PORTA
Il mondo antico lasciò in eredità al Medioevo un numero di p. artisticamente lavorate molto superiore all'esigua quantità degli esemplari oggi superstiti. Si doveva trattare di battenti di edifici civili, templi e residenze, realizzati in bronzo, in legno o con la combinazione di materiali diversi, provvisti di semplici partiture architettoniche, di decorazioni vegetali o animali, oppure ricoperti di veri e propri cicli figurati.Di quest'ampia gamma di soluzioni tipologiche si trova conferma sia nelle testimonianze iconografiche sia in quelle letterarie. Sono significative in questo senso soprattutto le frequenti riproduzioni di p. in pitture parietali, bassorilievi funerari e frontali di sarcofago o le stesse p. scolpite in pietra delle tombe (Białostocki, 1973; Haarlov, 1977; Vlad Borrelli, 1990a). Esse documentano con chiarezza l'esistenza di due grandi classi di manufatti: le p. a specchiature lisce e cornici modanate, in genere arricchite solo dalle protomi aggettanti delle maniglie, e quelle provviste di un corredo figurato, con geni e imagines clipeatae posti entro una compagine ornamentale che certamente riflette modelli reali, d'uso non solo sepolcrale. Rientrano in questa categoria i sontuosi pezzi polimaterici menzionati dalle fonti letterarie, a partire dall'epos omerico, che narra di imposte in bronzo, argento e oro nella reggia di Alcinoo (Od., VII, vv. 88-92), per arrivare ai battenti in oro, avorio e bronzo descritti da Virgilio nelle Georgiche (III, vv. 26-33), ai quali l'autore attribuisce - forse non solo per puro espediente poetico - una serie di scene narrative. La fragilità di alcuni dei materiali impiegati (legno, osso), la spoliazione di quelli più preziosi (avorio, argento, oro) o, più frequentemente, la possibilità di un facile riuso dei metalli (bronzo, ottone) hanno determinato purtroppo la quasi completa scomparsa delle p. prodotte in età classica. Sono fortunosamente scampati a questo 'naufragio' solo alcuni esemplari di epoca imperiale, collocati all'interno di edifici passati al culto cristiano oppure riutilizzati - in tutto o in parte - all'interno di chiese. È questo il caso, a Roma, dei monumentali battenti bronzei del Pantheon adrianeo, rimasti a chiudere il tempio trasformato nel 609 nella chiesa di S. Maria ad Martyres; della p. del c.d. tempio di Romolo, un pezzo di età severiana montato alla soglia della rotonda che divenne l'atrio dei Ss. Cosma e Damiano; o ancora delle valve a girali d'acanto della curia senatus (sec. 1° d.C.), che durante il Medioevo funsero da p. alla chiesa di S. Adriano nel Foro, fin quando, in età barocca, non furono trasferite all'ingresso principale di S. Giovanni in Laterano (1660).
Fin dal principio del sec. 4°, accanto alla frequente pratica del riuso dei battenti antichi, si ebbe anche una produzione originale di p. di bronzo (v.). Ne dà conferma una fonte autorevole, Eusebio di Cesarea (Hist. eccl., X, IV, 41), che nel discorso d'inaugurazione della basilica di Tiro in Fenicia (316-319 ca.) descrive una grande p. d'ingresso "adornata di piastre di bronzo [...] con cesellature varie in bassorilievo" (Mango, 1972, p. 5). Di fatto, però, la quasi totalità delle opere di questo genere è andata perduta: i primi esemplari paleocristiani superstiti non sono in metallo, bensì in legno, e rientrano nella classe dei battenti figurati. Con i loro soggetti, tratti principalmente dal Vecchio e Nuovo Testamento, essi costituiscono un documento di eccezionale rilievo storico, sia perché offrono una delle più precoci attestazioni di narrazione ciclica dell'arte cristiana sia perché, tipologicamente, sono i capostipiti della lunghissima genealogia delle p. istoriate medievali. La concentrazione di messaggi affidata alle p. e il loro altissimo potenziale visuale - superiore a quello del restante arredo ecclesiastico - non si spiegano solo alla luce del valore sacrale tradizionalmente attribuito alla soglia dello spazio di culto. Questi caratteri trovano la loro giustificazione più profonda nelle Scritture, in particolare