Abstract
L’eguaglianza fra cittadini come principio/valore si afferma già nelle democrazie antiche ed investe la partecipazione al normativo ed i contenuti delle norme giuridiche. L’eguaglianza fra gli uomini di tali contenuti si afferma nel pensiero giudaico cristiano ed in quello stoico e non presuppone necessariamente un regime democratico ma, almeno, un regime non dispotico. L’eguaglianza come tale vieta le distinzioni normative ratione subiecti. Diviene poi anche un canone di ragionevolezza che esclude distinzioni non collegabili ad una ratio legis. Un insieme di fattori esclude una coincidenza fra eguaglianza giuridica e giustizia. Nasce allora un principio di eguaglianza sostanziale che integra e corregge quello di eguaglianza formale, senza davvero negarlo.
Una misura minima di eguaglianza sussiste in ogni ordinamento giuridico in quanto tale, perché questo presuppone norme e non un insieme di puntuali imperativi (Crisafulli, V., Lezioni di diritto costituzionale – Le fonti del diritto, Padova, 1994, 19 ss.) e la norma, in quanto generale (ed, eventualmente, astratta, ovvero oggettivamente ripetibile), equipara, per sua intrinseca struttura, «alcuni in qualcosa» (Bobbio, N., Eguaglianza ed egualitarismo, in AA. VV., Eguaglianza ed egualitarismo, Roma, 1978, 13 ss.).
L’eguaglianza, come principio giuridico, si collega, peraltro, a quello che viene designato come “quantificatore universale” al “tutti”. Essa nasce e si sviluppa nell’ambito di contesti politici, culturali, storici appropriati.
Un’eguaglianza minima sussiste anche nell’ordinamento più dispotico, perché equipara tutti nell’eguale soggezione ad una medesima fonte di comando (Paladin, L., Il principio di eguaglianza, Milano, 1965, 3 ss.).
Se questa fonte di comando è la legge (approvata dal popolo o dal parlamento) l’eguale soggezione cancella i privilegi di status (Esposito, C., Eguaglianza e giustizia nell'art. 3 della Cost., in La Costituzione italiana. Saggi, Padova, 1954). L’eguaglianza, allora, diviene un principio (valore) giuridico per sé fondamentale e comincia a veicolare una relazione “orizzontale” fra i consociati ed, ancora, ad interagire con la democrazia. Segna la fine di un “governo misto” inteso non solo come differenziata partecipazione al potere ma anche come differenziata soggezione ad esso (Fioravanti, M., Costituzionalismo. Percorsi della storia e tendenze attuali, Roma – Bari, 2009, 134).
Un ulteriore passo avanti si riscontra quando il requisito dell’eguaglianza investe il contenuto precettivo delle norme oltre che la fonte da cui provengono.
L’eguaglianza fra cittadini è strettamente connessa ad un regime democratico, che implica non solo pari partecipazione di tutti al potere comune, pari soggezione alla legge ma anche leggi di contenuto eguale (che pongono norme, cioè, di contenuto universale), come garanzia di ciascuno di fronte all’inevitabile affermarsi di un principio di maggioranza. Gli schemi di Hobbes e Rousseau anticipano non poco la moderna teoria dei giochi (Müller, D., Public Choice, II, Cambridge, 1989 – trad. it. Napoli, 1997, 12-13); ma l’intrinseca e pluriversa connessione fra democrazia ed eguaglianza è avvertita fin nell’antichità. Erodoto (Storie, III, 80; Bobbio, N., La teoria delle forme di governo nella storia del pensiero politico, Torino, 1975-76, 3 ss.) ricorda un dialogo fra tre influenti personaggi persiani, in difesa, ciascuno, di una delle tre forme di governo (monarchia, aristocrazia, democrazia). Otane così conclude, in difesa di quest’ultima: «dolce è il nome di isonomia», identificando, con una ardita e coinvolgente metafora, la democrazia con la norma eguale (isos nomos).
