Prima delle regioni
La vocazione storica della cucina italiana non è di tipo regionale. Meglio precisarlo subito, a scanso di equivoci, poichè si è quotidianamente bersagliati da immagini – appunto – ‘regionali’ del patrimonio gastronomico dell’Italia. È questa l’idea prevalente nella percezione comune e nel marketing territoriale. È questo il modello che si riconosce e si vende nel mondo: una cucina regionale, legata al territorio.
Occorre fare attenzione, poiché una questione è parlare di regioni, un’altra è discutere di territorio. I due termini possono coincidere solo se per ‘regione’ si intende una indefinita unità territoriale, un insieme di luoghi e di spazi con qualcosa in comune. Se si considera l’Italia – secondo una definizione del principe di Metternich-Winneburg – come semplice «espressione geografica», le regioni non mancano, anzi rappresentano al meglio l’identità del Paese. Un’identità fondata su una ricchissima ‘biodiversità’ agronomica, gastronomica e culturale che, fin dal Medioevo, ha assunto caratteri ‘nazionali’, poiché ha inscritto le particolarità locali in un disegno comune, in una rete di scambi che, ‘esportando’ i territori, mette in circolazione prodotti e ricette, attivando un’ampia condivisione di saperi, pratiche, gusti. Nel descrivere questo meccanismo, per secoli minoritario sul piano sociale, ma non per questo meno significativo, la chiave decisiva per comprenderlo appare il ruolo centrale delle città, assieme al territorio che esse dominano, controllano e rappresentano: fenomeno tipicamente italiano, che non ha eguali in nessun altro Paese europeo. La città-Stato dell’Italia medievale e rinascimentale (di ampiezza crescente con il passare del tempo, fino ad assumere dimensioni propriamente ‘regionali’) è protagonista della vita politica e luogo strategico di quella culturale, di cui la cucina è parte integrante. Il Paese Italia nasce su queste basi, sulla condivisione di modi di vita, gusti e pratiche quotidiane, più che su riferimenti istituzionali di là da venire. Ma appunto su tali basi il Paese esiste, è presente con assoluta certezza (si direbbe quasi ovvietà) alla mente dei contemporanei, che parlano di ‘Italia’ anche quando la politica utilizza un linguaggio diverso, anche quando ‘Italia’ è un coacervo di realtà amministrative lontane e diverse – mentre il Paese culturale ha una sua specifica e chiarissima identità, si tratti di arte o di letteratura, di musica o di cucina. Italiani sono, e si sentono, i grandi cuochi di corte del 16° o del 17° sec., così come i coevi pittori e architetti. Italiana è la loro cucina, che mette insieme prodotti e ricette, ingredienti e procedimenti provenienti da ogni parte del Paese.
I riferimenti ‘locali’ sono a volte regionali, ma in prevalenza cittadini, perché questa è la dimensione specifica della cultura italiana, nel Centro-Nord soprattutto. Nel Sud prevale un diverso modello, che dà più spazio alla campagna e ai villaggi rurali, occultando le presenze urbane dietro lo schermo della città unica, Napoli capitale, con il suo territorio che virtualmente si estende a tutto il regno. Una dimensione veramente ‘regionale’ esiste solo quando è la geografia a imporla – in Sicilia soprattutto: ‘siciliani’ saranno i maccheroni dei ricettari quattrocenteschi o cinquecenteschi, che si sarebbero potuti dire ‘palermitani’, se la dimensione regionale non avesse avuto la meglio. In quasi tutti gli altri casi, prevarranno attribuzioni cittadine. Il Libro de arte coquinaria di Maestro Martino – il cuoco più importante e celebre dell’Italia quattrocentesca, ricco di una vasta esperienza tra Milano, Roma e Napoli – include ricette «alla romana» e «alla fiorentina», una «torta bolognese», una «torta alla senese» e, in uno dei quattro manoscritti che ci sono pervenuti, un folto gruppo di specialità «genovesi». Numerosi riferimenti a ricette locali (ma ancor più a prodotti) scorrono nelle pagine dell’umanista Bartolomeo Sacchi, detto il Platina, che a Roma conobbe Mestro Martino e ne derivò il sapere gastronomico, innestando le sue ricette in un’opera di più ampia prospettiva, dietetica e filosofica, dedicata al «piacere onesto» e alla «buona salute» (De honesta voluptate et valetudine, 1475). I rimandi geografici sono continui e coprono l’intera penisola: persico del lago Maggiore, sardelle e carpioni del Garda, temolo dell’Adda, galline padovane, cavolo di Verona, olive di Bologna e del Piceno, rombo di Ravenna, lasca del Trasimeno, carote di Viterbo, spigole del Tevere, agoni e roviglioni del lago di Albano, lumache di Rieti, fichi di Tuscolo, uva di Narni, olio di Cassino, arance di Napoli, miele di Taranto, murene dello Stretto, castagne di Milano, di Taranto e di Napoli. Oltre alla Sicilia, ricordata per il miele e lo zucchero, poche altre sono le denominazioni ‘regionali’: tra i cereali si evocano il panìco lombardo e il miglio campano.
