto del codice di procedura penale italiano del 1930, nel quale il processo penale è ordinato, press'a poco, come lo era nel codice del 1913.
La vasta materia vi è distribuita razionalmente in quattro libri e s'inquadra nello schema tradizionale; disposizioni generali, istruzione, giudizio, esecuzione, quest'ultima con maggiore sviluppo in relazione all'aumentata importanza conferita all'esecuzione nel codice penale. È adottata ancora la cosiddetta forma mista e così la grande struttura fondamentale non è mutata da quella ch'era nel codice abrogato. Però il processo è più decisamente plasmato come processo di parti, e così la veste di parte è chiaramente attribuita al pubblico ministero, che può a buon diritto definirsi parte pubblica, in contrapposto alle altre parti, dette private. Queste parti sono l'imputato, la parte civile, il civilmente responsabile e, figura nuova, il civilmente responsabile per l'ammenda (cod. pen., art. 196, 197).
Ma l'impronta più nuova e più viva del nuovo codice processuale italiano è quella riguardante le misure di sicurezza, nuovi istituti di prevenzione individuale e in parte anche sociale, con ardita mossa introdotte nel sistema italiano di diritto penale e largamente disciplinate nel codice di procedura penale. Poiché anche l'applicazione e l'attuazione delle misure di sicurezza furono sottoposte al presidio giurisdizionale, necessariamente il processo si estende alle medesime. Il processo per le misure di sicurezza ha due aspetti: o s'innesta nel processo dei reati e delle pene, assumendone le forme, o è un processo a sé, in parte autonomo, e si svolge con forme proprie mediante un giudice apposito (giudice di sorveglianza). Questa nuova struttura processuale, che il legislatore ha dovuto creare per corrispondere al contenuto nuovo del codice penale e ai fini sociali prefissi allo stesso, attesta un nobile sforzo e mostra un contegno bene studiato, per cui mentre si provvede agl'interessi dello stato e della collettività, viene data adeguata tutela anche ai diritti dell'individuo. Le norme relative all'esecuzione sono efficacemente integrate col reg. per gl'istituti di prevenzione e di pena 18 giugno 1931.
Bibl.: Per il diritto italiano v.: N. Nicolini, Procedura penale, Livorno 1843; F. Carrara, Programma del corso di diritto criminale, parte generale, Lucca 1867-70 (e successive edizioni); M. Pescatore, Esposizione compendiosa della procedura civile e criminale, I, ii, II, Torino 1864-65; G. Borsani e L. Casorati, Cod. di proc. pen. it. commentato, voll. 7, Milano 1873 segg.; F. Saluto, Commenti al cod. di proc. pen. per il Regno d'Italia, voll. 8, Torino 1882-84; L. Mortara, A. Stoppato, S. Longhi e altri, Commento al cod. di proc. pen., voll. 7, Torino 1918; L. Lucchini, Elementi di proc. pen., 4ª ed., Firenze 1920; V. Manzini, Trattato di dir. proc. pen. it., Torino 1925; E. Florian, Principî di dir. proc. pen., Torino 1927; E. Massari, Lineamenti del processo penale, Napoli 1929.
In particolare sul nuovo codice del 1930 v.: G. Marconi e A. Marongin, Commento, Milano 1931; V. Manzini, Trattato di diritto processuale penale italiano secondo il nuovo codice, voll. 4, Torino 1931-32; U. Aloisi, Manuale pratico di proc. pen., Milano 1932; E. Massari, Il processo penale nella nuova legislazione italiana, I, Napoli 1932; E. Florian, Principi di diritto processuale penale, 2ª ed., Torino 1932; G. Sabatini, Istituzioni di diritto processuale penale, Napoli 1933; E. Romano Di Falco, Corso di procedura penale, Roma 1934; A. Cordone, Commento al cod. di proc. pen., Napoli 1934.
Per il diritto germanico cfr.: G. Glaser, Handbuch des Strafprozesses, Lipsia 1883-85; K. Birkmeyer, Deutsches Strafprozessrecht, Berlino 1898; H. Bennecke, Lehrbuch des deutschen Reichsstrafprozessrechts, Breslavia 1900; K. Binding, Grundriss des deutschen Strafprozessrechts, Lipsia 1904; H. Rosenfeld, Der Reichsstrafprozess, Berlino 1912: id., Deutsches Strafprozessrecht, Berlino e Lipsia 1926. Pregevole commento dell'ord. proc. germanico, con le innovazioni della citata legge (Novella) 24 dicembre 1933, è quello di Loewe, Helweg e Rosenberg, Berlino e Lipsia 1934. Per il diritto austriaco: E. Ullmann, Lehrbuch des österreichischen Strafprozessrechts, Innsbruck, 1882; W. Gleispach, Das öst. Strafverfahren, 2ª ed., Vienna 1924; E. Löhsing, Östereichisches Strafprozessrecht, 3ª ed., Vienna 1932. Per il diritto inglese: F. Seymour-Harris, Principî di proc. pen. inglese, trad. Bertola, Verona 1878; C. S. Kenny, Outlines of criminal law, 12ª ed., Cambridge 1926. Per il diritto francese: F. Helié, Traité de l'instruction criminelle, voll. 3, Bruxelles 1863-69; id., Pratique criminelle des Cours et Tribunaux, 4ª ed., a cura di J. Depeiges; R. Garraud, Traité théorique et pratique d'instruction criminelle et de procédure pénale, Parigi 1907.
Processo penale militare. - Il processo penale militare per le truppe di terra e quello per le truppe di mare sono ancora disciplinati dalle disposizioni processuali del codice penale per l'esercito e del codice penale militare marittimo, entrambi del 1869. Questi codici si coordinano per la parte processuale col codice di procedura penale del 1865. Oggi il coordinamento va fatto col codice di procedura penale del 1930, quando si tratta d'integrare le disposizioni del codice penale militare e di quello militare marittimo, non invece per accogliere istituti nuovi o diversi. Ne segue che "fuori dei casi di richiamo espresso sanzionato da nullità, le norme della procedura penale comune non costituiscono regola indeclinabile per i tribunali militari, così da doversi osservare a pena di nullità" (V. Manzini).
Oggetto del processo penale militare è una pretesa punitiva che sorge dalla perpetrazione di un reato militare o di un reato comune che si trova con il primo in un determinato rapporto di connessione. Secondo il codice di procedura penale del 1930, nel caso in cui un procedimento di competenza dell'autorità giudiziaria ordinaria si trovi connesso con un procedimento di competenza dei tribunali militari, la competenza per tutti appartiene al giudice militare, perché nessun giudice è più adatto a giudicare di un reato militare che il giudice militare, mentre a questo non si può negare la capacità di giudicare anche del reato comune connesso, per il quale giudizio non si richiedono speciali cognizioni e particolari attitudini (rel. min. sul progetto di un nuovo cod. di proc. pen.). I casi di connessione di procedimenti possono derivare da una connessione soggettiva di reati (militare imputato di più reati, alcuni dei quali militari e altri comuni), o da una connessione oggettiva di reati (es., reati tra loro collegati da vincoli speciali e imputabili a più persone, alcune delle quali normalmente soggette alla giurisdizione ordinaria e altre a quella militare). Non può farsi valere nel processo penale militare l'azione civile per il risarcimento del danno mediante la costituzione di parte civile.