Certo, un’eguaglianza fra cittadini che non sia anche eguaglianza fra gli uomini somiglia non poco ad un’aristocrazia, perché introduce diversi livelli di tutela all’interno della popolazione effettiva: ciò che, appunto, si verificava nell’ambito delle democrazie antiche (per Atene e Sparta cfr., ad es., Biscardi, A., Il diritto greco antico, Milano, 1982, 40 ss., 86 ss.; per Ginevra cfr. Rousseau, J.J., op. cit., I, 6; per Firenze, Salvemini, G., Magnati e popolani in Firenze dal 1280 al 1295, Milano, 1960). Rousseau osserva, allora, che la distinzione fra democrazia ed aristocrazia è relativa, mentre sono importanti le regole di gestione di un rapporto fra eguali (Contratto sociale, III, 10; IV, 3).
L’idea di una eguaglianza fra gli uomini nasce, per comune consenso, nell’ambito del pensiero giudaico-cristiano (Cotta, S., Né giudeo, né greco, ovvero della possibilità dell'eguaglianza, in Eguaglianza cit., 27 ss.; Lakoff, S.A., Christianity and equality, in Pennock, J.R.-Chapman, J.W., ed., Equality, Nomos IX, New York, 1967, 115; Rackman, E., Judaism and equality, ivi, 154 ss.;) e del pensiero stoico (Russel, B., History of Western Philosophy, New York, 1945, 252 ss.; Ulpiano, D., L, XVII, 32). Sarebbe facile mostrare i precorrimenti di questo pensiero anche nella Grecia classica. Nell’ottavo libro della Repubblica questi precorrimenti sono considerati da Platone “eccessi”, degenerazioni della democrazia. Ma nel Menone lo stesso filosofo greco è “precursore”, quando mostra un giovane schiavo costruire un quadrato doppio di quello dato, incalzato dalle sapienti domande di Socrate (81 c – 85 b). Fatto sta che si trattava di precorrimenti e non di principi di convivenza consolidati.
L’eguaglianza fra gli uomini sembrerebbe una naturale estensione dell’eguaglianza fra cittadini, resa possibile dalla estensione, appunto, della cittadinanza. In realtà può essere qualcosa di diverso, almeno quando opera (come può operare) in un regime non democratico, nel quale, dunque, il concetto stesso di cittadinanza (insieme con quello di partecipazione) si dissolve. In realtà è un concetto più ampio e diversamente fondato, che può ricomprendere l’eguaglianza democratica, conducendola alle sue conseguenze ultime, ma comprende anche l’eguaglianza di leggi non democratiche (Colorni, V., L'eguaglianza come limite della legge nel diritto intermedio e moderno, Milano, 1970, 13-14).
La Costituzione italiana, invero, garantisce l’eguaglianza fra i cittadini (art. 3, co. 1) e non, immediatamente, fra gli uomini. La nostra Corte ha peraltro esteso questa garanzia anche agli stranieri per il godimento dei diritti inviolabili e, direi, delle “libertà democratiche”, di cui all’art. 10, co. 2, ammettendo un rilievo della cittadinanza solo in quanto pertinente rispetto alla ragione della legge (cfr., tra le altre, C. cost., 23.4.1965, n. 31; 432/1996, etc.) con ciò quasi elidendo la limitazione. Più di recente applica direttamente un principio di eguaglianza fra gli uomini, in base all’art. 14 della CEDU (C. cost., 30.7.2008, n. 306) norma interposta ai sensi dell’art. 117, co. 1, Cost. (C. cost., 24.10.2007, nn. 348 e 349, in seguito sempre confermate).
L’eguaglianza, come reciproca garanzia nell’esercizio del potere in un sistema democratico o come garanzia di non arbitrio in un sistema pur autoritario, implica divieto di distinzioni legislative correlate ad elementi puramente soggettivi. Le distinzioni possono esser correlate solo alla natura dell’atto, dell’attività, della funzione da svolgere, etc., ad elementi, dunque, essenzialmente oggettivi. Gli elementi soggettivi (dolo, colpa, requisiti attitudinali, ad es.) rilevano solo in quanto collegano il soggetto ad un dato oggettivo (Cerri, A., L’eguaglianza nella giurisprudenza della Corte costituzionale, Milano, 1976, 20 ss.; Id., L’eguaglianza, Roma-Bari, 2005, 51 ss.).