Stessi riferimenti, stessa prospettiva si ritrovano – in modo più sistematico e analitico – nell’Opera di M. Bartolomeo Scappi, cuoco secreto di papa Pio V (1570), monumento gastronomico del Cinquecento italiano. La quantità dei riferimenti locali, delle ricette a denominazione geografica cresce in progressione esponenziale, ma il baricentro è sempre urbano. Lunghissima è la lista dei prodotti ‘a denominazione di origine’ citati nelle ricette o nei menù di Scappi, comprendendo pesci di mare e d’acqua dolce, alcuni generi di carne pregiata, specialità di salumeria («mortatelle» ferraresi, «salsiccioni» bolognesi, salsiccia lucchese e modenese, «cervellate» milanesi), formaggi (parmigiano, raviggioli e marzolini toscani, mozzarelle romanesche, caciocavalli napoletani e così via), verdure (cavoli milanesi e bolognesi, zucche genovesi o savonesi e altro), frutta (ciliegie romane e pere fiorentine sono le più frequentemente ricordate), prodotti da forno (biscotti romaneschi e pisani, berlingozzi alla senese, «palmette» napoletane, mostaccioli di Milano e così via) e alcuni cereali (il riso vuol essere di Salerno o di Milano; la semola, «del Regno»). Tutti prodotti destinati a viaggiare, si tratti di animali trasportati vivi dal luogo d’origine, di ortaggi o frutti a maturazione controllata, di latticini semifreschi o di vere e proprie conserve: in ogni caso è il mercato a costituire la trama di fondo della cultura gastronomica, a garantire la circolazione delle risorse, l’interscambio delle identità locali. Che l’esistenza di questo mercato favorisca anche lo scambio di ricette e di usi gastronomici, è del tutto evidente nell’Opera di Scappi, dove sono rappresentate tre Italie principali: la «Lombardia» (cioè l’Italia padana), l’Italia granducale e pontificia, il «Regno» (cioè tutto il Sud, con la Sicilia). Tre città riassumono la cultura gastronomica delle tre aree: Milano (molte ricette «alla lombarda» sono chiamate, indifferentemente, «alla milanese»), Roma, Napoli (anche in questo caso, «napoletano» o «del Regno» sono diciture interscambiabili). Ma un ruolo significativo spetta anche a Venezia, di cui Scappi conosce perfettamente, per personale esperienza, il mercato e la cucina. Diversi comprimari (Firenze, Genova, Bologna e una miriade di città ‘minori’) completano il quadro di un’Italia politicamente frammentata, ma culturalmente coesa, di cui Scappi rappresenta le differenze e anche – attraverso un gioco continuo di confronti – le convergenze. Per es., quando parla delle torte salate ripiene (i pasticci o pastelli di tradizione medievale, un genere di grande fortuna nella gastronomia italiana dell’epoca) presenta molteplici varianti, alcune delle quali ‘collocate’ sul territorio: all’uso di Milano, di Genova, di Bologna, di Napoli. Le differenze stanno negli ingredienti, nei condimenti, nella presenza o meno delle uova, nella forma (più alta la milanese, più bassa la bolognese, mentre la «torta» napoletana si caratterizza per essere aperta anziché chiusa, supporto anziché involucro, ed è «da napoletani detta pizza»). Non c’è, non esiste una torta italiana: italiana è la torta come ‘genere’; italiana è la rete di consuetudini, saperi, gusti che di volta in volta qualificano concretamente, e diversamente, l’oggetto comune. La metodologia, per così dire, antologica di Scappi, che mette insieme esperienze diverse, comparando le pratiche gastronomiche del Nord e del Sud, dell’Est e dell’Ovest (a proposito dei pesci, ripetutamente distingue fra gli usi dell’Adriatico e quelli del Tirreno), è esemplare e rivelatrice. Non si tratta di stilare giudizi o gerarchie, di scegliere o di rifiutare, ma semplicemente di conoscere e mettere a confronto.