in un passo (Gv. 10, 9), nel quale Cristo applica a se stesso la metafora della p.: "Io sono la porta [...] se uno entra attraverso di me, sarà salvo".I primi e più significativi esemplari di battenti lignei, databili tra la fine del sec. 4° e il principio del 5°, vanno individuati nelle p. di S. Ambrogio a Milano, di S. Barbara nella Città Vecchia del Cairo (Coptic Mus.) e di S. Sabina a Roma. La prima, un tempo collocata nella basilica ambrosiana dei Ss. Gervasio e Protasio (379-386), è oggi un vero e proprio puzzle, assemblato nel restauro del 1750 combinando parti nuove con altre originali, ma reintegrate, insieme a brani ornamentali tolti dal rivestimento del retro se non addirittura pertinenti a un intervento di restauro altomedievale (Reinhard Felice, 1990; Melucco Vaccaro, 1992). La p. tardoantica, forse già ridotta nelle dimensioni in età romanica, era certamente più grande dell'attuale e aveva per tema il ciclo veterotestamentario di Davide, sviluppato su almeno dieci riquadri. Il programma ambrosiano si può ricostruire ricongiungendo le scene superstiti ancora in situ con due pannelli narrativi simili conservati nel Mus. Sacro di S. Ambrogio - forse scartati nel rimontaggio - e altre sei composizioni di analogo formato riprodotte in due disegni anteriori al restauro settecentesco (Mroczko, 1982). I frammenti autentici, spiccatamente classicheggianti, mostrano puntuali rispondenze con lo stile dei sarcofagi teodosiani del tardo sec. 4°, cronologia con la quale sembra collimare anche la tematica del ciclo. Le vicende di Davide furono infatti assai care agli scritti di Ambrogio e si presterebbero a essere interpretate in chiave di attualità biografica, con diretto riferimento ai movimentati rapporti intercorsi tra il vescovo e l'imperatore Teodosio I, allora residente a Milano (Cecchelli, 1990).Senz'altro più cospicua è l'entità delle parti originarie conservate nella p. di S. Barbara al Cairo (sec. 4°-5°), gravemente danneggiata in tutta la metà inferiore. In modo non dissimile dall'esemplare di S. Ambrogio, anche qui le due valve alternano due grandi pannelli quasi quadrati a fregi orizzontali. Il verso è occupato invece da una splendida decorazione aniconica a girali abitati fuoriuscenti da vasi, rigorosamente scompartita a fasce rettilinee, che formano, al centro di ciascuna anta, una grande croce vegetale. Nonostante l'incerta leggibilità, nella parte anteriore si possono riconoscere in alto due scene teofaniche, ciascuna affiancata da coppie di figure: forse gli evangelisti. I due personaggi in trono nelle specchiature sottostanti potrebbero essere invece Cristo, a sinistra, e S. Pietro o S. Marco, a destra: il Maestro en pendant con un suo vicario (s. Marco fu infatti il primo vescovo di Alessandria e il fondatore della chiesa egiziana). Ancora sul tema della regalità divina sembra insistere il pannello in basso a sinistra con Cristo in mandorla fra gli apostoli, mentre in quello simmetrico a destra sono state riconosciute o la Vergine fra gli apostoli o una scena di Traditio. Il filo conduttore della decorazione è stato individuato nella complessa tematica del Cristo-Logos e della trasmissione della sua dottrina, il cui contesto storico-culturale più persuasivo potrebbe essere, a cavallo tra i secc. 4° e 5°, quello compreso tra gli esiti della crisi ariana e l'insorgere della nuova controversia nestoriana (Cecchelli, 1990).Ancor più monumentale di quella milanese è la p. di S. Sabina a Roma (431-433), in legno di cipresso, risalente agli anni della costruzione della basilica sotto il pontificato di Celestino I (422-432) e Sisto III (432-440). Composta in origine di ventotto formelle rettangolari di alterne dimensioni disposte su sette file (ne restano diciotto), è provvista di una doppia incorniciatura, di cui quella esterna realizzata a traforo, con foglie di vite e grappoli d'uva aggettanti. È opinione concorde che siano qui all'opera due artisti differenti, di cui il primo si distingue per le proporzioni eleganti e un comporre arioso e pittorico, il secondo