Dire che la legge deve essere di contenuto tendenzialmente non solo generale ma universale, per quanto consentito dallo scopo che legittimamente persegue o dire che deve disciplinare nello stesso modo situazioni strettamente analoghe ed in modo diverso situazioni diverse, nell’ottica della ratio che la governa (Cerri, A., L’eguaglianza, cit., 1976, 44 ss.) significa dire, in modo diverso, la medesima cosa. Perché, attraverso l’estensione di una disciplina normativa a tutte le ipotesi analoghe, si perviene, appunto, a stabilire la sua universalità nell’ambito dei fini legittimamente perseguiti. La legge disciplina “tutti e soli” gli argomenti ed i soggetti implicati dalla sua ratio oggettiva.
Se le leggi sono eguali, si è osservato, le maggioranze dovranno ben ponderare gli oneri che impongono mentre le approvano, perché questi oneri ricadono o ricadranno anche sulle loro spalle (ricordo Marsilio, Defensor pacis, I. XII. 5, I, XII. 8: nemo sibi scienter nocet; ricordo Rousseau, Contratto sociale, II.4., II.6.: nul n’est injuste envers lui même, de lui même le peuple veut toujours le bien; lettera VIII dalla Montagna, etc.).
D’altra parte, l’esercizio corretto della legislazione (attraverso norme eguali per tutti) difficilmente potrebbe dar luogo ad una società ingiusta.
Entrambe le cose sono vere solo in piccola parte. E, appunto, per la parte in cui non sono vere, nasce non solo l’idea di una divaricazione fra “eguaglianza formale” ed “eguaglianza sostanziale”, fra “eguaglianza giuridica” e “giustizia” (Perelman, C., De la justice, Bruxelles, 1945 - trad. it. di L. Ribet, Torino, 1959) ma anche un istrumentario di garanzia più complesso di cui l’eguaglianza è solo una parte.
Esistono varie ragioni per cui ciò non si verifica.
L’idea di giustizia, innanzi tutto, non è assolutamente univoca ma comprende accezioni diverse e, in qualche modo, contrapposte (giustizia commutativa, distributiva, nel pensiero antico, eguaglianza marginale, globale, delle opportunità, etc., nel pensiero moderno: cfr. Rae, D.-Kates, D.-Hocschild, J.-Morone, J.-Fessler, C., Equalities, Cambridge Mass. – London, 1981; Sen, A., The Idea of Justice, London, 2009, 12, 194 ss.: «plurality of competing impartial reasons»; Cerri, A., Eguaglianza giuridica e giustizia politica, Roma, 2003, 63 ss.)
Molte leggi condivise, inoltre, possono dar luogo, per un effetto combinatorio non previsto, a risultati non condivisi.
Una legge può essere di contenuto universale ma poi risultare in effetti applicabile solo a settori ben delimitati della società, che rientrano ma non coincidono, tuttavia, con l’insieme di persone che la compongono (cfr. Rousseau, J.J., Contratto sociale, II, 3; Economia politica; Osservazioni sul governo di Polonia, VII). Tutti possono (in astratto) accedere a tutti i ruoli sociali; ma, in fatto, solo alcuni in effetti esercitano ciascuno di essi. Una legge che disciplini questi ruoli formalmente si dirige a “tutti” ma, in realtà concerne solo “alcuni”.
L’eguaglianza, in linea di massima, è diritto a pari beni della vita a parità di condizioni ma, per effetto di altri concorrenti principi del sistema (riconducibili, tutti, in qualche modo, ad un criterio di “meritocrazia”), può, in settori cospicui e decisivi, recedere ad “eguale diritto a beni della vita” a parità di condizioni (cfr. Bedau, H.A., Egalitarianism and the idea of equality, in Equality, cit., 19). Ciò avviene nelle democrazie moderne, ad es., nell’accesso alle cariche elettive, nell’accesso alle funzioni pubbliche (per le quali, addirittura, è previsto il concorso) e private, nel campo della libera iniziativa economica. In questi casi, tutti hanno eguale diritto a provare qualcosa, ma non eguale diritto al risultato. Ne derivano meccanismi di attribuzione/distribuzione dei beni retti da un principio di “causalità efficiente”, che sfugge alle implicazioni del principio di “causa finale” (ricordo Aristotile) proprio della legge. Sulle rotazioni ed i sorteggi della democrazia ateniese e sulle loro ragioni cfr. Gloz, G., La città greca, trad. it., Torino, 1948, 184 ss.