L’Italia di Scappi è un’Italia cittadina, che da Milano e Venezia, attraverso Genova, Bologna e Firenze, arriva a Roma e a Napoli. Città che a loro volta riassumono il senso di una regione: la dimensione regionale dunque esiste, ma con il filtro della città ‘capitale’. Con qualche difficoltà, questa Italia arriva a lambire i territori del Sud e le isole maggiori. Non raggiunge invece – ed è qui che si coglie il senso anche politico della ‘rete’ culturale – il Piemonte sabaudo, che rimarrà a lungo marginale rispetto allo spazio gastronomico italiano, almeno fino a quando i duchi di Savoia non decideranno di trasferire la loro capitale al di qua delle Alpi, da Chambéry a Torino (1563). Di lì a poco, i savoiardi diventeranno di moda sulle tavole italiane, preferibilmente inzuppati in un vino dolce liquoroso, come mostra l’arte figurativa del 17° e del 18° secolo.
Fino al 19° sec. sarà questa la cifra peculiare della cultura gastronomica italiana, sospesa fra i due estremi del locale e del nazionale, con una eventuale dimensione intermedia – regionale – intesa, sostanzialmente, come ‘estensione’ al territorio della realtà cittadina (o se si vuole rovesciare la prospettiva, come catalizzazione urbana della realtà territoriale). A poco a poco, tuttavia, la stagione dei ricettari ‘nazionali’ (quello di Scappi ne è il più esemplificativo) pare esaurirsi, mentre si accentua la diversità regionale dei ricettari, o ancor meglio, la loro ‘collocazione’ territoriale. Questo cambiamento di prospettiva emerge soprattutto nella trattatistica di produzione napoletana, attraverso la quale, per la prima volta, si definisce un quadro compiuto del patrimonio gastronomico del Sud. Autori come Giovan Battista Crisci, che nel 1634 pubblica a Napoli la Lucerna de corteggiani, ampia raccolta di menù per i vari periodi dell’anno, o Antonio Latini, autore dello Scalco alla moderna, overo l’arte di ben disporre li conviti, due volumi pubblicati anch’essi a Napoli negli anni 1692-94, sono particolarmente attenti a comunicare la loro ‘appartenenza’ culturale e territoriale, a restringere, in qualche modo, l’angolo visuale al regno anziché alla penisola. La Lucerna de corteggiani è il primo vero repertorio di prodotti e specialità del Centro-Sud, e ciò che soprattutto colpisce è la connotazione prevalentemente non urbana della produzione e del mercato alimentare, riferiti a piccoli paesi o alle «campagne» o alle «coste»: è l’esito di una storia iniziata nel Medioevo, che vide sacrificate le autonomie cittadine al potere regio e baronale, orientandosi in modo strutturalmente diverso rispetto all’Italia comunale e cittadina del Centro-Nord. Non c’è una rete di città a sintetizzare (fin nella denominazione) la cultura gastronomica del territorio del regno, le «provole fresche di campagna d’Evoli» o i numerosi frutti «della costa di Posillipo». C’è solo la splendida capitale, Napoli, ma non si tratta evidentemente della stessa cosa.
Altro repertorio di specialità del Sud – non però distribuite, come nel testo di Crisci, fra i molteplici suggerimenti per la composizione dei menù, bensì organizzate in un elenco sistematico – si trova nel già citato Scalco alla moderna, il cui primo volume (1692) è suggellato da una Breve descrizione del Regno di Napoli che illustra, con riferimenti tratti da «diversi autori», ma soprattutto «dall’uso, e dall’isperienza», le «cose comestibili di frutti, e d’altro, che si producono specialmente, e di rara qualità, in diversi luoghi del medesimo Regno». Una per una vengono prese in esame le 12 province che lo costituiscono.