In base al principio dell'officialità, l'azione penale è iniziata ed esercitata dal pubblico ministero (avvocato fiscale); a questo spetta inoltre il compito di vegliare e di esigere l'osservanza delle leggi processuali e quello di far eseguire le ordinanze d'istruzione e le sentenze del tribunale militare. Ogni procedimento penale militare si apre con istruzione formale, compiuta la quale, l'ufficiale istruttore deve presentare relazione della causa alla commissione d'inchiesta. La commissione d'inchiesta, se ritiene che il fatto non costituisca reato o che manchino sufficienti indizî di reità a carico dell'imputato, o che l'azione penale sia prescritta o altrimenti estinta, pronuncia sentenza di non doversi procedere, in base alla quale l'imputato non può essere molestato per lo stesso fatto se non sopravvengono nuove prove.
Contro questa sentenza il pubblico ministero può ricorrere al tribunale supremo di guerra e marina. Se invece la commissione d'inchiesta riconosce che il fatto costituisce reato e che vi sono sufficienti indizî di colpevolezza, pronuncia contro l'imputato sentenza di rinvio a giudizio (sentenza che pronuncia l'accusa), cioè al tribunale militare cui essa commissione appartiene.
Dopo alcune formalità preliminari si apre davanti al tribunale il dibattimento, il quale, salve alcune eccezioni, deve essere pubblico a pena di nullità. Il dibattimento deve vertere sul fatto contestato all'imputato con la sentenza di accusa: se nel corso del dibattimento risulta un fatto diverso da quello contestato, il pubblico ministero deve procedere a norma di legge; se sorgono a carico dell'imputato nuove circostanze aggravanti, la causa può essere rinviata ad altra udienza; se il reato riveste una diversa e più grave qualificazione di quella avuta nella sentenza di accusa, la causa deve essere rinviata per accordare all'imputato il tempo di prepararsi la difesa. Finito il dibattimento, il tribunale delibera in camera di consiglio la sentenza. Se il tribunale trova fondata l'accusa, pronuncia sentenza di condanna e applica la pena entro i limiti fissati dalla legge, altrimenti pronuncia sentenza di proscioglimento. Questa può essere di non doversi procedere, se l'esistenza del fatto è esclusa, se il fatto non costituisce reato, se l'azione penale è prescritta o estinta; di assoluzione, se l'imputato non ha commesso il fatto o non vi ha concorso, o se la sua reità non è provata. La sentenza è pronunciata subito in pubblica udienza e deve venir eseguita entro le ventiquattro ore, sempreché non vi sia stata dichiarazione di ricorrere per nullità al tribunale supremo. La sentenza di questo tribunale, che decide sul ricorso presentato dal condannato o dal pubblico ministero, può rigettare il ricorso stesso o trovarlo fondato, annullando in questo caso, con o senza rinvio, la sentenza impugnata.
Da una sentenza del tribunale militare passata in giudicato si può ricorrere nell'interesse della legge al tribunale supremo; da una sentenza di condanna del tribunale supremo è sempre ammissibile il ricorso straordinario per cassazione, di cui all'art. 528 cod. proc. pen. I codici penali militari ammettono pure la revisione delle sentenze pronunciate dai tribunali militari in tempo di pace.
Processo amministrativo. - Il processo amministrativo si distingue dagli altri processi per la caratteristica che gli organi decidenti le questioni appartengono all'amministrazione pubblica. Le questioni risolte nel processo amministrativo sono questioni che sorgono da un atto amministrativo, che si pretende contrario al diritto; ma, se questo estremo è anch'esso inseparabile dal concetto di processo amministrativo, non lo caratterizza né lo distingue; perché anche il processo civile e il penale possono svolgersi relativamente a questioni che sorgono da un atto amministrativo contrario al diritto.
Non bisogna confondere poi il processo amministrativo con il procedimento amministrativo. Il procedimento amministrativo normalmente non ha nulla di contenzioso e di processuale: a produrre dati effetti giuridici spesso non basta un fatto amministrativo isolato, ma è necessaria una concatenazione di fatti, che logicamente costituiscono un'unità, e quindi dànno l'impressione che si tratti di un fatto giuridico unico, aggirandosi tutti e imperniandosi sopra un fatto principale (in genere, il terminale), attorno al quale essi si raccolgono. Invece il processo amministrativo si ha tutte le volte che (contrariamente al principio rigido della tripartizione dei poteri) organi amministrativi esercitano attività sostanzialmente e formalmente giurisdizionale su atti amministrativi.
Non riteniamo accettabile nel sistema giuridico italiano il concetto di processo amministrativo diffuso nella letteratura giuridica germanica, per cui sarebbe tale quello posto in essere da organi amministrativi con forme analoghe a quelle del processo civile o penale, senza guardare alla sua sostanza giurisdizionale, sostanza che è invece essenziale nel diritto italiano.
Il concetto di processo amministrativo si collega intimamente alla sussistenza di speciali giurisdizioni amministrative su atti amministrativi, sussistenza che avrebbe dovuto essere eccezionale, e magari temporanea, secondo i principî posti dalla legge 20 marzo 1865 all. E, abolitiva del contenzioso amministrativo, ma che invece si è posteriormente tanto estesa da dar luogo a una vera giurisdizione amministrativa generale con le leggi 31 marzo 1889, n. 5932 (testo unico 2 giugno 1889, n. 6166) e 1° maggio 1890, n. 6837; specialmente con le loro ulteriori modificazioni. Più propriamente si dovrebbe parlare di tanti processi amministrativi, quante sono le giurisdizioni amministrative speciali: si può dire però che, data l'importanza assunta dalla giurisdizione amministrativa generale, di cui sopra abbiamo fatto cenno, come processo amministrativo senz'altro, per antonomasia, possa intendersi quella complessa serie di atti (rapporto processuale) attraverso cui si svolge la realizzazione del diritto davanti le sezioni giurisdizionali del Consiglio di stato e la Giunta provinciale amministrativa in sede giurisdizionale. Altro processo amministrativo rilevante è quello che si svolge davanti alla Corte dei conti nell'esercizio delle sue funzioni giurisdizionali. I processi davanti ai consigli di prefettura, quelli in materia di leva, di controversie doganali, d'imposte dirette, di requisizioni militari, ecc., sono più semplici e hanno processualmente un'importanza relativa.