Non sono mancati, in effetti, tentativi di misurare il tasso di eguaglianza/diseguaglianza di una società pur retta dal principio in eguaglianza formale (cfr., sui vari tentativi in proposito e sul loro diverso significato giuridico, Cerri, A., Eguaglianza, cit., 2005, 81 ss.).
In relazione a tutto ciò, il secondo comma dell’art. 3 Cost. indica una misura di “eguaglianza sostanziale” che la Repubblica deve, comunque, garantire (infra, §6) e, nella filosofia politica del secondo dopoguerra, sono stati ulteriormente discussi criteri utili a questo scopo (cfr., ad es., Rawls, J., A Theory of Justice, Oxford, 1971; Dworkin, R., Sovereign virtue - The theory and practice of equality, Cambridge Mass. – London, 2000; Sen, A., La diseguaglianza, cit.). Ed, appunto, in questo contesto si è sviluppata la problematica delle cc.dd. “azioni positive” (affirmative actions) delle “discriminazioni alla rovescia” (reverse discriminations): v., infra, § 8. Si apprezzano, allora, le parole del giudice Stevens per cui «There is no moral or constitutional equivalence between a policy that is designed to perpetuate a cast system and one that seeks to eradicate racial subordination» (dissenting, in Adarand Construction Inc. v. Pena, 115 S. Ct., 2118, 1995).
Nonostante tutti i limiti delle garanzie che assicura, il principio di eguaglianza formale resta uno dei cardini degli ordinamenti moderni e, come vedremo tra poco, si espande oltre la sua sede originaria, fino a divenire un criterio generale di ragionevolezza delle leggi.
La sede originaria del principio di eguaglianza è il divieto di leggi che colleghino conseguenze ad elementi puramente soggettivi (ratione subiecti: cfr. Finocchiaro, F., Uguaglianza giuridica e fattore religioso, Milano, 1958, 93 ss.; Cerri, A., L’eguaglianza, cit., 1976, 59 ss., 72 ss.). La nostra Costituzione elenca i fattori soggettivi non suscettibili di considerazione (sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali o sociali). Altri testi più recenti contengono elenchi anche più ampi (cfr. CEDU, art. 14; TFUE, art. 18 ss.; Carta di Nizza, art. 20-26, etc.). Il XIV° emendamento della costituzione americana è, invece, estremamente sintetico ma i risultati, alla fine, sono sostanzialmente i medesimi. La giurisprudenza americana ha elaborato, infatti, la categoria delle cc.dd. “suspect classifications”, in relazione a cui il controllo di costituzionalità deve essere più rigoroso (strict scrutiny), e tali classificazioni tendono a coincidere con quelle della nostra Costituzione. E, d’altra parte, quest’ultima, attraverso la clausola finale che vieta di distinguere in base alle «condizioni personali o sociali», comprende qualsiasi altra stabile connotazione puramente soggettiva. Sorge, allora, il problema di distinguere una tale connotazione da un qualsiasi “concetto di genere” (cfr. cfr. Powell, in S. Antonio v. Rodriguez, 411 U. S. 128, del 1973: «large and amorphous class of people»).
Rientra nel “nucleo forte” (cfr. Cerri, A., L’eguaglianza, cit., 1976, 62 ss.) del principio di eguaglianza anche la normativa che disciplina il godimento dei diritti costituzionali.
Un connotato puramente soggettivo deve ritenersi, in linea di massima, inidoneo ad interagire con fattori oggettivi. Il controllo di costituzionalità, in queste ipotesi, è stretto. In genere si chiede una finalità di massimo livello, una sicura idoneità della norma a garantirla, una necessità del mezzo, nel senso che il medesimo scopo non potrebbe essere conseguito altrimenti: con un regime del dubbio sfavorevole alla legge stessa (cfr, amplius, Ragionevolezza delle leggi).