per le figure corte e vigorose ordinate paratatticamente in scene spesso scandite in registri sovrapposti. Il rovescio presenta una partizione speculare a quella anteriore, con pannelli a motivi geometrici e vegetali, che - come in parte è accaduto a quelli figurati - sono stati pesantemente restaurati nel corso dell'Ottocento. L'ordinamento delle scene narrative è stato più volte sovvertito, ma si possono raggruppare cinque scene veterotestamentarie con episodi del ciclo di Mosè, Elia e Abacuc, dodici scene cristologiche culminanti in un'enigmatica Maiestas e un ultimo riquadro - forse extra-biblico - che ha per sfondo una chiesa, con un angelo e un personaggio clamidato, in cui si è proposto di riconoscere Pietro d'Illiria, il fondatore della basilica (Jeremias, 1980). Il programma - che a differenza di quello di S. Ambrogio è scandito in una doppia sezione vetero e neotestamentaria, con l'aggiunta di scene escatologiche (Spieser, 1991) - sembra travalicare il livello della pura e semplice concordantia, anche se restano ancora oscuri il significato di alcuni episodi e il criterio ultimo della loro selezione. In via ipotetica, si è proposto di leggere il ciclo di S. Sabina sulla falsariga del dogma delle due nature di Cristo, collegandolo agli esiti del concilio di Efeso del 431 e, più direttamente, alla politica artistica di Sisto III (Cecchelli, 1990). In questo gruppo di esemplari lignei paleocristiani si possono far rientrare anche due p. di epoca più tarda (sec. 6°), entrambe di produzione orientale: una nel monastero di S. Caterina sul monte Sinai, l'altra già a Deir Mar-Elyan a Qaryatayn in Siria (Damasco, Mus. Nat.; Berlino, Mus. für spätantike und byzantinische Kunst). Si tratta tuttavia di pezzi completamente aniconici, spartiti in pannelli rettangolari riccamente decorati con animali e girali fuoriuscenti da vasi. Tra le due è di speciale interesse la prima, realizzata in legno di cipresso, che fa parte integrante dell'arredo giustinianeo della basilica della Theotokos (548-565). Priva di espliciti elementi cristiani, essa sviluppa, soprattutto con i pavoni e gli altri uccelli affrontati a vasi e steli vegetali, una tematica di significato salvifico e paradisiaco.Nel settore assai lacunoso della produzione metallica, una rara eccezione è rappresentata, nel sec. 5°, dai battenti dell'oratorio di S. Giovanni Battista nel battistero lateranense a Roma, gli unici conservati di una coppia di p. gemelle commissionate da papa Ilaro (461-468; Iacobini, 1990). Le ante, spartite ciascuna in due pannelli rettangolari pieni, lisci in basso e decorati a pelte in alto, costituiscono l'esemplare più antico di una p. bronzea decorata ad agemina, con una precedenza di molti secoli rispetto al celebre gruppo delle p. mediobizantine. Sebbene offuscate, le iscrizioni in rame e soprattutto le crocette d'argento inserite nel fondo delle pelte, giocando sul contrasto cromatico dei metalli, conferiscono alla p. una veste preziosa. A parte questo isolato esempio occidentale, bisogna attendere il sec. 6° per imbattersi, in Oriente, nel primo cospicuo gruppo di p. metalliche superstiti, quelle della Santa Sofia di Costantinopoli (532-537), fuse non propriamente in bronzo, ma in ottone, la lega color giallo brillante chiamata in antico oricalco. Esse costituiscono un unicum nella categoria a cui appartengono, sia per la novità della loro concezione decorativa sia perché rientrano perfettamente in quella sorta di Gesamtkunstwerk che è la chiesa giustinianea. Le tre p. centrali che immettono dall'atrio al nartece sono campite con croci sotto cibori e croci fogliate fuoriuscenti da kántharoi. Il loro disegno generale è di un assoluto rigore aniconico, che si scioglie solo nella raffinatezza degli intarsi zoomorfi in rame praticati sulla superficie dorata. Della serie di nove p. che immettevano dal nartece alla chiesa, nessuna purtroppo è sopravvissuta, ma un disegno settecentesco documenta che i battenti subito a lato della p. imperiale dovevano essere decorati con patere e croci e spartiti in