Fonti principali del processo amministrativo, oltre alle leggi istitutive delle giurisdizioni amministrative, sono il regolamento di procedura dinnanzi alle sezioni giurisdizionali del Consiglio di stato 17 agosto 1907, n. 642, e il regolamento di procedura davanti alla Giunta provinciale amministrativa in sede giurisdizionale 17 agosto 1907, n. 644 (v. anche, per il processo davanti alla Corte dei conti, il regolamento di procedura avanti la Corte dei conti 13 agosto 1933, n. 1038). Questi regolamenti sono regolamenti delegati, validi quindi in tutte le loro disposizioni, ove non urtino contro la legge cui si riferiscono o contro principî generali di diritto. Si discute se, oltre queste disposizioni speciali, e in mancanza di esse, si possa ricorrere a norme desunte dal processo penale, e, specialmente, dal processo civile (si riferisce espressamente in via complementare al codice di procedura civile l'art. 26 del reg. di procedura della Corte dei conti): sembra che in tutte le materie in cui le norme particolari applicano principî desunti dagli altri processi, e in ciò che riguarda i principî generali del diritto processuale, si possa utilmente e legittimamente fare ricorso alle norme del processo civile e talora (nei congrui casi: ad es., nei rapporti disciplinari) a quelle del processo penale.
Giudici nel processo amministrativo sono la 4a e 5ª sezione del Consiglio di stato, e la Giunta provinciale amministrativa in sede giurisdizionale (composta del prefetto o di chi ne fa le veci, che la presiede, di due consiglieri di prefettura designati al principio d'ogni anno dal prefetto, di due membri più anziani tra quelli designati dal segretario del Partito nazionale fascista: art. 405 testo unico legge com. e prov.), la 2ª e 3ª sezione della Corte dei conti, i consigli di prefettura (costituiti dal prefetto che li presiede, due consiglieri di prefettura, il ragioniere capo di prefettura, il direttore di ragioneria o il ragioniere capo dell'Intendenza di finanza, più, con voto consultivo, il funzionario di ragioneria della prefettura che ha compilato la relazione sul conto: art. 23 testo unico legge com. e prov.), i consigli di leva, ecc.
Secondo la terminologia della legislazione italiana, è indubbio che il processo amministrativo (benché non concreti affatto in sé una giurisdizione oggettiva) tutela tanto diritti quanto interessi. Diritti soggetti vi sono sempre stati tutelati dalle giurisdizioni amministrative: per gli interessi fu proprio creata invece la giurisdizione generale del Consiglio di stato e della Giunta provinciale amministrativa. Una questione che si ripercuote sui principî generali è se la terminologia delle leggi sia scientificamente esatta e se, diversamente da quanto avviene nel processo civile e nel penale, il processo amministrativo tuteli effettivamente semplici interessi, o se invece precisamente tale tutela non trasformi questi interessi in diritti; ma la questione è superata, ove il concetto di attività giurisdizionale si estenda oltre la tutela dei diritti soggettivi e lo si riannodi alla risoluzione di questioni giuridiche in caso d'inosservanza del diritto, attraverso la dichiarazione del diritto nel caso singolo. Naturalmente, come già si disse, questi diritti e interessi si collegano a un atto amministrativo che si pretende li abbia lesi.
Sono ritenuti parti nel processo amministrativo tanto i singoli che impugnano l'atto amministrativo, quanto l'amministrazione che ha emesso l'atto impugnato. Normalmente, a meno che non si tratti d'impugnativa di decisioni in primo grado di giudizio, l'iniziativa processuale spetta al privato in confronto dell'amministrazione, data la presunzione di legittimità e la consecutiva esecutorietà, che sono proprie degli atti amministrativi. Esistono disposizioni processuali di favore per l'amministrazione, ma esse non conferiscono alla pubblica amministrazione nel processo la veste di autorità. S'intende che le parti devono avere la capacità processuale: le amministrazioni e le persone giuridiche, che assumono la veste di parte, devono essere rappresentate da chi ha la potestà e facoltà di rappresentarle in base ai principî generali. Talvolta è imposta un'assistenza speciale (ad es.: per persone diverse dall'amministrazione dello stato è stabilita per i giudizî davanti al Consiglio di stato l'assistenza di un avvocato iscritto nell'albo della cassazione). Altri presupposti processuali esistono, ma sono particolari ai varî casi e tipi di processi (ad es.: il provvedimento definitivo, per instaurare il giudizio davanti al Consiglio di stato; il non avere esperimentato ricorso gerarchico per poter sostenere il ricorso davanti alle giunte provinciali amministrative, ecc.).
Condizione generale di tutti questi processi è l'interesse processuale a istituirli, a chiedere l'intervento del giudice; cioè, in genere, l'esistenza di un atto amministrativo lesivo e impugnabile. Gravi questioni sorsero a proposito degli atti di governo e degli atti interni d'amministrazione non impugnabili, e a proposito del silenzio dell'amministrazione (per cui v. ora l'art. 5 del testo unico legge com. e prov.). È poi necessaria la cosiddetta legittimazione ad agire (legitimatio ad causam), cioè la coincidenza delle parti nel processo con le persone cui la legge concede la facoltà di agire o di resistere, vale a dire di partecipare al processo, affinché il giudice possa pronunciarsi; infine, occorre l'interesse generico di cui parla l'art. 36, alinea 1, del cod. di proc. civ.; quindi, come già si accennò, l'avere subito la lesione di un diritto soggettivo o di un interesse (nel senso di cui nella legislazione italiana) e l'avere ancora un interesse alla sua reintegrazione. Nei casi in cui si può agire soltanto per lesione d'interesse, quando l'atto amministrativo, contro cui si ricorre, abbia leso contemporaneamente un diritto soggettivo, è inammissibile la tutela del semplice interesse mediante il processo amministrativo, perché manca la competenza della giurisdizione amministrativa. Per quanto si riferisce allo svolgimento del rapporto processuale davanti al Consiglio di stato e la Giunta provinciale amministrativa, osserveremo che il processo si istituisce con un atto, chiamato ricorso, di chi, ritenendo leso un suo diritto o interesse da un atto amministrativo, chiede al giudice l'esplicazione della sua attività (davanti alla Corte dei conti, dove spesso si rende attiva l'amministrazione, il processo s'inizia anche con atto di citazione). Il ricorso deve contenere elementi sostanziali intuitivi (indicazione del ricorrente, dell'atto impugnato, esposizione dei motivi di fatto e di diritto, sottoscrizione del ricorrente e di chi deve assisterlo) e dev'essere notificato all'autorità che ha emesso il provvedimento impugnato e agli altri interessati, a mezzo di ufficiale giudiziario o di messo comunale, entro un termine dalla notifica del provvedimento impugnato o dalla piena cognizione di esso, termine stabilito a pena di decadenza. Il ricorso viene depositato presso la segreteria del magistrato adito entro i termini di decadenza: e fissa le questioni su cui deve svolgersi il giudizio, senz'avere effetto sospensivo sul provvedimento amministrativo impugnato. L'interessato deve richiedere, entro dati termini e con diverse modalità, la discussione del ricorso. È ammesso l'intervento in giudizio di altri interessati. Degne di attenzione sono le questioni che possono sorgere relativamente all'introduzione di fatti e al raccoglimento di prove nel processo. Senza discendere a particolari, notiamo che in alcuni casi al giudice stesso compete d'ufficio la facoltà d'introdurre ricerche di fatto nel giudizio; che alcuni mezzi di prova del processo civile o non sono ammessi o sono ammessi con limitazioni tali, per cui i risultati del processo amministrativo riescono più intonati alla ricerca della verità effettiva che non a quella della verità formale, cui spesso è propenso il sistema del processo civile.