La presunzione sfavorevole è massima con riguardo alla razza, mentre gli altri fattori elencati possono, con riguardo ad ipotesi specifiche e delimitate, assumere il carattere di requisito attitudinale (cfr., ad es., sulla composizione paritaria, quanto al genere, del Tribunale dei minorenni, l. 25.7.1956, n. 888 e l. 27.12.1956, n. 1441).
Il divieto di distinguere ratione subiecti probabilmente integra, inoltre, un autonomo diritto fondamentale, suscettibile di essere azionato da chiunque a prescindere da uno specifico interesse sotteso (C. cost., 15.4.1993, n. 163; Cerri, A., L’eguaglianza, cit., 1976, 75-76), perché si lega alla pari dignità sociale (Esposito, C., La libertà di manifestazione del pensiero nell’ordinamento italiano, del 1959, ora in Diritto costituzionale vivente, Milano, 1992, spec. 167 ss.), contestualmente evocata dal detto art. 3. È da aggiungere che, con riguardo ai rapporti di lavoro, il divieto di distinzioni di genere rientra, secondo la nostra Corte, ormai nel diritto UE e, dunque, deve essere valutato dal giudice comune (C. cost., 12.5.2017, n. 111, previa, eventualmente, pregiudiziale innanzi alla Corte europea, la cui giurisprudenza sul tema è di estremo rigore, a partire dalla sentenza 8.4.1976, C-43-75, Defrenne, punti da 7-15).
Il principio di eguaglianza è divenuto, peraltro, una struttura quasi abituale del sindacato di costituzionalità (The usual last resort of constitutional arguments: Holmes, in Buck v. Bell, 274 U. S. 200, spec. 208, del 1927; cfr. anche Paladin, L., Eguaglianza cit. 605 ss.; Agrò, A.S., Il principio di eguaglianza formale, in Comm. Cost. Branca, Principi fondamentali, Bologna-Roma, 1975, 123 ss.) perché investe qualsiasi differenziazione o equiparazione normativa, la quale solo per occasione avvantaggia o svantaggia qualcuno. Se, ad es., la “parità delle armi” nel processo non è garantita a danno del convenuto, ne deriverà un ingiusto svantaggio per Tizio o per Caio, ma ciascuno può essere, di volta in volta, attore o convenuto e, dunque, questo ingiusto svantaggio è del tutto occasionale e non concreta una discriminazione ratione subiecti (Cerri, A., L’eguaglianza, cit., 1976, 62 ss.). Di più: può accadere che il raffronto per ingiustificato diverso trattamento si instauri in ordine a fattispecie che riguardano la medesima persona (cfr. C. cost., 10.6.1966, n. 63, che confronta disciplina del diritto morale e patrimoniale di autore). L’eguaglianza diviene, allora, uno strumento che tutela non più solo la massima generalità, ma anche la massima astrattezza della legge, attraverso l’estensione per analogia e, oltre i limiti dati dalla lettera del testo, attraverso un sindacato di ragionevolezza (cfr., tra le altre, C. cost., 23.6.1994, n. 254; 20.11.1995, n. 487; 28.4.2006, n. 174; 6.7.2011, n. 202).
Cicerone definisce l’analogia come Aequitas quae in paribus causis paria iura desiderat (Topici, XXIII); la medesima definizione vale per l’eguaglianza (pari trattamento di fattispecie analoghe e diverso di diverse). Accade allora che il controllo di costituzionalità per violazione dell’eguaglianza continui ed approfondisca l’interpretazione estensiva, analogica o restrittiva, riconducendo l’impatto applicativo della legge a “tutti e soli” i casi in cui ne ricorre la ratio, anche quando la lettera della legge vi ripugnerebbe.