pannelli quadrati e rettangolari, secondo uno schema non dissimile da quello della p. che oggi chiude il passaggio al vestibolo sud-ovest (C. Bertelli, 1990). Nella suppellettile dell'edificio di Giustiniano rientrano anche due false p. in marmo di Proconneso, collocate nella galleria meridionale e forse ancora nella loro posizione originaria, come divisorio all'interno di una zona riservata alla corte imperiale. Esse sono spartite ognuna in due valve, a loro volta contenenti cinque pannelli a rilievo, e recano scolpite persino borchie, maniglie e serrature, tanto da potersi considerare copia fedele di coevi esemplari in legno o in metallo. Purtroppo in epoca turca le formelle furono scalpellate, tranne le tre inferiori di un battente, decorate a motivi aniconici, con pesci, panieri e fronde. Che i restanti riquadri in origine potessero contenere anche scene narrative si deduce da un'altra falsa p. coeva e quasi identica, murata all'ingresso sinistro del naós nella chiesa costantinopolitana del S. Salvatore di Chora (Kariye Cami). Infatti, benché danneggiata, reca ancora leggibili i contorni di figure appartenenti a un vero e proprio ciclo cristologico, dalla Natività all'Ascensione (Hjort, 1979). Se ne deduce dunque che, come in Occidente, anche in Oriente dovevano esistere in quest'epoca vere p. in legno o in metallo decorate da cicli testamentari. Questa ipotesi trova conferma anche in una fonte letteraria coeva, l'epistola del vescovo Ipazio di Efeso (531-540 ca.) al suo suffraganeo Giuliano di Atramizio, in cui è riportata l'opinione di quest'ultimo in merito all'impiego della scultura nelle chiese: "noi consentiamo che vi siano dipinti venerabili nei santuari, ma nello stesso tempo proibiamo frequentemente la scultura in legno o in pietra, poiché non la consideriamo senza peccato, fuorché sulle porte" (Sýmmikta zetémata, 1, 5; Mango, 1972, pp. 116-117; Hjort, 1995). Sempre a un intervento di età giustinianea si possono ricondurre le due valve bronzee lavorate a traforo poste alle due entrate della grotta nella chiesa della Natività a Betlemme. Sebbene messe in opera separatamente, esse formavano in origine un'unica p., che nel sec. 6° chiudeva la recinzione posta attorno all'altare maggiore (Jacoby, 1990). Come attesta lo stile dei portali marmorei che li inquadrano, i battenti furono collocati dove oggi si trovano solo durante i lavori promossi nella basilica al tempo di Manuele Comneno e di Amalrico re di Gerusalemme, tra il 1165 e il 1169. Il tema decorativo delle p., a intersezione di cerchi contenenti croci greche, trova calzanti raffronti nella scultura e nella metallistica paleobizantina (Jaeger, 1930).Alla Santa Sofia di Costantinopoli e in parte ancora al tempo di Giustiniano è legata la c.d. p. bella, posta all'ingresso del vestibolo sud-ovest. Si tratta di un complicatissimo palinsesto metallico, che incorpora nella sua attuale redazione, che è quella del sec. 9°, i seguenti elementi: a) un'intera p. bronzea classica della seconda metà del sec. 1° d.C., forse di provenienza siriaca; b) una cornice e una serie di fasce ornamentali stilisticamente inquadrabili nella prima metà del sec. 6°; c) alcuni segmenti decorativi del sec. 9°, appartenenti al montaggio finale, cui corrispondono anche i monogrammi in agemina d'argento posti nelle specchiature centrali, con i nomi di Teofilo, Michele e Teodora, datati 841 (Vlad Borrelli, 1990b). A quest'ultima fase dovrebbe appartenere anche l'iscrizione tronca ΜΙΧΑΗΛ ΝΙΚΗΤΩΝ alla sommità dell'anta destra, riferibile forse, più che a una vittoria militare, alla vittoria dell'ortodossia, ristabilita nell'843 dall'imperatrice Teodora, reggente per il figlio Michele III. Questa circostanza renderebbe ragione anche della damnatio di un precedente monogramma presente sulla p., appartenuto al patriarca iconoclasta Giovanni VII (838-839).
