Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il pensiero tolemaico e il modello astronomico proposto nell’Almagesto suscitano le perplessità degli studiosi occidentali, alle prese con un apparato concettuale difficilmente conciliabile con le convinzioni religiose sull’operato divino. Le incongruenze fra i modelli cosmologici di matematici e filosofi spingono però verso un’originale elaborazione che apre nuove vie.
L’introduzione del pensiero aristotelico nell’Occidente cristiano non è un processo culturale indolore, in particolare per le questioni cosmologiche. La struttura a sfere cristalline concentriche esposta nel De coelo e nei Meteorologica, animata dal moto circolare e uniforme propagato dalla sfera delle stelle fisse a quelle man mano sempre più interne dei vari pianeti, delinea una macchina del mondo il cui funzionamento non richiede alcun intervento divino. Nonostante gli ambienti colti auspicassero l’operazione di recupero del pensiero greco attraverso la traduzione integrale delle opere di Aristotele, la maggior parte dei teologi cristiani rimane inizialmente perplessa di fronte ai contenuti che ne emergono. Dalla metà del XIII secolo la dottrina aristotelica del cosmo comincia perciò a farsi strada nelle più importanti università europee – Tolosa, Oxford, Parigi e Padova – suscitando reazioni alterne. Essa genera diverse scuole filosofiche che delineano proprie versioni distinte dell’aristotelismo, accettandone o respingendone il sottofondo determinista in misura proporzionale alla rilevanza assegnata al rapporto tra fede e ragione.
La conoscenza dell’altro principale esponente dell’astronomia antica suscita in parte analoghe perplessità. Anche Tolomeo aveva delineato un apparato concettuale dal quale pareva comunque escluso l’operare divino. In questo caso però il rapporto fra ragione e fede non appare messo altrettanto alla prova come per Aristotele. Preceduto da alcuni lavori introduttivi elementari di autori islamici tradotti in latino, l’Almagesto si propone più come una raccolta di modelli geometrici destinati a eseguire calcoli raffinati per prevedere le posizioni planetarie con la massima precisione che non come un tentativo di delineare la vera struttura del cosmo. Se si legge l’opera da questo punto di vista, si scopre anzi che Tolomeo stesso appare lontano dal dare consistenza fisica ai propri modelli, specialmente quando si tratta di delineare l’ordine dei pianeti. Egli infatti pone il Sole fra tre pianeti “inferiori” (Luna, Mercurio e Venere) e tre pianeti “superiori” (Marte, Giove e Saturno), non in base a considerazioni di ordine fisico, bensì “estetico”. Quale più bella simmetria si poteva dare al cosmo di quella in cui la lanterna del cosmo occupava una posizione mediana fra gli altri sei pianeti?
Fin dal XIII secolo, piuttosto che soffermarsi a individuare anche in Tolomeo un nemico del libero arbitrio divino e umano, gli studiosi occidentali cominciano a rendersi conto della sostanziale incongruenza esistente fra il cosmo geometrico, preferito dai matematici, e il cosmo fisico, prediletto dai filosofi.
Di fatto, mentre gli studiosi orientali avevano in parte già superato il problema della discordanza fra le due posizioni elaborando modelli planetari alternativi a quelli dell’Almagesto, nel XIII e XIV secolo i matematici occidentali approfondiscono l’astronomia greca proprio a partire da questo punto. La discordanza fra l’interpretazione fisica e l’interpretazione geometrica del cosmo era del resto ben evidenziata nel trattato di Abu Ishaq al-Bitruji tradotto in latino da Michele Scoto, con il titolo di Liber Astronomiae. In ritardo di circa due secoli rispetto a quanto era avvenuto nel mondo islamico, la discussione europea sull’argomento comincia a preparare il terreno a uno sviluppo del tutto originale dell’astronomia occidentale.