Il carattere equitativo del controllo è ancora più evidente quando l’identità della ragione giustificativa viene declinata in termini di «meritevolezza di tutela» (C. cost., 31.10.1995, n. 472; ma cfr. anche, tra le altre, C. cost., 22.11.1991, n. 421; 10.2.1993, n. 46; 10.6.2014, n. 162; 4.5.2017, n. 94, 6) o quando il sindacato di ragionevolezza/eguaglianza viene ammesso anche in difetto di un elemento di raffronto, richiedendosi in questo caso una irragionevolezza/iniquità di particolare evidenza (C. cost., ad. es., n. 46/1993; 7.3.2017, n. 86).
È chiaro che l’ambito allargato di applicazione dell’eguaglianza non ha il medesimo status del divieto di discriminazioni, dato che opera attraverso non uno strict scrutiny, ma un deferential review (cfr. Ragionevolezza delle leggi) per cui è sufficiente un legittimo scopo e una non manifesta inidoneità del mezzo, ed è chiaro che questo ambito ulteriore di applicazione non integra un vero ed autonomo diritto.
Vero è, peraltro, che i profili “analitici” del controllo di costituzionalità, come, ad es., il riferimento della disciplina alla sua ratio, il concorso di una eventuale ratio distinguendi, etc. sono largamente comuni (cfr., ad es., gli ormai “classici” Tussmann, J.-Ten Broek, J., The equal protection of laws, in 37 Cal. Law Review, 1948-49, 341 ss. ; Huang Thio, S.M., Equal protection and rational classification, in Public law, 1963, 412 ss.; Weber Dürler, B., Die Rechtsgleichheit in ihrer Bedeutung für die Rechtssetzung, Bern, 1973).
In ipotesi di ingiustificata differenziazione normativa, sorge il problema della “scelta” della disposizione da censurare (Cerri, A., L’eguaglianza, cit., 1976, 72 ss.; Id., Questioni alternative. Problemi dell’eguaglianza. Le alternative dell’eguaglianza. Profili processuali e sostanziali, in Giur. Cost. 2015, 1637).
È da chiedersi se il principio di eguaglianza ponga un limite solo a ciò che la legge dispone od anche a ciò che consegue a tale disposizione. In questo contesto si è sviluppata la giurisprudenza europea sulle “discriminazioni indirette” (Ellis, E., The definition in european sex equality law, in Eur. law Review, 1994, 563 ss.) e, prima ancora, quella americana che distingue legge che viola l’eguaglianza in its face o in its effects (Nowak, J.E.-Rotunda, R.D.-Young, I.N., Constitutional law, St. Paul, Minnesota, 1983, 600).
In linea di massima, in una società plurale, quasi ogni legge può avere ricadute diverse in vari ambiti. Vero è che esistono settori “sensibili” in cui queste ricadute diverse non sono consentite e questi settori coincidono con il godimento dei diritti costituzionali o con le distinzioni ratione subiecti (supra, §5), come, appunto, stabilito dal secondo comma dell’art. 3, Cost.
Ciò vuol dire che un controllo stretto di costituzionalità è praticabile solo in questo caso, soccorrendo altrimenti il controllo generale di ragionevolezza. Come vedremo tra poco (infra, §8), inoltre, tale stretto controllo non si applica alle discriminazioni indirette di segno inclusivo.
Si è visto che il principio di eguaglianza formale solo in (piccola) parte garantisce l’effettiva eguaglianza fra consociati. Nasce, appunto, in questo contesto la problematica delle “misure di riequilibrio” ritenute “giuste” (corrispondenti cioè ad una “eguaglianza sostanziale” condivisa) e del controllo di eguaglianza formale da esercitare sulle leggi che le prevedono. Si tratta di stabilire, cioè, se il controllo sulle “azioni positive” (affirmative actions), sulle “discriminazioni alla rovescia” (reverse discriminations) debba essere quello di massimo rigore previsto per le discriminazioni dirette o quelle deferente previsto per qualsiasi altra distinzione legislativa (supra, § 5.).
Sembrerebbe evidente che “discriminazioni indirette” di segno inclusivo, quali sono assicurate, ad es., dai “servizi pubblici”, sono sindacabili solo nell’ambito del generale e deferente scrutinio di ragionevolezza (Cerri, A., L’eguaglianza, cit., 2005, 56 ss.). Le distinzioni indirette di segno esclusivo seguono invece il regime di sindacato, deferente o stretto, appropriato alla natura della posizione incisa (supra, § 5.6.).