Quasi mezzo secolo prima che la p. bella ricevesse a Costantinopoli la sua veste definitiva, aveva avuto luogo in Occidente, nell'ambito della corte di Carlo Magno, uno dei più straordinari e coscienti fenomeni di recupero della tradizione bronzistica antica, nella doppia valenza della veste formale e del messaggio politico legato all'ideologia della renovatio imperii. L'opera chiave di questo nuovo indirizzo è l'arredo metallico della Cappella Palatina di Aquisgrana (800 ca.), che comprende otto parapetti a traforo nel matroneo e una serie di cinque p. bronzee, una delle quali oggi perduta (Fillitz, 1990). Come ha dimostrato il ritrovamento di segmenti sagomati e di parte del forno, i pezzi furono fusi in officine appositamente allestite nell'area della residenza imperiale, forse da artefici di origine lombarda (Braunfels, 1965). La Wolfstür, la più grande, e le tre p. piccole, tutte a due ante, presentano ampie specchiature rettangolari rigorosamente lisce (sedici nella prima, sei nelle altre), impreziosite solo dalle raffinate cornici modanate all'antica e dalle maschere leonine delle maniglie: unici elementi, questi, che aggettano plasticamente, potenziando la valenza estetica dei campi vuoti. I singoli battenti, che furono eseguiti a fusione unica - ex aere solido, come annota puntualmente Eginardo nella Vita Karoli Magni (PL, XCVII, col. 50) -, mostrano una crescente accentuazione degli elementi classici, il cui punto d'arrivo è nelle grandi protomi delle p. minori (Fillitz, 1990).Sul volgere dell'anno Mille, il solenne allestimento all'antica dei battenti di Aquisgrana venne ripreso a Magonza dall'arcivescovo Villigiso (975-1011), nella p. fatta eseguire per la sua cattedrale. Ne dà esplicita conferma l'iscrizione, nella quale il presule si paragona orgogliosamente a Carlo Magno, riconoscendo così agli esemplari aquensi un ruolo di modello che - anche per la tecnica della fusione massiccia - restò fondamentale in tutta l'area germanica. Ma il capolavoro della bronzistica di età ottoniana va riconosciuto nella p. del duomo di Hildesheim, compiuta per volere del vescovo Bernoardo (993-1022) entro il 1015 e forse in origine destinata alla chiesa di St. Michael (Schütz, 1994). Si tratta di un'opera monumentale, che rinnova con profonda originalità, adattandoli a una grande superficie istoriata, i modelli tardoantichi delle p. di S. Ambrogio e di S. Sabina. I rilievi infatti non sono più concepiti come 'quadri riportati' entro cornici multiple, ma sono delimitati da sottili nastri quasi completamente lisci - simili a quelli della colonna bronzea fatta eseguire dallo stesso Bernoardo per St. Michael -, tali da valorizzare al massimo la lettura continua delle scene. I sedici episodi sintetizzano la storia della salvezza: la vicenda dei progenitori dalla Creazione all'Uccisione di Abele (sul battente sinistro a scendere); la vita del Salvatore dall'Annunciazione al Noli me tangere (sul battente destro a salire). Il concetto fondamentale del Cristo come p. alla vita eterna è qui espresso dal parallelismo delle due sequenze narrative del Vecchio e del Nuovo Testamento, legate l'una alla caduta dell'uomo nel peccato, l'altra al riscatto raggiunto mediante il sacrificio del Messia. La correlazione tra le due serie travalica sia la lettura lineare sia il semplice accostamento per concordantia o contrapposizione. Le singole scene risultano infatti legate da sottili rimandi reciproci tesi sul filo dell'esegesi allegorica, come dimostra, una tantum, la coppia di riquadri posta alla sommità, al principio e alla conclusione del ciclo. Adamo sprofondato nel sonno durante la creazione di Eva ha della prima donna una visione che la prefigura come sua sposa e, al contempo, futura Ecclesia. Accanto, Maria di Magdala, peccatrice pentita, è vista come allegoria della Chiesa penitente che cancella il peccato della progenitrice (Gallistl, 1990). Sempre legata a una tematica fondamentalmente ecclesiologica, con un programma che fonde imagerie sacra e profana, è la coeva p. del duomo di Augsburg (inizi sec. 11°). Le sue figurazioni, indubbiamente un unicum tra i bronzi tedeschi, con il loro caratteristico rilievo piatto, vanno riallacciate stilisticamente più che all'ambito della scultura a quello