Il rapporto processuale cessa o con la perenzione o con la rinuncia del ricorrente o con la decisione del magistrato, emessa dopo la discussione orale, decisione pronunciata in nome del re. La decisione finale (superate tutte le possibili impugnative) ha la forza e produce gli effetti di cosa giudicata tra le parti, con le stesse norme e alle stesse condizioni della cosa giudicata civile. Come decisione di giurisdizione speciale può essere denunciata alle sezioni unite della Corte di cassazione per incompetenza o eccesso di potere (art. 3, legge 31 marzo 1877, n. 3761). Essa è suscettibile anche di revocazione. L'esecuzione della decisione, eccetto che per le spese, non può aversi (specialmente da parte del singolo vittorioso contro l'amministrazione) che in via amministrativa, con atti nuovamente passibili d'impugnazione davanti alle giurisdizioni amministrative; oppure indirettamente, con nuova azione per danni da svolgersi davanti all'autorità giudiziaria ordinaria; si possono ritenere, invece, veri titoli esecutivi le decisioni dei consigli di prefettura e della Corte dei conti.
V. anche le voci: corte: La Corte dei conti; giurisdizione: Giurisdizioni speciali amministrative; giustizia: Giustizia amministrativa.
Bibl.: Oltre quella alle voci giurisdizione e giustizia, v. F. D'Alessio, Le parti nel giudizio ammin., Milano 1915; G. Salemi, Il concetto di parte e la pubblica amministrazione nel processo civile, penale e ammin., Roma 1916; M. La Torre, Il sistema delle prove davanti il Cons. di stato in sede giurisd., in Studi in occas. del centenario del Cons. di stato, III, Roma 1932, p. 493 segg.
Processo disciplinare: v. disciplina: Disciplina giuridica.
Processo del lavoro. - Al profondo rinnovamento legislativo determinato dalla dottrina politica corporativa fascista non si è sottratto il campo del processo, nel quale si sono venute introducendo anche nuove figure di grande interesse pratico e scientifico. Se, infatti, il decr. legislativo 26 febbraio 1928, n. 471 (oggi sostituito dal r. decr. 2i maggio 1934, n. 1073, emanato in virtù della legge di delegazione 22 gennaio 1934, n. 76) ha profondamente modificato nella sua struttura il processo individuale del lavoro, unificando le forme e le competenze per la decisione giudiziaria delle cosiddette controversie individuali (prima suddivise fra diversi organi giurisdizionali: probiviri, commissioni provinciali arbitrali per l'impiego privato, altri organi di minore importanza e giudici ordinarî), già la legge 3 aprile 1926, n. 563, e il r. decr. 1° luglio 1926, n. 1130, avevano istituito e disciplinato una figura di processo intersindacale, destinato alla decisione di controversie collettive, o comunque intersindacali.
Di conseguenza, il diritto italiano vigente conosce ora diversi tipi di processo del lavoro:
a) Il processo individuale, diretto alla risoluzione delle controversie individuali (conflitti d'interessi di singoli e determinati lavoratori e imprenditori), mediante una sentenza individuale, contenente comandi concreti. La competenza a decidere tali controversie spetta in primo grado ai pretori e ai tribunali del lavoro (sezioni del lavoro delle preture e dei tribunali ordinarî), in sede di appello e di annullamento e revocazione sindacale alla magistratura del lavoro. Le forme processuali, disciplinate ora dal citato r. decr. 1934, tendono a provocare un giudizio sollecito ed economico, sottratto quanto più possibile alla disposizione delle parti, mediante la prevalenza assegnata al principio inquisitorio e all'impulso ufficiale.
b) Il processo intersindacale, collettivo e non collettivo, a seconda che abbia per fine la decisione di controversie collettive (conflitti d'interessi di categorie economiche) o di controversie intersindacali non collettive (conflitto d'interessi di due sindacati, riflettenti la responsabilità del sindacato per l'inosservanza di comandi collettivi). In entrambi i casi il processo deve svolgersi dinnanzi alla magistratura del lavoro (v. lavoro: Magistratura del lavoro), competente in unico grado di merito. Vi agiscono come parti (in senso formale) di regola i sindacati legalmente riconosciuti; ma nel processo collettivo è legittimato attivamente anche il pubblico ministero (comunque tenuto a intervenire per conclusioni) e può essere legittimato passivamente un curatore speciale della categoria (qualora questa non si trovi rappresentata da un sindacato riconosciuto), di nomina giudiziale. Mentre la sentenza che decide una controversia intersindacale non collettiva (sia di accertamento sia di condanna) non differisce sostanzialmente e negli effetti da una qualsiasi sentenza civile, la sentenza collettiva (che può essere di formazione, di accertamento e d'interpretazione, ovvero di revisione di comandi collettivi) ha effetto nei riguardi di tutti i membri, anche futuri, delle categorie interessate (tutti parti in senso sostanziale nel processo), configurando una nuova singolare fonte di produzione giuridica collettiva (giudiziale). Le regole sull'efficacia, positiva e negativa, che hanno simili sentenze, quando non siano più impugnabili, differiscono pertanto notevolmente da quelle comuni, dando luogo a una serie di problemi, specie nell'ipotesi di conflitto fra più sentenze collettive.
Le forme del processo intersindacale, disciplinate prevalentemente dalla legge 3 aprile 1926 e dal r. decr. 1° luglio 1926, ne fanno pure un processo a tipo inquisitorio: in senso così rigido che probabilmente, nel processo collettivo almeno, non solo non sussiste l'onere della prova, ma neppure quello dell'affermazione.
Anche a prescindere peraltro dalle più visibili affinità che corrono fra la struttura del processo intersindacale e quella del processo individuale del lavoro (più minutamente regolata), si debbono soprattutto mettere in rilievo alcune notevoli interferenze fra i diversi processi del lavoro e molteplici istituti che tendono ad attuare anche in essi il principio corporativo (della subordinazione della valutazione individuale alla valutazione collettiva degl'interessi economici). Meritano particolare riguardo sotto questo aspetto: la parziale identità del giudice competente (magistratura del lavoro); la molteplicità dei soggetti legittimati a intervenire consultivamente (associazioni sindacali, nel processo individuale; associazioni di grado superiore e inferiore a quelle che sono parti, nel processo collettivo); la sospensione del processo individuale per pendenza di lite collettiva pregiudiziale; i mezzi d'impugnativa speciali (annullamento e revocazione sindacale) proponibili anche dal pubblico ministero contro sentenze individuali non conformi ai comandi collettivi.