Meno facile è rispondere per le vere azioni positive o discriminazioni alla rovescia, che si connotano per il fatto di contenere un riferimento ad elementi puramente soggettivi (privilegio di favore per categorie emarginate: quote di riserva, ad es.).
Il problema, nella nostra tradizione giuridica, è stato talvolta affrontato nell’ambito di quella declinazione del principio in esame che consente (se non impone) un diverso trattamento di situazioni diverse (Mortati, C., Le leggi provvedimento, Milano, 1968, VI-VII della premessa, 78, 79, 80, 90; Pizzorusso, A., Le minoranze nel diritto pubblico interno, Milano, 1967, 322 ss., 341 ss.)
Nel diritto europeo si considerano discriminazioni alla rovescia quelle che conseguono da differenze fra legislazioni nazionali con svantaggio per le proprie imprese o i propri cittadini (cfr. C. giust., 16.6.1994, C-132/93; Avv. Gen. Poiares Maduro, 6.5.2001, C-72/2003, Carbonati Apuani; C. cost., 30.12.1997, n. 443; 9.3.2004, n. 86; 8.10.2007, n. 341; cfr. anche Ghera, F., Il principio di eguaglianza nella Costituzione italiana e nel diritto comunitario, Padova, 2003). Rilevano anche, in questo contesto, gli “obblighi asimmetrici” che possono essere previsti per contrastare una “posizione dominante” (cfr., ad es., Orofino, M., Il Telecoms packadge: luci ed ombre di una riforma molto travagliata, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2010, 513).
Nell’esperienza americana, travagliata dalla pregressa discriminazione razziale, si sono, all’inizio, ammesse solo misure di tipo “risarcitorio” (remedial): ma questo indirizzo è sostanzialmente naufragato di fronte ad oneri probatori insuperabili, che tali, peraltro, non sarebbero stati ove si fosse privilegiato un approccio pur esso “civilistico” fondato sull’indebito arricchimento anziché sull’illecito (Stevens, concurring, in United States v. Paradise, 480 U.S. 149, 1987: i bianchi, benchè innocent, restano i «beneficiaries of the past illegal conduct»: 193, nt. 1). In seguito si sono ammesse azioni positive benign (fondate sulla giustizia distributiva), nell’ottica, però, di una loro intrinseca temporaneità (Brennan, in Local n. 28 Sheet Metal Workers International Association v. E.E.O.C., 421, 1986, spec. 450: cfr. anche Rosenfeld, M., Affirmative Actions and Justice, New Haven and London, 1991, 296 ss.), fino al superamento di certe diseguaglianze ereditate dal passato. Fuori da questa condizione, diverrebbero ingiusto privilegio. E già, del resto, talvolta si avverte il “peso” fin anche di un privilegio favorevole formalmente compensativo. (cfr. Breyer, S.G., Administrative law: democracy, and American Constitution, in Riv. trim. dir. pubbl., 2007, 1 ss.; Gianformaggio, L., Politica della differenza e principio di eguaglianza, in Lav. dir., 1992, 227 ss.). In definitiva, il «badg of inferiority» della sentenza Brown v. Board of Education (347 U. S. 497, 499, del 1954), che pose fine alla “dottrina” del “separati ma eguali” ed aprì la stagione della disegregazione razziale, riaffiora in un contesto quasi inverso e si contrappone al vantaggio degli “esempi trainanti” (per un’analisi puntuale dei “pro” e dei “contra” di tali misure cfr. Rossum, R.A., Reverse discrimination, New York-Basel, 1980).
La Corte europea mostra un'accentuata diffidenza nei confronti delle “azioni positive” come tali: che non ammette neppure quando si concretino in una preferenza per il sesso femminile pur in condizione di pari idoneità allo svolgimento del servizio e ritiene praticabili solo in concorso con ulteriori criteri, sempre purché siano pari le condizioni essenziali di idoneità (sent. 11.11.1997, n. 409, Marschall c. Land Nordrhein Westfalen; si veda anche 28.3.2000, C- 158/97, Bedeck e 6.7.2000, C.-407-98, Abrahamsson; cfr. Peters, A., The many meanings of equality and positive actions in favour of women under Eur. comm. law, in European Law Journal 1996, 2 ss.; Veronelli, M., Le azioni positive nell'ordinamento giuridico comunitario, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2004, 63).