della miniatura: in particolare ai codici dello scriptorium ottoniano di Treviri-Echternach (Sheppard, 1990). Le formelle, montate su due battenti stranamente asimmetrici e frequentemente duplicate nei soggetti, pongono seri interrogativi non solo sulla lettura generale del ciclo, ma anche sull'assetto originario della porta. Ciò nonostante, è possibile rintracciare il filo conduttore del messaggio, facendo leva su alcune immagini-chiave: le scene della Genesi, allusive al peccato originale; quelle di Sansone, legate - come forse anche gli animali - alla vittoria sul Male; la Donna che sparge il becchime, allegoria dell'Ecclesia che nutre e protegge i fedeli e li ammonisce a cercare in essa un rifugio contro le insidie del peccato.A partire da questi anni, la p. istoriata medievale si configurò in modo sempre più chiaro come il luogo deputato di ammaestramento e di presentazione al fedele di messaggi religiosi o come manifesto di contenuti ideologici, prima che, specie in Europa settentrionale, fossero i portali e le facciate ad assorbire e risolvere in sé - attraverso i cicli scultorei - questa originaria funzione. In area germanica tale discorso trova una precoce espressione nella p. lignea di St. Maria im Kapitol a Colonia (ante 1065), a due ante, ciascuna con tredici scene evangeliche a rilievo inquadrate da incorniciature multiple e da borchie aggettanti. Le formelle, in origine riccamente policromate, si distinguono per il denso e compatto plasticismo delle figure, rinforzato, soprattutto nelle parti a incisione più bassa, dall'uso sapiente del colore. In alcuni episodi, l'iconografia adottata rivela la conoscenza diretta degli avori carolingi, mentre per le cinque scene del ciclo di Erode - prive di persuasivi precedenti - è emerso un legame con il contemporaneo dramma liturgico: in particolare con il Botenspiel, stadio più avanzato di un precedente nucleo teatrale (Magierspiel, poi Herodesspiel), messo a punto proprio nel corso dell'11° secolo. Sia nel testo sia sulla p., l'elemento principale di concatenazione narrativa è costituito infatti dalle figure 'eloquenti' dei messaggeri di Erode (Pippal, 1990).Cronologicamente vicine alle p. di Colonia sono le imposte provenienti dalla chiesa di S. Bertoldo a Parma (Mus. Archeologico Naz.). Sebbene corrose e frammentarie, esse presentano una decorazione a intaglio basso con girali abitati da animali stilizzati, ma in vivace movimento, accostabili per il loro linguaggio alla coeva scultura lombarda. Ma è soprattutto il sec. 12° a caratterizzarsi per un'ampia diffusione dei manufatti lignei, di cui rimangono in Italia e in Francia compatti gruppi regionali nelle p. romaniche dell'Abruzzo e dell'Alvernia. In Abruzzo si conservano gli esemplari provenienti da S. Pietro in Albe e da S. Maria in Cellis a Carsoli (Aquila, Mus. Naz. d'Abruzzo), entrambi collocati in origine in chiese benedettine dipendenti da Montecassino. Si tratta di p. riccamente figurate, rispettivamente con ventotto e dieci formelle quadrangolari entro esuberanti cornici vegetali. Per i battenti di Carsoli (1132), il cui programma è incentrato sull'Infanzia di Cristo, è inoltre possibile ipotizzare la presenza di una vivace finitura policroma. In quelli di S. Pietro in Albe il repertorio adottato rimanda in massima parte al bestiario fantastico, tanto che anche i simboli degli evangelisti, situati al coronamento delle ante, quasi si confondono tra cervi, cavalli e altri animali montati da figure ignude. Nelle due scene del penultimo rigo superiore di destra compaiono S. Benedetto in cattedra e, dinanzi a lui, forse due monaci: una sorta di sigillo, destinato a dichiarare la proprietà della chiesa da poco acquisita dall'Ordine (Andaloro, 1990). Numericamente più consistente è il gruppo alverniate, nel quale rientrano due p. nella cattedrale di Le Puy e altre tre nelle chiese di Saint-Gilles a Chamalières-sur-Loire, Saint-Pierre a Blesle, Sainte-Croix a Lavoûte-Chilhac (Cahn, 1974). Le più monumentali e in migliori condizioni di conservazione sono quelle di Le