Tra il Settecento e l’Ottocento, l’attenzione ai prodotti e alle ricette locali assume un carattere nuovo. A differenza dei secoli precedenti, essa punta non più solo a scegliere il meglio di ogni territorio (a seconda della capacità economica e dell’ampiezza d’azione concessa a ciascuno) per raccogliere tutto insieme sulla propria tavola, ma anche a valorizzare i contesti locali, cioè il ‘sistema’ che, a livello locale, tiene strutturalmente collegati gli elementi che contribuiscono a formare il patrimonio agroalimentare locale: prodotti, saperi, tecniche, ricette. Dalla seconda metà del Settecento, ma in misura cospicua solo nell’Ottocento, per la prima volta appaiono sul mercato editoriale ricettari che alludono fin dal titolo (evidentemente ritenuto attraente sul piano commerciale) a una realtà locale. Innanzitutto cittadina, secondo il modello che si è già evidenziato. Fino all’Unità d’Italia, solo un paio di ricettari settecenteschi evoca una realtà di dimensione ‘regionale’ come quella piemontese – ma questa è una prospettiva storica attuale. Per chi scriveva nel 18° sec., il riferimento era piuttosto ‘nazionale’: la realtà rappresentata da Il cuoco piemontese perfezionato a Parigi (1766) non è che il Regno dei Savoia, allora di recente formazione, e alla ricerca di una legittimazione in campo europeo. Salvo queste eccezioni, i riferimenti ‘cittadini’ sono quelli che tornano più spesso nei manuali di cucina: Il cuoco maceratese (1779) di Antonio Nebbia, La cuoca cremonese (1794) di autore anonimo, Nuovo cuoco milanese economico (1829) di Giovanni Felice Luraschi, Il cuoco bolognese (1857) di autore anonimo, La cuciniera genovese (1863) di Giovanni Battista Ratto ne sono solo alcuni esempi. Addirittura si troverà, nella seconda edizione della Cucina teorico-pratica (1839) di Ippolito Cavalcanti, una gustosa appendice in dialetto napoletano.
Titoli come questi evidenziano la profondità del cambiamento in atto. Fino a quel momento, ricette e prodotti locali erano stati assunti all’interno di un quadro ampio, nazionale e tendenzialmente universale, nella misura in cui le ricette locali italiane si affiancavano ad analoghe citazioni da cucine altre: francese, tedesca, spagnola, polacca, ungherese e così via. Il quadro di riferimento era una cucina intercittadina, interregionale, internazionale, che costituisse un modello socialmente – non territorialmente – definito. L’alta cucina, la cucina delle corti e dell’alta borghesia trovava il suo segno d’identità appunto nel superamento della dimensione territoriale – di cui evidentemente si presupponeva la conoscenza. Riunire sulla propria tavola (a Napoli o a Mantova, a Venezia o a Roma) prodotti e ricette provenienti da ogni luogo era un modo per ostentare ricchezza e sapere. Il prestigio di una tavola non comune risiedeva nel suo distacco dal territorio, e proprio questo spiega – non paradossalmente – perché si fosse così attenti a denominare la provenienza di prodotti e ricette. Perché ogni denominazione geografica ha motivo di esistere solamente quando il prodotto o la ricetta escono dal loro luogo di origine. La quantità di denominazioni presente nella documentazione storica italiana, da un lato, attesta lo straordinario radicamento locale della cultura gastronomica, dall’altro, il suo opposto, cioè l’ampia circolazione (sia pure all’interno di gruppi elitari) di questa cultura. In tale prospettiva, lo scopo non è mai valorizzare le differenze, ma raccoglierle tutte insieme annullando la dimensione ‘locale’ che immediatamente rimanda a un modello di consumo di stampo rurale.
Nel 19° sec. la valorizzazione delle cucine locali in sé (almeno apparente e programmatica, mentre sui contenuti ci sarebbe molto da eccepire) è il segno di una vera e propria mutazione culturale e di una nuova attenzione alla regionalità (declinata in molti casi nel senso tipicamente italiano dell’appartenenza cittadina) intesa, questa volta, in modo positivo. Il cuoco «bolognese» o «milanese», «genovese» o «maceratese» evocato dai titoli dei nuovi ricettari è l’espressione più efficace di questo cambiamento di prospettiva. Ciò accade, non a caso, proprio nel momento in cui prende forma anche sul piano politico un progetto di unità nazionale. Perché a quel punto il Paese si guarda dentro e fa spazio alle diversità locali, assumendole come elemento costitutivo del processo unitario. Anche al di fuori dell’Italia si verifica lo stesso fenomeno: le ‘cucine regionali’ francesi nascono (si costruiscono) in parallelo con il costituirsi dello Stato-nazione. Il corpo, per vivere, ha bisogno di tutti i suoi organi e, nell’Italia ottocentesca, il corpo culturale (che esiste da secoli) vuole diventare anche corpo politico. Condividere i frammenti di culture locali non basta più; ora sono necessarie regioni – luoghi, geografie – con una propria personalità.