Vero è che difficile sarebbe immaginare una temporaneità, ad es., delle misure di sostegno di coloro che sono “diversamente abili” (cfr. l. 12.3.1999, n. 68, Norme per il diritto al lavoro dei disabili). Ed anche tendenzialmente permanenti sono le misure di sostegno in favore delle minoranze linguistiche le cui “ragioni” si proiettano in tempi e dimensioni “storiche”, oltre i “tempi politici” (cfr. Kimlicka, J., Multicultural citizenship, New York, 1995; cfr. anche l. 15.12.1999, n. 482 - Tutela delle minoranze linguistiche storiche).
La durata di una misura si collega alla sua ragion d’essere. Sembrerebbe, peraltro, che misure che toccano, sia pure in un senso inclusivo, un fattore inerente al soggetto come tale debbano essere “necessarie” allo scopo, nel senso che il medesimo effetto inclusivo non potrebbe, all’evidenza, esser conseguito diversamente e con la medesima efficacia (Cerri, A., L’eguaglianza, cit., 2005, 64). Oltre tale necessità potrebbero, infatti, veicolare un ingiusto privilegio. Verrebbe così a consolidarsi un livello intermedio di controllo di costituzionalità (v. Ragionevolezza delle leggi).
Il nostro ordinamento contempla misure di riequilibrio a compenso di ingiustizie passate (cfr., ad es., d.lgs. 5.5.1946, n. 393 (Rivendicazione dei beni confiscati, sequestrati o comunque tolti ai perseguitati per motivi razziali sotto l'impero del sedicente governo della repubblica sociale); l. 10.3.1955, n. 96 (Provvidenze a favore dei perseguitati politici antifascisti o razziali e dei loro superstiti familiari); l. 15.2.1974, n. 36 (Norme in favore dei lavoratori dipendenti il cui rapporto di lavoro sia stato risolto per motivi sindacali o politici); ed anche misure di riequilibrio a compenso di fattori umani o sociali di svantaggio (art. 51, co. 1, come modificato con l. cost. n. 1 del 2003; 117, co. 7, Cost.; l. 10.4.1991, n. 125 (Azioni positive per la realizzazione della parità uomo-donna nel lavoro); l. 12.3.1999, n. 68, Norme per il diritto al lavoro dei disabili; l.15.12.1999, n. 482, Tutela delle minoranze linguistiche storiche, etc.).
Fonti normative
Art. 3 Costituzione della Repubblica italiana; art. 14 CEDU; art. 157 TFUE; art. 21 Carta di Nizza; 2 direttiva UE 5 luglio 2006, n. 2006/54/CE, recante «Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio riguardante l’attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego (rifusione)»; r. d. l. 20.1.1944, n. 25 (Disposizioni per la reintegra nei diritti civili e politici dei cittadini italiani e stranieri già dichiarati di razza ebraica); l. 10.3.1955, n. 96 (Provvidenze a favore dei perseguitati politici antifascisti o razziali e dei loro superstiti familiari); l. 15.2.1974, n. 36 (Norme in favore dei lavoratori dipendenti il cui rapporto di lavoro sia stato risolto per motivi sindacali o politici); l. 10.4.1991, n. 125 (Azioni positive per la realizzazione della parità uomo-donna nel lavoro); l. 12.3.1999, n. 68 (Norme per il diritto al lavoro dei disabili); l. 15.12.1999, n. 482 (Tutela delle minoranze linguistiche storiche); d.lgs. 9.7.2003, n. 215 (Attuazione direttiva 200/43/CE per la parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall'origine etnica); d.lgs. 31.7.2003, n. 226 (Trasformazione della commissione nazionale per la parità in commissione per la pari opportunità tra uomo e donna a norma dell'art. 13 della l. 6 luglio 2002, n. 137).
Bibliografia essenziale
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