Puy, realizzate verso il 1140-1150 da un artista di nome Gauzfredus. I due esemplari gemelli sono ripartiti ciascuno in sedici formelle rettangolari (otto per anta), accompagnate da grandi tituli inseriti organicamente nel sistema delle cornici. La p. della cappella di Saint-Martin, che reca la firma dell'artista sull'elemento verticale di battuta, racconta l'Infanzia di Cristo, dall'Annuncio ai pastori alla Presentazione al Tempio; quella della cappella di Saint-Giles, detta p. della Passione, continua il ciclo testamentario dalla Risurrezione di Lazzaro alla Pentecoste, sempre con un senso di lettura dal basso verso l'alto e - tranne un caso - da sinistra a destra. La lavorazione a rilievo assolutamente piatto, in cui gli elementi non sono modellati, ma piuttosto sagomati, distingue nettamente le p. di Le Puy dagli altri esemplari romanici. La definizione dei dettagli della figurazione, nonché la leggibilità globale delle composizioni in origine erano infatti affidate interamente al colore, che determinava un effetto visivo da pittura su tavola, privo di concrete valenze scultoree. Il repertorio ornamentale delle cornici è duplice: il motivo a intrecci della p. della Passione dipende da modelli autoctoni di ascendenza altomedievale; il bordo cufico della p. dell'Infanzia - in cui si ripete la frase 'Tutto il potere ad Allah' - rivela invece un'insolita aderenza all'epigrafia musulmana, che travalica il puro e semplice effetto decorativo legato al gusto per le pseudoscritture islamiche in voga intorno al 1100.
La sorprendente ripresa della tecnica della fusione che investì l'Europa settentrionale a partire dal Mille e il vasto diffondersi dei battenti di bronzo come manufatto di prestigio non costituirono un fenomeno esclusivo dell'Occidente. Le p. fabbricate a Costantinopoli e di qui esportate in Italia attestano con chiarezza - benché prive di riscontro nel loro luogo d'origine - l'esistenza di una radicata tradizione fusoria bizantina. Purtroppo la perdita completa di pezzi più antichi non consente di comprendere in che modo si giunse alla formulazione della sofisticata metodologia produttiva attestata nell'11° secolo. Gli otto esemplari conservati, arrivati nella penisola nell'arco di quasi cinquant'anni, a partire dal 1065 - anno in cui risulta già in opera la p. del duomo di Amalfi - si trovano quasi tutti in Italia centromeridionale: ad Amalfi appunto, a Montecassino nella chiesa abbaziale (1066), a Roma in S. Paolo f.l.m. (1070), a Monte Sant'Angelo nel santuario di S. Michele Arcangelo (1076), ad Atrani nel S. Salvatore de Birecto (1087), a Salerno nel duomo (1099 ca.); fanno eccezione la p. di S. Clemente (1080 ca.) e quella centrale (1112 ca.) nell'atrio di S. Marco a Venezia. Come si apprende dalle relative iscrizioni, quattro di esse vennero appositamente realizzate su commissione di esponenti della nobile famiglia amalfitana dei Mauroni (Marini Clarelli, 1995). Ciò corrispose certamente a un fenomeno di gusto, legato al sempre più largo successo riscosso in Italia dalle arti suntuarie bizantine, ma, in questo specifico caso, non va forse escluso un risvolto di carattere squisitamente politico: il tentativo fatto dai Mauroni, donandole, di trovare appoggi presso le autorità del tempo per salvare la loro città dal processo di formazione del nuovo stato normanno (Matthiae, 1971).A differenza delle p. bronzee occidentali, quale quella di Hildesheim, che trae individualità dalla consistenza massiccia dei materiali e dal plastico emergere dei rilievi, i battenti bizantini presentano una struttura appiattita a piccole e sottili unità modulari d'oricalco, fissate per mezzo di chiodi su un'anima di legno. I loro elementi costitutivi corrispondono ai pannelli rettangolari figurati, alle croci applicate alle formelle lisce, alle maniglie e, infine, alle cornici di vario formato destinate a ingabbiare saldamente le singole parti. Questo sistema flessibile permetteva di realizzare p. non solo più leggere e maneggevoli, assemblabili a seconda delle diverse esigenze, ma soprattutto