Prisciano
. Grammatico latino, nato a Cesarea in Mauritania nella seconda metà del sec. V.
Tenne scuola a Bisanzio durante il regno di Anastasio I Dikoro (491-518) e quindi a Roma dove frequentò i circoli culturali di Simmaco e del patrizio Giuliano. La sua opera principale sono le Institutiones grammaticae, che egli dedica a questo - peraltro ignoto - Giuliano, e che ebbero un notevole successo nel Tardo-antico e per tutto il Medioevo, fino all'Umanesimo. Sulla scia della fama e della diffusione delle Institutiones furono pure assai note nel Medioevo altre opere (il De Figuris numerorum, il De Metris fabularum Terentii e i Praeexercitamina, dedicati a Simmaco; l'Institutio de nomine et pronomine et verbo; le Partitiones duodecim versuum Aeneidos principalium; il Liber de accentibus; il Panegirico di Anastasio; la traduzione della Periegesis di Dionigi il Periegeta; il Carmen de sideribus) trasmesse, più o meno a buon diritto, sotto il nome di Prisciano.
Le Institutiones, in 18 libri sono, per i primi 16 libri (Priscianus maior), un trattato di grammatica e, per gli ultimi due (Priscianus minor), un trattato di sintassi. Specialmente il trattato di grammatica si affermò nella scuola medievale, insieme con l'Ars di Donato, come testo ufficiale di grammatica, sia direttamente, sia indirettamente attraverso numerose rielaborazioni (Giovanni di Garlandia, Vincenzo di Beauvais, ecc.) e sommari. Direttamente o indirettamente lo conobbe certamente D., anche se non cita mai espressamente le Institutiones. Non è perciò possibile avanzare più che un sospetto sull'uso di prima mano delle Institutiones da parte di Dante.
D. fa una sola volta il nome di Prisciano, ed è per collocarlo fra i sodomiti: cfr. If XV 109 sappi che tutti fur cherci / e litterati grandi e di gran fama, / d'un peccato medesmo al mondo lerci. / Priscian sen va con quella turba grama. Le ragioni di questa collocazione ci sono ignote, dato che non risultano dai dati biografici di P. a nostra disposizione.
Questi dati, che sono quelli su esposti, si ricavano tutti e soltanto dall'opera stessa di P.; l'unica ‛ vita ' medievale di P. riportata nel codice A 90 di Berna si limita a questi stessi dati. E, ovviamente, non si ricava né da P. né dalla Vita Bernense nessun elemento a suffragio della sodomia di Prisciano. Di contro in biografi più recenti (Alano di Lilla, Hugo di Trimberg), sulla confusione fra il patrizio Giuliano, dedicatario delle Institutiones e l'imperatore Giuliano l'Apostata, viene fantasticata la notizia che P. era stato, come Giuliano, apostata. Questa versione - non raccolta peraltro da più autorevoli biografi come Conrad di Hirsau, l'Anonimo di Melk e gli Accessus pubblicati da Huyghens - arriva certamente fino a Uguccione che fa di P. un " sacerdos ", poi " apostata "; e da Uguccione passa nei commentatori antichi di D. che, trascurando il problema della sodomia o meglio considerandola naturalmente legata allo stato del celibato ecclesiastico, classificano P. fra i cherci apostati. Così lo pseudo Boccaccio: " fu un monaco ch'ebbe nome Prisciano e fu appostata "; Benvenuto: " Priscianus ponitur hic tamquam clericus, quia monachus fuit et apostatavit "; il Buti: " fu apostata e fu grande grammatico ".
In assenza di altri dati la colpa di P. è inevitabilmente ancora argomento di discussione. C'è chi sostiene che D. abbia avuto la notizia sulla sodomia di P. da una fonte medievale a noi ignota (Curtius); altri propongono che D. abbia fatto confusione fra P. e il vescovo ed eretico del IV secolo Priscilliano di Avila, che sarebbe stato fra l'altro accusato anche di sodomia (Casini-Barbi, Zingarelli). Sono due ipotesi parimenti fragili, quella del Curtius gratuita e indimostrabile, ma quella di Casini-Barbi-Zingarelli - oltre che improbabile, se si considera la larga diffusione di P. - anche sicuramente faziosa e da denunciare una volta per sempre come un'inaudita falsificazione ispirata da un campo ideologico che considera in atteggiamento denigratorio l'eterodossia cristiana. Infatti contro ogni pretesa di Casini-Barbi, che fanno del priscillianesimo " una setta ereticale, cui si appose tra le altre la colpa della sodomia ", le fonti antiche sul priscillianesimo e su Priscilliano qualificano sempre in modo esplicito Priscilliano come sadico e pervertito, ma fermamente solo nel campo eterosessuale (cfr. Sulpicio Severo Chron. II XLVIII 2 " Procula de qua fuit in sermone hominum Priscilliani stupro gravidam partum sibi graminibus abegisse "; II I 8 " Nocturnos etiam turpium feminarum egisse conventus nudumque orare solitum "; Latinio Pacato Drepanio Paneg. XII 29 (ediz. Baehrens², p. 114): " cum descensum recorder ad sanguinem feminarum et in sexum cui bella parcunt pace saevitum "; Girolamo Epist. CXXXIII 3 " soli cum solis clauduntur mulierculis ac illud eis inter coitum amplexusque decantant ". Nel quadro della diffamazione erotica di Priscilliano e della sua setta la sodomia non ha posto !