In tutti i tipi di processi del lavoro è infine statuito l'onere del tentativo di conciliazione in sede sindacale o corporativa (art. 13 legge 5 febbraio 1934, n. 163), che il r. decr. 21 maggio 1934 sul processo individuale ha particolarmente esteso e rafforzato, sia al fine di diminuire il numero delle liti sottoposte al giudice, sia al fine di meglio garantire, attraverso la partecipazione degli organi sindacali alla composizione stragiudiziale, la più esatta osservanza dei comandi collettivi imperativi: l'efficacia di titolo esecutivo riconosciuta entro certi limiti ai verbali di conciliazione sindacale è destinata, infatti, a ridurre al minimo i casi di conciliazione diretta fra le parti.
Da tutti questi istituti il processo del lavoro italiano desume una impronta caratteristica tutta sua, in stretto rapporto con la sua funzione, e atta a diversificarlo in misura sensibile e in modo durevole dal processo ordinario. Ciò spiega l'interesse che esso ha destato nei cultori del processo e della teoria generale del diritto, ai quali offre larga materia di osservazione.
Bibl.: F. Pergolesi, Diritto processuale del lavoro, I, Roma 1929; N. Jaeger, Le controversie individuali del lavoro, Padova 1929 (4ª ed., 1935); id., Autonomia del diritto processuale del lavoro, Roma 1932; id., Corso di diritto proc. del lavoro, Padova 1933 (2ª ed., 1935); id., Il nuovo regolamento proc. del lavoro, ivi 1934; id., La conciliazione sindacale, Roma 1935; G. Fantinelli e V. Anichini, I procedimenti per le controversie collettive e individuali del lavoro, Bologna 1931.
Diritto canonico.
Cenni storici. - Il processo canonico raggiunse il suo pieno sviluppo attraverso il Medioevo su basi prettamente romane con lievi infiltrazioni germaniche. La Chiesa però fuse gli opposti elementi e v'introdusse parecchi nuovi istituti. Ne risultò un processo nuovo, che fu imitato anche da molte leggi civili (processo romano-canonico o italiano). Se non che questo processo apparve ben presto lungo e dispendioso; sicché i pontefici credettero opportuno di limitarne le solennità. Alle parziali dispense d'Innocenzo III e di Alessandro III, seguì la radicale riforma di Clemente V, il quale, specialmente nelle cause beneficiali e matrimoniali ordinò che si procedesse simpliciter et de plano ac sine strepitu iudicii et figura e nella celebre costituzione Saepe del 1306 delineò la natura del nuovo processo, che in opposizione al processo ordinario fu chiamato sommario. Questi due processi con poche successive mutazioni rimasero in vigore fino al Codice, ma l'uso del processo ordinario divenne di giorno in giorno più raro tanto che nella curia romana era negli ultimi tempi del tutto scomparso. Il nuovo codice ha abolito la distinzione tra processo ordinario e sommario, sostituendo un solo processo, che riflette assai da vicino la natura dell'antico processo sommario.
Diritto vìgente. - Il codice di diritto canonico non stabilisce due processi distinti per le cause civili e penali, ma un processo unico sostanzialmente civile con opportune modificazioni per le cause penali, matrimoniali e di ordinazione sacra. È ammesso tuttavia per le cause matrimoniali un processo documentale e per l'applicazione delle pene minori un procedimento amministrativo per modum praecepti. Il codice favorisce anche molto la transazione e l'arbitrato, per i quali istituti però generalmente adotta le norme civili vigenti nei varî paesi. Il processo canonico unitario è un processo misto di scrittura e oralità, segreto riguardo ai terzi e temporaneamente, entro certi limiti, anche riguardo alle parti. Vi predomina il principio inquisitorio o dispositivo, secondo che si tratta di cause interessanti il bene pubblico o solo la privata utilità. Particolare caratteristica del processo canonico è una grande elasticità, perché possa essere applicato in tutti i paesi del mondo tra sistemi giuridici varî e civiltà profondamente diverse. Di conseguenza sono concessi ai giudici larghi poteri riguardo alle forme e più ancora per l'assegnazione dei termini.
L'azione è generalmente accordata a difesa di ogni diritto e chiunque dimostri un interesse ha facoltà di proporla. Vi sono tuttavia diritti che possono esser fatti valere soltanto da determinate persone o persone alle quali per pena è vietato di farli valere. Nelle cause matrimoniali i soli coniugi possono domandare la separazione personale o la dichiarazione di nullità, a meno che non siano stati essi causa dell'impedimento. Così pure essi soli possono chiedere la dispensa dal matrimonio rato e non consumato. Il codice concede al promotore di giustizia di accusare il matrimonio solo nel caso d'impedimento pubblico per natura, ma le successive dichiarazioni della commissione pontificia per l'interpretazione del codice e la giurisprudenza gli riconoscono questo diritto anche nel caso d'impedimento pubblico di fatto.
Le azioni civili riguardanti lo stato personale sono imprescrittibili; tutte le altre si prescrivono in trent'anni o in termini più brevi. Con l'azione generalmente cade il diritto. Le azioni penali, salve poche eccezioni, sono pure soggette alla prescrizione, normalmente in tre anni, o anche in uno, in cinque, in dieci.
Particolari norme processuali regolano l'esercizio delle azioni assicurative, dichiarative, rescissorie e possessorie.
Le eccezioni sostanziali sono perpetue.
La giurisdizione nella Chiesa è parte essenziale e inscindibile del potere sovrano, non esistendo nell'organizzazione ecclesiastica una vera e propria divisione di poteri. Ciò peraltro non impedisce, e il nuovo codice ha nettamente accentuato questo punto, che vi siano organi stabili ai quali dal pontefice e dai vescovi sia normalmente affidato l'esercizio della giurisdizione. I limiti della giurisdizione ecclesiastica sono desunti dalla natura delle cause e dalle persone litiganti. La Chiesa rivendica a sé il diritto eselusivo di giudicare le cause spirituali e quelle che hanno con queste un'essenziale connessione, come pure le violazioni delle leggi ecclesiastiche e ogni questione in quanto implichi peccato. Inoltre la Chiesa giudica tutti coloro che godono il privilegio del foro per qualunque causa siano convenuti, salve le deroghe stabilite nei concordati. Per le cause miste di elementi temporali e spirituali (causae mixti fori) la Chiesa stabilisce tra la giurisdizione civile ed ecclesiastica la prevenzione. La giurisdizione ecclesiastiea si divide in civile e penale, contenziosa e volontaria, sebbene con quest'ultimo appellativo si indichino spesso anche le attribuzioni dei poteri amministrativi. Come conseguenza della mancanza della divisione dei poteri, non vi è nella Chiesa una vera e propria giurisdizione amministrativa.