Si consideri, inoltre, che un’evoluzione simile non sarebbe stata possibile senza la rivoluzione ideologica che nella seconda metà del Settecento diffuse l’idea, completamente nuova, che ‘gli uomini sono tutti uguali’. Tutti uguali? Si stentava a crederlo, ma almeno bisognava ammettere di pensarlo. Così, diventava possibile transitare da un’idea del cibo come collante sociale (a ogni classe il suo cibo) a quella del cibo come collante territoriale (necessariamente opposta alla prima, giacché sul territorio, bene o male, vivono tutti, ricchi e poveri, contadini e cittadini). Valorizzare il territorio – la città, la regione – come unità significativa della cultura alimentare presupponeva la rivoluzione del pensiero ‘liberale’ legata al trionfo dell’industria e della cultura borghese. Senza questa premessa ideologica, non si sarebbe potuto ammettere che le differenze fra i luoghi erano più importanti di quelle fra le persone.
Con l’Unità d’Italia si costituiscono le regioni e con esse nasce l’idea di una ‘cucina regionale’ che un po’ forzosamente viene a coincidere non più con reali diversità geografiche e ambientali, ma con le nuove realtà amministrative. Non c’è gran traccia di regioni in La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene (1891) di Pellegrino Artusi, monumento della cucina italiana moderna, pensato in funzione dell’unità nazionale secondo modalità assolutamente tradizionali: mettere in condivisione le culture locali, raccoglierle e ‘raccontarle’ perché ciascuno, ovunque nel Paese, possa servirsene a sua scelta e piacimento. Un metodo del tutto analogo a quello dei ricettari di corte medievali o rinascimentali, salvo che Artusi ha di fronte un pubblico diverso, quello della piccola e media borghesia dell’Italia risorgimentale. Quindi ricette torinesi o palermitane, bolognesi o veneziane o genovesi o romane, in un’ottica rispettosa dell’autentica identità cittadina della cucina italiana; ricette che non presumono di inserirsi in un ‘sistema’ regionale (e neppure cittadino), perché offerte in conoscenza a tutti, per favorire l’amalgama culturale della nazione.
Mentre il progetto di Artusi si precisa e si amplia (fino al 1911, anno di morte dell’autore, usciranno 15 diverse edizioni di La scienza in cucina e l’arte di mangiare bene, con successivi ampliamenti e aggiustamenti) si palesa l’altra faccia della medaglia, il desiderio di ‘fissare’ la realtà gastronomica locale, censirla, catalogarla, farne sistema. Un pioniere in questo senso è il medico e giornalista Alberto Cougnet, che, in occasione dell’Esposizione di Torino del 1904, elabora una Geografia gastronomica e potatoria d’Italia, e l’anno successivo include nel suo Il ventre dei popoli (sorta di viaggio gastronomico nei cinque continenti: Saggi di cucine etniche e nazionali, recita il sottotitolo) un lungo capitolo sulla cucina italiana, sorretto dalla certezza che «esista in ogni regione d’Italia una cucina regionale», una «esuberante varietà di cucina che dalla punta della Sicilia va estendendosi sino alla Liguria e al Piemonte», segno che, «nell’arte culinaria, il campanilismo regionale impera tuttora» (p. 488). Il quale tuttora – osserva Piero Meldini – lascia intendere «un’origine remota delle cucine locali», vale a dire l’idea, storicamente infondata, che questa autentica ‘invenzione’ della modernità sia il retaggio di una tradizione antica, la cui eventuale modestia e limitatezza potrà spiegarsi non già con la sua recente formazione, ossia con l’incompiutezza di un processo in fieri, di una progressiva e feconda contaminazione tra cucina popolare, rielaborazione borghese e tradizione aristocratica, «ma, al contrario, con la dispersione e il dissanguamento di un plurisecolare, se non millenario, capitale» (1997, pp. 662-63). Insomma un rovesciamento di prospettiva e di paradigma, che resterà saldissimo nella percezione comune.