Altri contributi al problema risultano altrettanto inefficaci. Così si cercò di evitare l'ostacolo esumando il nome di un " magister Prisianus " che fu professore di grammatica a Bologna intorno al 1294 (Filippini) e quindi " collega di Francesco d'Accorso " nominato appresso a Prisciano al v. 110 (Provenzal); così il Pézard sostenne un'interpretazione allegorico-spiritualista per cui la colpa di P. sarebbe sul piano allegorico allusiva a una violazione dell'ordine naturale, ma per aver egli preferito al latino " naturale " il greco " artificiato ".
Tutto sommato oggi rimane prevalente la tesi che P. sia stato posto fra i sodomiti quale paradigma di un peccato, come la sodomia, che è stato sempre caratteristica di seminari, collegi e scuole, cioè di comunità dove la sudditanza maestro-discepolo dà incentivo alla pratica omosessuale. La tesi è abbastanza sensata e risale agli antichi commentatori: così l'Anonimo (" i maestri che 'nsegnano grammatica... paiono maculati di questo vizio, forse per la comodità de' giovani a' quali elli comunemente insegnano "), Pietro (" peccatum sodomiticum frequentatur magis inter scientificos et doctrinatos iuvenes, quam in aliis "), Boccaccio (" Non lessi mai né udii che esso di tal peccato fosse peccatore; ma io estimo abbia qui voluto porre lui, acciò che per lui s'intendano coloro i quali la sua dottrina insegnano... per ciò, che il più hanno gli scolari giovani, e per l'età temorosi e ubbidienti così a' disonesti come agli onesti comandamenti de' lor maestri; e per questo comodo si crede che spesse volte incappino in questa colpa "), Benvenuto (" literati vero quia similiter sunt otiosi et habent materiam paratam, scilicet copiam puerorum "). È chiaro infatti che tutti i trecentisti convergono sull'analisi della sodomia come prodotto del rapporto sociale in forme di produzione coeve dove al rapporto di lavoro maestro-apprendista corrispondeva il rapporto scolastico maestro-scolaro in modi assai simili di dipendenza personale. È credibile che questa analisi fosse acquisita da Dante. Perciò va considerato positivamente il recupero della spiegazione trecentesca della sodomia di P. fatto dal Toynbee e da quasi tutti i commentatori moderni.
Solo recentemente Schizzerotto ha tentato di scalzare questa tesi riproponendo la lettura di Uguccione (Magnae Derivationes, sub v. Edo: " Et ab ultimo supino, addita -rio, fit esurio, verbum meditativum, i. meditari edere. Ille esurit cuius animus est in patinis, et hinc haec esuries, -ei. Et nota quod Priscianus dicit omnia meditativa carere praeterito, et tamen invenitur in divina pagina: ‛ Esurivi, et non dedistis mihi manducare '. Et dicendum quod, licet ars gramatica ita exigat, tamen potest aliter inveniri in divina pagina, quae non coartatur regulis gramaticorum, vel forte Priscianus nondum legerat in illo loco, quamvis, legamus eum fuisse sacerdotem, sed amore Iuliani postea apostatasse "), ma ricavandone inaspettatamente che " l'apostasia del grammatico amore luliani, se per Uguccione voleva significare... soltanto la scelta ereticale di Prisciano per l'eterodossia dell'imperatore Giuliano, confuso col console e patrizio, per Dante volle dire che a causa dell'amore carnale per Giuliano il grammatico rinunciò all'ortodossia ". Ma non è ipotesi sostenibile. L'apostasia " amore Iuliani " non può significare per D., ma anche per il lettore di ogni epoca di media e bassa latinità, se non che P. per stima, affetto e riconoscenza nei riguardi di Giuliano l'Apostata, rinnegò l'ortodossia. Ogni altra interpretazione fa sicuramente torto al latino di Dante.
E c'è un altro argomento da aggiungere a tutto questo in rincalzo alla linea Toynbee: ed è la struttura stessa del canone sodomitico di If XV. Si tratta di un canone quadripartito (e che ricalca quindi i canoni dei ‛ regulati '), nel cui ambito è facile distinguere due diverse coppie: da una parte Brunetto, " sommo maestro di rettorica " (Villani) e P., " primae artis restaurator strenuus " (così un Catalogus auctorum di Alençon del XII secolo); dall'altra un professore universitario, Francesco d'Accorso, e il vescovo Andrea de' Mozzi. È chiaro che nella seconda coppia sono indicate le scuole laiche ed episcopali. Altro sarà il discorso per la prima coppia. Brunetto e P. stanno a indicare in perfetto pendant le due arti fondamentali del trivio, la terza (retorica) Brunetto e la prima (grammatica) Prisciano. Secondo me c'è una prova per ipotizzare questa struttura dei due personaggi, ed è in Pd X 118-120, dove Mario Vittorino retore (avvocato) è posto nella prima corona del Sole in evidente pendant con un grammatico che è nella seconda corona del Sole, quel Donato / ch'a la prim'arte degnò porre mano (Pd XII 137-138). Ce n'è abbastanza per concludere che la collocazione di P. accanto a Brunetto obbedisce alle esigenze di un'analoga struttura. È tacito poi che stanno all'Inferno perché paedagogus vale " sodomita ".
Bibl. - P. Toynbee, D. Studies and researches, Londra 1902, 145 n. 2; F. Filippini, in " Archiginnasio " XII (1917); Zingarelli, Dante 958 n. 58; E.R. Curtius, Europaïsche Literatur und lateinisches Mittelalter, Berna 1948, 51 n. 1; A. Pézard, D. sous la pluie de feu, II, Parigi 1950, 1, 133-150; G. Schizzerotto. Uguccione da Pisa, D. e la colpa di P., in " Studi d. " XLIII (1966) 79-83.