La competenza è regolata per materia, dignità delle persone, funzione e territorio. Attesa la natura spirituale della maggior parte delle cause ecclesiastiche, non esiste una competenza per valore. I criterî desunti dall'oggetto della lite o dalla dignità delle persone servono solo per riservare al giudizio del pontefice o dei tribunali della Santa Sede le cause civili e penali riguardanti le famiglie regnanti, i cardinali, i vescovi e le persone morali direttamente soggette alla Santa Sede. La competenza territoriale si fonda sui quattro classici criterî del domicilio o quasi-domicilio, della situazione della cosa, del luogo del contratto o del delitto. Tutti i cristiani che si trovino in Roma possono, col loro consenso, essere quivi convenuti, e, se vi dimorino da un anno, è in loro facoltà di esigere questo foro. Le cause matrimoniali generalmente devono essere trattate nel domicilio o quasi-domicilio della parte convenuta o nel luogo di celebrazione. Il foro del domicilio o quasi-domicilio è generale: gli altri sono con questo concorrenti. Hanno però foro necessario le cause riguardanti lo spoglio, i benefici, le amministrazioni e le eredità. La connessione delle cause deve essere osservata. A differenza dell'antico diritto non è più ammessa la proroga della competenza per volontà delle parti. I limiti determinati dalla materia, dalla dignità delle persone e dalla funzione sono assoluti; tutti gli altri relativi. Tra più giudici competenti vige la prevenzione. L'incompetenza assoluta dev'essere rilevata d'ufficio in ogni grado; la relativa solo all'inizio della lite. Proposta l'eccezione d'incompetenza, se il giudice l'ammette, la decisione è inappellabile; se la respinge, è possibile l'appello fino a sentenza passata in giudicato. I conflitti positivi di competenza sono risolti dal comune tribunale superiore o, in mancanza di un tribunale superiore comune, dal tribunale superiore di quel giudice che ha preoccupato la controversia; se manchi anche questo, il conflitto è deciso dal legato della Santa Sede o dalla Segnatura apostolica.
I tribunali ordinarî eclesiastici sono diocesani, metropolitani e pontifici (v. tribunale). Il pubblico ministero è costituito da due uffici distinti, il promotore di giustizia e il difensore del vincolo: quello per la tutela generale della legge, questo per la difesa del vincolo matrimoniale o della sacra ordinazione. La differenza essenziale tra i due uffici è che il promotore di giustizia è libero nelle sue conclusioni, mentre il difensore del vincolo è diretto solo a tutelare la validità del matrimonio e dell'ordinazione sacra. La presenza del promotore di giustizia nelle cause penali e del difensore del vincolo in quelle matrimoniali e di sacra ordinazione è di necessità assoluta; mentre la partecipazione del promotore di giustizia nelle cause civili che interessino il bene pubblico è rimessa alla discrezione dell'ordinario. Il notaio è sempre necessario; non così il cursore.
I tribunali della Santa Sede sono la Sacra Rota e la Segnatura apostolica (v. tribunale; rota; segnatura).
Parti nel processo canonico possono essere le persone fisiche o giuridiche. Le associazioni di fatto possono pure avere in certi casi la capacità processuale. Sono ammessi ad agire tutti i cristiani, i quali non siano stati privati per una colpa di questo diritto (es. scomunicati). Le persone assolutamente o relativamente incapaci devono essere rappresentate o assistite dai genitori, tutori o curatori. Nelle cause spirituali tuttavia i minori, che abbiano compiuto almeno quattordici anni, possono stare in giudizio personalmente. Le persone giuridiche collegiali sono rappresentate dai rispettivi superiori, i quali però hanno bisogno del consenso del consiglio di amministrazione. Le chiese cattedrali e le mense vescovili sono rappresentate dai vescovi, le chiese dal capitolo collegiale o dal rettore, i benefici dal titolare, i seminarî dal rettore o dall'economo: tutti gli amministratori per intraprendere un giudizio devono pure ottenere la licenza scritta dall'autorità tutoria, rappresentata dall'ordinario. In caso di mancanza o negligenza degli amministratori, l'ordinario ha sempre il diritto di rappresentare le persone giuridiche che dipendono dalla sua giurisdizione. Chi è parte può stare generalmente in giudizio personalmente, salvo speciale proibizione di legge. A tutti è lecito farsi rappresentare da un procuratore, fermo l'obbligo di comparire personalmente, qualora il giudice lo imponga. Il mandato di procura deve essere scritto e per liti determinate. È permesso anche a ciascuno farsi assistere da uno o più avvocati. Il giudice nelle cause penali, qualora manchi, deve nominare d'ufficio un avvocato; nelle civili può farlo, se lo ritiene necessario. Gli avvocati e i procuratori regolarmente devono essere cattolici e non colpiti da pene ecclesiastiche; gli avvocati devono essere possibilmente laureati in diritto canonico e approvati dall'ordinario. Uno speciale tirocinio è imposto a chi aspira a difendere le cause presso i tribunali pontifici. I procuratori dei SS. Palazzi Apostolici e gli avvocati concistoriali sono ammessi di diritto a patrocinare presso i tribunali della Santa Sede.
La costituzione del rapporto processuale si compie con tre atti distinti: la domanda giudiziale, la citazione e la contestazione della lite. Nella domanda, oltre l'indicazione del tribunale al quale è diretta, devono essere esposti tutti gli elementi necessarî a individuare l'azione e l'interesse che si ha di proporla. La domanda dev'essere normalmente scritta; per eccezione è ammessa la domanda orale. Il giudice è tenuto a esaminare al più presto la domanda e i suoi presupposti, con l'obbligo di rilevarne d'ufficio la mancanza e di emettere un decreto di ammissione o reiezione. Tale preliminare giova a prevenire molti incidenti. Nel caso in cui la domanda sia stata rigettata, è ammesso il ricorso al tribunale superiore. Alla presentazione della domanda non sono connessi effetti sostanziali di sorta. La citazione è fatta a giorno determinato e contiene, oltre l'ordine di comparire, tutti gli elementi della domanda. Alla notificazione, secondo l'uso dei varî paesi, si provvede per mezzo del cursore ecclesiastico o di cursori statali o della posta o con altri mezzi ammessi da leggi particolari o consuetudini. Si usa anche la citazione per editto. Con la citazione il rapporto processuale è costituito, sorge la litispendenza e si perpetua la giurisdizione. Alla citazione è connesso l'effetto sostanziale interruttivo della prescrizione. La contestazione della lite nella maggior parte dei casi ribadisce formalmente l'oggetto della domanda e l'opposizione del convenuto e, nei casi più difficili, definisce i limiti della controversia; inoltre, ciò che è di massima utilità, preclude tutte le eccezioni preliminari e apre l'istruttoria. Dal giorno della contestazione della lite corre l'obbligo della restituzione dei frutti e dei danni.