Del resto, è facile accorgersi che nelle pagine di Cougnet questo presunto ‘regionalismo’ è (e non potrebbe non essere) puramente formale: la ricca e particolareggiata descrizione del patrimonio gastronomico italiano è suddivisa in regioni, ma in realtà si tratta di un semplice accumulo di ricette e specialità locali, riferite a singole città o territori rurali. Il quadro che ne esce, quello di una gastronomia localmente differenziata e articolata, è perfettamente corretto e in linea con la più schietta tradizione del Paese; gratuita appare invece la scelta di costringere questa realtà entro i confini prestabiliti delle unità regionali. Negli stessi anni esce La nuova cucina delle specialità regionali (1909) di Vittorio Agnetti, il primo ricettario italiano che classifica i piatti secondo una prospettiva regionale. In seguito sarà la retorica nazional-popolare del fascismo a enfatizzare i motivi del ruralismo e del regionalismo, paradossale pendant di uno statalismo radicale che portava alle estreme conseguenze la centralizzazione amministrativa dello Stato unitario.
Proprio la suddivisione regionale è assunta a base del primo progetto sistematico di inventariazione del patrimonio alimentare italiano. L’idea è lanciata nel 1928 durante una riunione del Rotary Club di Milano, alla presenza di Arturo Marescalchi (1869-1955), sottosegretario di Stato al Ministero dell’Agricoltura e Foreste. Sarà il Touring club italiano (TCI) a realizzare (tramite un’inchiesta affidata alle delegazioni locali) e a pubblicare la Guida gastronomica d’Italia (1931), che suddivide prodotti e ricette secondo l’appartenenza regionale e, al suo interno, provinciale. Si conferma in tal modo l’ambiguità, destinata a durare, fra ‘regioni’ intese come ripartizioni amministrative dello Stato e ‘regioni’ in quanto unità culturali, di natura storica e geografica. Classificare ricette e prodotti entro i confini convenzionali delle regioni amministrative è un’evidente forzatura, che corrisponde solo in parte alla realtà storico-culturale, creando legami artificiosi là dove mancano, spezzandoli là dove esistono. L’anno stesso in cui esce la Guida gastronomica d’Italia, un manifesto commissionato al pittore Umberto Zimelli dall’Ente nazionale italiano per il turismo (ENIT), destinato a propagandare presso gli stranieri le specialità gastronomiche dell’Italia, contrassegna ogni regione con un cartiglio segnalandone piatti e prodotti. Questa carta dell’«Italia gastro-fascista» (la definizione è di Alberto Capatti), non priva di un suo «irredentismo gustativo» (Capatti, in Storia d’Italia, 1998, pp. 789-90) negli sconfinamenti territoriali verso Nizza, l’Istria e la Dalmazia, è interessante perché, a differenza delle contemporanee carte francesi, organizzate attorno al mercato della capitale, «manca di un centro verso cui affluiscano tutti i prodotti» (p. 756). Essa conferma pertanto la dimensione decentralizzata del patrimonio culturale italiano. La stessa Guida gastronomica italiana del TCI è frutto – scrive ancora Capatti – di «una rilevazione tanto capillare da rendere impossibile qualsiasi sintesi» (p. 756). La cultura gastronomica italiana vi appare topograficamente polverizzata, irriducibile a tradursi in spazi politicamente determinati come quelli delle province o delle regioni.