A partire dal XIII secolo i matematici europei iniziano a verificare le ipotesi tolemaiche che, di fatto, restavano le più utili. Da un lato, da un punto di vista pratico, le predizioni astrologiche e la corretta gestione del calendario giuliano, per il quale sia Roberto Grossatesta che Ruggero Bacone evidenziano l’esigenza di una riforma, non traevano alcun vantaggio dall’eventuale esistenza delle sfere celesti di Aristotele. Dall’altro, si diffonde gradatamente l’idea che qualunque teoria scientifica debba in primo luogo mirare a fornire una spiegazione il più aderente possibile ai fatti osservati. Senza ancora mettere in dubbio i risultati pratici raggiunti con le Tavole toledane e le Tavole alfonsine, molti matematici europei si dedicano a creare strumenti scientifici, sperando di confermare o di smentire con essi le teorie tolemaiche mediante nuove osservazioni. Parte di questi strumenti, come quelli attribuiti a Campano da Novara e a Giovanni de Muris riprendono la struttura di quelli esposti nell’Almagesto. Altri, perfezionati nella scuola astronomica di Montpellier, e in particolare dall’ebreo Levi ben Gerson, derivano invece dall’elaborazione di strumenti islamici. In ogni caso non si giunge mai a erigere strutture organizzate analoghe ai grandi osservatori del Medio Oriente e nemmeno si ottengoro risultati eclatanti. Le nuove osservazioni hanno come esito principale l’aggiornamento di alcuni parametri astronomici fondamentali e, al più, la redazione di liste contenenti le coordinate celesti di alcune stelle utili per preparare la rete dell’astrolabio piano.
Molto più degli islamici, i matematici europei prestano sempre maggiore attenzione anche a una differente categoria di strumenti destinata a mostrare la correttezza meccanica delle varie ipotesi sul moto dei pianeti. Se è pur vero che nel 1232 l’imperatore Federico II aveva ricevuto in dono dal sultano di Damasco uno strumento di questo tipo, sono tuttavia gli occidentali a produrre con assiduità “orologi planetari” di varia forma e dimensione.
Fra i primi costruttori degni di menzione compare Richard di Wallingford, abate di St. Albans, non nuovo alla progettazione di dispositivi di osservazione e di calcolo. Il suo orologio planetario, completato intorno al 1320, era costituito da un meccanismo a ingranaggi mosso dalla discesa di alcuni pesi e in grado di riprodurre su un unico quadrante i movimenti del Sole, della Luna e delle stelle fisse.
Ben più ambizioso è però lo strumento realizzato dal padovano Giovanni Dondi su ispirazione delle Theorica planetarum di Campano da Novara. Al preciso scopo di dimostrare la possibile rispondenza alla realtà dei modelli planetari dell’Almagesto, Dondi impiega circa sedici anni per ultimare il suo cosiddetto “astrario”. Anche questo strumento era composto da treni di ingranaggi mossi dalla discesa di un peso e regolati dall’oscillazione di un bilanciere a forma di corona. Tuttavia, anziché limitarsi a presentare il Sole, la Luna e le stelle fisse, l’astrario riproduceva anche i moti di tutti gli altri pianeti conosciuti. I vari treni di ingranaggi terminavano infatti in sette distinti quadranti che, a eccezione di quello unitario per le stelle fisse e il Sole, mostravano ognuno il corso di un pianeta lungo lo zodiaco. Ogni astro era condotto intorno al centro del proprio quadrante, corrispondente alla posizione della Terra immobile, dalla rotazione di un epiciclo che scorreva lungo un cerchio eccentrico ma con moto uniforme rispetto a un cerchio equante. La posizione del pianeta lungo lo zodiaco era indicata da una apposita lancetta.
Capolavoro assoluto di orologeria meccanica, l’astrario va purtroppo perduto nella prima metà del XVI secolo, forse dimenticato in una qualche cantina polverosa degli Sforza, ai quali era stato donato, o forse portato in Spagna dall’imperatore Carlo V, che a Milano ne era rimasto affascinato. Dell’astrario rimane tuttavia una descrizione estremamente accurata nel Tractatum astrarii dello stesso Dondi, opera dalla quale si ricava che lo strumento era stato in parte concepito come risposta a alcune posizioni teoriche circolanti all’interno della scuola astronomica nata accanto all’università di Padova. Forse a cominciare da Pietro d’Abano, nell’area padovana iniziano infatti a circolare critiche radicali alle concezioni dei filosofi e dei matematici greci. In alcuni casi tali critiche giungono fino a asserire l’inesistenza sia delle sfere cristalline di Aristotele sia degli epicicli di Tolomeo e, almeno così sembra, ad azzardare l’ipotesi che la Terra potesse non essere immobile al centro dell’universo.