Nei processi penali, all'accusa del promotore di giustizia è premessa un'inchiesta segreta, la quale, quando dia risultati positivi e non termini con la correzione giudiziale o altro provvedimento, a giudizio dell'ordinario sbocca nel processo penale.
Lo svolgimento del rapporto comprende due fasi distinte; l'istruzione e la discussione, divise l'una dall'altra dalla conclusione in causa.
Durante l'istruzione si raccolgono le prove. Le parti sono tenute a giurare di dire la verità e a rispondere personalmente. La confessione giudiziale esonera l'avversario dall'onere della prova nelle cause d'interesse privato, non così in quelle d'interesse pubblico. La confessione extra-giudiziale è lasciata all'apprezzamento del giudice. I testi sono ammessi in ogni genere di cause senza eccezione, ma il giudice ha ampî poteri circa il loro numero e le domande che devono loro essere dirette. Sono dispensati dall'obbligo di deporre i sacerdoti riguardo a ciò che abbiano conosciuto nell'esercizio del loro ministero e così pure chiunque altro che sia depositario di un segreto d'ufficio; inoltre chi ha ragione fondata di temere gravi danni dalla propria deposizione. Coloro che illegittimamente si rifiutano di rendere testimonianza e gli spergiuri sono puniti. Sono incapaci assolutamente di rendere testimonianza, oltre alle persone che esercitano nel processo un ufficio incompatibile con quello di testi, i sacerdoti riguardo a tutto ciò che hanno udito in confessione e così pure il coniuge, i consanguinei e gli affini in linea retta e in primo grado della linea collaterale, a meno che non si tratti di cause di stato personale, come le matrimoniali e non sia possibile altrimenti procurare le notizie che si desiderano. Chi è meno sano di mente è ritenuto non idoneo e chi ha cattiva condotta sospetto. Sono ammesse due eccezioni, l'una contro le persone dei testi (reprobatio testis), l'altra contro le testimonianze (reprobatio testimoniorum). La valutazione delle testimonianze è in sostanza rimessa all'apprezzamento del giudice. I periti possono essere scelti dalle parti nelle cause d'interesse privato, sono sempre scelti dal giudice nelle cause d'interesse pubblico. Le eccezioni che si possono proporre contro i periti sono le stesse dei testi. La perizia è eseguita sempre individualmente: particolari norme regolano la perizia calligrafica e nelle questioni matrimoniali. Il voto dei periti non obbliga il giudice, ma questi nella sentenza deve esporre le ragioni per le quali se ne è allontanato. L'accesso con la ricognizione giudiziale può essere unito anche ad altri mezzi di prova ed eseguito dal collegio o dall'istruttore o da un giudice delegato. I documenti sono pubblici e privati. Il codice dà una enumerazione dimostrativa quasi completa dei documenti pubblici ecclesiastici. Il carattere pubblico è riconosciuto anche ai documenti civili che sono ritenuti tali dalle rispettive leggi. I documenti pubblici fanno fede di ciò che in essi è direttamente e principalmente affermato; è stabilita invece solo una presunzione circa la loro genuinità. I documenti privati devono essere ammessi dalla parte o riconosciuti dal giudice. È ammessa l'azione diretta a ottenere la produzione di documenti comuni alle parti, salvo il caso di grave danno. Le presunzioni dirette o indirette sono stabilite dalla legge o ammesse dai giudici. Il giuramento suppletorio, estimatorio e decisorio, è ammesso con notevoli cautele e solo quando si tratti di cause di poco valore o d'interesse privato.
Elegante e sollecita è la trattazione degl'incidenti. Si possono proporre in scritto o oralmente. Il giudice può definirli con decreto o con sentenza interlocutoria. Salvo il caso in cui vengano proposte frivole eccezioni, il giudice deve premettere una breve discussione in contraddittorio e esporre nella decisione le ragioni in fatto e in diritto. Contro i decreti non è ammesso appello; contro le sentenze è concesso solo se pregiudichino la sentenza di merito. Tutte le decisioni intermedie possono essere riformate prima della sentenza definitiva.
La contumacia del convenuto è dichiarata a istanza di parte dopo aver ripetuto, se ne sia il caso, la citazione. In cause d'interesse pubblico si possono minacciare pene canoniche per indurre il convenuto a comparire. Al convenuto dichiarato contumace non si notificano se non le domande nuove e la sentenza definitiva. Egli ha però diritto di comparire fino al termine del processo, ma deve accettarlo nello stato in cui si trova, a meno che non giustifichi la sua assenza. Contro la sentenza pronunciata in contumacia può entro tre mesi ottenere la restituzione in intero per appellare. La contumacia dell'attore può essere dichiarata solo dopo che sia stata ripetuta la citazione. Essa fa perdere all'attore il diritto a proseguire il processo e dà al convenuto facoltà di abbandonare o di condurre a termine il giudizio. Le spese incontrate a causa della contumacia sono a carico di chi ne fu responsabile.
L'intervento volontario del terzo, principale o accessorio, può aver luogo in qualunque istanza, ma deve proporsi prima della conclusione in causa. Il terzo è tenuto ad accettare il processo nello stato in cui si trova.
L'intervento necessario può avvenire a istanza di parte o d'ufficio; nel primo caso può essere proposto solo in prima istanza e solo per questioni connesse con la causa principale; nel secondo, trattandosi di un mezzo istruttorio, può avere luogo in ogni grado di giurisdizione.
La conclusione in causa, dopo aver comunicato alle parti qualunque atto processuale che possa finora essere rimasto segreto, è decretata d'ufficio, quando il giudice ritiene che la causa sia sufficientemente istruita. Con la conclusione si precludono normalmente nuove prove e si apre la discussione.
La discussione è necessaria, ma le parti nelle cause civili possono rinunziarvi. Le difese sono scritte e si scambiano tra le parti per il tramite del tribunale; è possibile anche una discussione orale per illustrare determinati punti bisognosi di chiarimento.
La fine del rapporto processuale può aver luogo per perenzione, rinunzia, o sentenza. Il rapporto può anche interrompersi. L'interruzione del processo può verificarsi fino alla conclusione in causa per morte di una parte, mutazione di stato, o cessazione dall'ufficio, in qualunque stadio del processo per cessazione del procuratore. La perenzione si verifica di diritto, se in prima istanza nessun atto processuale si ponga durante un biennio; nelle istanze successive durante un anno. Ogni rinunzia agli atti processuali o all'intero processo dev'essere fatta in iscritto, accettata dall'avversario e ammessa dal giudice.