La ‘cucina delle regioni’ da allora in poi entra nella cultura nazionale, fino a diventare un luogo comune del linguaggio gastronomico, un modo nuovo di rappresentare gli italiani a tavola. Anche la letteratura popolare la prende a paradigma del reale: nel 1936 esce per i tipi di Sonzogno un Almanacco della cucina regionale italiana. 1937-XV, curato da Ada Bonfiglio Krassich. Esce – ed è peculiare – come supplemento annuale del mensile «Rivista delle famiglie»: la regione è il territorio, è la famiglia, è la casa. È la sana e operosa Italia a cui il regime ama rivolgersi. L’immagine risponde a una duplice esigenza, politica e turistico-commerciale, mentre un’ottica più propriamente culturale farebbe preferire immagini più rispondenti alla realtà, termini come cucina locale, territoriale, cittadina, magari provinciale (una dimensione sicuramente più tagliata sulla nostra tradizione storica). Da queste realtà si passerà immediatamente alla cucina nazionale, cioè alla condivisione in rete costruita dal mercato dei prodotti e delle idee. La dimensione intermedia della ‘regione’ ingabbia la realtà storica entro confini artificiali, creando ambiguità, equivoci, fraintendimenti. Ma si colloca in una linea vincente, perché più semplice da gestire e più facile da comunicare. La sovrapposizione della politica alla cultura trasforma l’immagine della cucina italiana, conferendo arbitrarie identità ‘regionali’ alla straordinaria ricchezza dei contenuti che la contraddistinguono. Il mosaico delle cucine locali, rurali e cittadine viene accorpato in unità ‘regionali’ che funzionano perfettamente sul piano commerciale, assai meno se si guarda alla storia, alla geografia e all’influenza culturale da esse esercitata sul territorio. Cercare attualmente in Internet con un motore di ricerca la locuzione «cucina regionale italiana» significa confrontarsi con oltre un milione di siti che trattano il tema gastronomico in questa prospettiva, dandola per scontata.
Questa immagine della cucina italiana è stata anche esportata, e all’estero riplasmata e rafforzata, con il concorso dell’industria alimentare. I supermercati dell’America del Nord, negli scaffali dedicati alla cucina italiana, ne offrono un modello schematicamente ‘regionale’: formati e ricette di pasta, o sughi per condirla, sono definiti (con grande fantasia) lombardi, veneti, emiliani, toscani, abruzzesi, pugliesi, siciliani e così via, e tutto ciò basta a rappresentare la ricchezza gastronomica, a evocare la diversità di tradizioni locali che da sempre si collega all’idea di Italia. Una bandierina bianco-rosso-verde, nell’angolo o in bella vista sulla confezione, rassicura l’acquirente che il prodotto è conforme a ciò che dall’Italia ci si aspetta: sapori buoni e genuini, legame con il territorio, regionalismo. La profonda ambiguità di queste immagini – trasmesse da piccole aziende, da industrie multinazionali, da colossi della distribuzione alimentare – non ha neppure bisogno di essere sottolineata. Preme invece ribadire come il paravento delle regioni rischi di occultare i caratteri veramente identitari della cucina italiana, la sua natura assolutamente locale e, al tempo stesso, profondamente nazionale. Salvo che, dopo decenni di attività amministrativa, la stessa esistenza dell’ente Regione ha finito per promuovere o per produrre realtà in parte nuove, che configurano una diversa geografia e una differente percezione delle culture alimentari. Non è difficile prevedere che nel giro di una generazione si affermeranno veramente in Italia cucine regionali, costruite con l’aiuto del marketing territoriale, degli uffici di promozione turistica, dei consorzi e degli enti territoriali, delle forme di collaborazione e delle sinergie che si intrecciano a livello regionale fra tutti coloro che si occupano di cibo in una o nell’altra fase della cosiddetta filiera, dalla terra alla tavola, dai disciplinari di produzione alle ricette di cucina. ‘L’Italia è fatta, ora facciamo le regioni’.
P. Meldini, L’emergere delle cucine regionali: l’Italia, in Storia dell’alimentazione, a cura di J.-L. Flandrin, M. Montanari, Roma-Bari 1997, pp. 658-64.
Storia d’Italia, coord. R. Romano, C. Vivanti, Annali, 13° vol., L’alimentazione, a cura di A. Capatti, A. De Bernardi, A. Varni, Torino 1998 (in partic. A. Capatti, Lingua, regioni e gastronomia dall’Unità alla seconda guerra mondiale, pp. 753-801; V. Teti, Le culture alimentari nel Mezzogiorno continentale in età contemporanea, pp. 63-165).
A. Capatti, M. Montanari, La cucina italiana. Storia di una cultura, Roma-Bari 1999.
A. Capatti, Il Buon Paese, introduzione a Guida gastronomica d’Italia (rist. anast. 1931), Milano 2003, pp. 6-31.
M. Montanari, Il cibo come cultura, Roma-Bari 2004.
M. Montanari, L’identità italiana in cucina, Roma-Bari 2010.
A. Capatti, L’Italie ou la cohérence de l’effritement, in Manger en Europe. Patrimoines, échanges, identités, éd. A. Campanini, P. Scholliers, J.-P. Williot, Bruxelles 2011, pp. 221-37.