La sentenza viene pronunciata dopo esaurita la discussione in base alle prove raccolte, da valutarsi secondo la coscienza del giudice. Se il tribunale è collegiale, al convegno dei giudici per la decisione ciascuno deve portare le sue conclusioni scritte, motivate in fatto e in diritto; nella discussione parla per primo il relatore, seguono gli altri secondo l'ordine di precedenza. Nella sentenza, premessa l'invocazione del nome di Dio e una breve fattispecie, si espongono i motivi di diritto e di fatto e le conclusioni delle parti; con la parte dispositiva si deve d'ufficio deliberare circa le spese. La sentenza si può pubblicare o leggendola alle parti presenti o invitandole a leggerla presso la cancelleria o notificandola alla maniera della citazione.
Il giudicato si ottiene o con una doppia sentenza conforme o con la deserzione o perenzione di un'istanza d'appello o con una sentenza inappellabile. È evidente che la necessità della doppia conforme può dar luogo anche a tre o più istanze. Le questioni di stato personale non passano però mai in giudicato, ma dopo due sentenze conformi è preclusa un'ulteriore trattazione della causa se non si adducono nuovi e gravi argomenti o documenti. Così dopo una doppia sentenza conforme favorevole alla nullità del matrimonio, contro la quale il difensore del vincolo non abbia nuovamente appellato, le parti sono libere di passare ad altre nozze. Tale sentenza dopo una deliberazione formale della Segnatura apostolica può essere trasmessa alla Corte d'appello competente per territorio, perché con ordinanza in camera di consiglio la renda esecutoria agli effetti civili.
Le impugnative ammesse contro la sentenza sono la correzione, l'appello, la querela di nullità, l'opposizione di terzo e la restituzione in intero. La correzione riguarda gli errori materiali. L'appello è ammesso generalmente per tutte le sentenze non passate in giudicato; è negato tuttavia per le sentenze pronunciate dal sommo pontefice o dalla Segnatura apostolica o da giudici delegati dalla Santa Sede con la clausola appellatione remota, come pure è negato per le sentenze nulle o non definitive o pronunziate in contumacia o contro chi ha espressamente rinunziato a tale diritto. L'appello si compie con due atti distinti da farsi presso il giudice a quo e ad quem. Il primo atto deve farsi entro il termine legale improrogabile di giorni dieci, il secondo entro un mese prorogabile dal giudice. L'appello può essere principale o incidentale. Nel caso di litisconsorzio prevale la personalità dell'appello tranne il caso di oggetto indivisibile o di obbligazione solidale. L'effetto sospensivo dell'appello può mancare in determinati casi stabiliti dalla legge, il devolutivo può essere limitato dalla volontà delle parti. Il procedimento dell'appello è analogo a quello di prima istanza; non si possono proporre domande nuove, ma sono ammesse nuove prove nei limiti in cui sarebbero state concesse in prima istanza dopo la conclusione in causa. La nullità della sentenza è sanabile o insanabile. La querela di nullità sanabile, per difetto di legittima citazione o di formalità della sentenza, qualora non si sia fatta valere insieme con l'appello, può proporsi entro tre mesi. La nullità insanabile per incompetenza assoluta, irregolare costituzione del collegio giudicante, difetto di capacità di parte o processuale o di mandato procuratorio, come anche per altri vizî essenziali del processo, può opporsi entro trent'anni. La nullità è giudicata dallo stesso tribunale che ha pronunciato la sentenza, salvo il caso di sentenze rotali, le quali possono essere dichiarate nulle solo dalla Segnatura apostolica.
L'opposizione di terzo può aver luogo quando una sentenza definitiva produca di fatto danno o pregiudizio a un diritto del terzo; ed è diretta a impedirne l'esecuzione: può proporsi dinnanzi al tribunale che l'ha pronunziata o al tribunale d'appello.
La restituzione in intero è rimedio straordinario concesso per le sentenze evidentemente ingiuste e non più impugnabili con l'appello o la querela di nullità. Invocata per motivi di fatto (documenti riconosciuti falsi, fatti nuovi decisivi, dolo di una parte in danno dell'altra), è decisa dallo stesso tribunale che l'ha pronunciata; per motivi di diritto, cioè per violazione di legge, è decisa dal tribunale superiore. La restituzione in intero contro le sentenze rotali è riservata alla Segnatura apostolica.
Le spese giudiziali sia in cause civili sia in cause penali seguono in genere la soccombenza, ma il principio è spesso mitigato da ragioni varie di equità. I poveri hanno diritto al patrocinio gratuito o a una riduzione delle spese.
L'esecuzione della sentenza è affidata all'ordinario del luogo in cui fu pronunziata la decisione di prima istanza e in mancanza di esso al giudice di appello. Nelle azioni reali immobiliari l'esecuzione ha luogo immediatamente; nelle personali e reali mobiliari può concedersi una breve dilazione. L'esecuzione non può spingersi al punto da togliere ai chierici quanto è necessario al loro onesto sostentamento. Come mezzi coercitivi sono usate specialmente le pene canoniche.
Fonti: Antecedenti al codice: Corpus iuris canonici, Canones et decreta concilii Tridentini e molte costituzioni posteriori; inoltre le istruzioni della congregazione del concilio (1840), della congregazione dei vescovi e regolari (1880), della congregazione del S. Ufficio ai vescovi di rito orientale (1883) e della congregazione di Propaganda Fide per gli Stati Uniti d'America (1883). Per la curia romana la costituzione Sapienti Consilio del 1908 con la annessa Lex propria Sacrae Romanae Rotae et Signaturae Apostolicae alla quale seguirono nel 1910 le Regulae servandae in iudiciis apud S. R. Rotae tribunal e nel 1912 le Regulae servandae in iudiciis apud Supremum Signaturae Apostolicae Tribunal. Dopo il codice la Congregazione dei Sacramenti pubblicò ancora varie istruzioni, di cui le principali sono quelle del 7 maggio 1923 circa i processi di matrimonio rato e non consumato e quella del 9 giugno 1931 circa le cause di sacra ordinazione. Il 29 giugno 1934 furono pubblicate le nuove Normae S. R. Rotae Tribunais.
Bibl.: P. Gasparri, Cod. iur. can. Fontes, voll. 6, Roma 1926 segg.; F. Roberti, Cod. iur. can. Schemata, Città del Vaticano 1935; I. Noval, e iudiciis, I, Roma 1920; II, III, 1932; E. Eichmann, Das Prozessrecht des Codex iuris canonici, Paderborn 1921; Ch. Augustine, A Commentary on Canon Law, 2ª ed., VII, St Louis 1924; I. Meile, Die Beweislehre des kanonischen Prozesses, Paderborn 1925; T. A. Muniz, Procedimientos eclesiasticos, 2ª ed., III, Siviglia 1926; Wernz-Vidal, De processibus, Roma 1927; I. Haring, Der kirchliche Eheprozess, Graz 1929; id., Der kirchliche Strafprozess, Graz 1931; F. Roberti, De processibus, voll. 2, Roma 1935.