facilmente trasportabili in caso di destinazioni lontane. Concepite con mentalità industriale e lavorate come raffinate opere di oreficeria, queste p. trovano la loro espressione più caratteristica nelle formelle a fondo dorato, in cui le figure sottilmente incise emergono solo per la loro definizione cromatica, data dalle incrostazioni metalliche di rame, argento e altre tenui leghe intermedie o dall'impiego di smalti colorati inseriti nei solchi e nelle zone predisposte. Anche il procedimento scelto per la fusione risulta coerente con questi presupposti formali: non si tratta infatti della tecnica 'a cera persa', più congeniale a opere in rilievo, bensì della tecnica 'in sabbia' o 'a staffa' (Angelucci, 1997). Dal punto di vista dell'iconografia, le p. bizantine d'Italia sono invece tutt'altro che omogenee e oscillano tra soluzioni diverse: da quelle più semplici di Amalfi, Atrani e Salerno, in cui i battenti presentano solo poche figure iconiche, alle sontuose versioni cicliche di Roma e Monte Sant'Angelo. Nel primo gruppo, tra le croci che germogliano - simbolo del potere salvifico del sacrificio del Messia -, le formelle centrali contengono Cristo, la Vergine e i santi titolari della chiesa. Il ruolo loro attribuito è quello di intercessori in favore del donatore, che talvolta è raffigurato ai piedi del santo eponimo, ma è, in ogni caso, sempre nominato nelle iscrizioni, in cui fa richiesta di entrare nel regno dei cieli. Con riferimento al fondamentale concetto giovanneo di Cristo ianua coeli, tale dispositivo conferisce ai battenti il valore di 'p. del paradiso', soglia del perdono e ingresso alla salvezza (Frazer, 1973). Possono essere considerate un'estensione di questo schema le due p. di S. Marco a Venezia, quasi interamente ricoperte di formelle con Cristo, la Vergine, profeti, apostoli e santi, come una sorta di monumentale iconostasi diposta sul limite dello spazio sacro della chiesa. Nettamente diverso è il discorso delle valve di Monte Sant'Angelo, volute, nel 1076, da Pantaleone di Mauro d'Amalfi. Qui l'intero spazio delle formelle - a eccezione di un'epigrafe - è occupato da un programma narrativo, elaborato ad hoc per il santuario micaelico, con scene raffiguranti i prodigi angelici precedenti e successivi all'Incarnazione, frutto di un'attenta combinazione di elementi orientali e occidentali (Marini Clarelli, 1995). Quando questa p. fu realizzata era vescovo di Siponto e Monte Sant'Angelo un tedesco, il benedettino cassinese Girardo, il quale dovette svolgere una parte non secondaria nella scelta e ordinazione dei battenti: tanto più che egli era stato presente all'inaugurazione dell'abbaziale di Montecassino nel 1071 e aveva potuto vedere la nuova p. bronzea di Desiderio. La sua supervisione renderebbe conto anche della messa a punto occidentale della materia iconografica, evidente nelle cinque scene poste in calce ai battenti garganici: le tre relative al vescovo Lorenzo di Siponto, l'Incoronazione di Cecilia e Valeriano e soprattutto l'episodio di s. Martino di Tours, il cui culto era vivissimo in ambito cassinese (G. Bertelli, 1990). A quanto risulta, Girardo gravitava nell'orbita di quel partito per la riforma della Chiesa di cui fu animatore Ildebrando di Soana, il futuro Gregorio VII (1073-1085), abate di S. Paolo f.l.m. al tempo in cui ne fu confezionata la p. (1070). Questa costituisce infatti un altro caso significativo - anche se più complesso e sfumato - del peso esercitato da parte occidentale nella determinazione dell'iconografia. Con i battenti di Monte Sant'Angelo quelli di S. Paolo f.l.m. condividono anche il donatore, Pantaleone di Mauro, qui effigiato in proskýnesis mentre il santo titolare della basilica lo presenta a Cristo. La p. romana - in cinquantaquattro pannelli oggi fuori ordine - include un ciclo cristologico in dodici scene, dodici figure di profeti e dodici di apostoli (tra cui s. Paolo), queste ultime abbinate alle rispettive scene storiche di martirio o di seppellimento, il tutto completato da aquile, croci e iscrizioni. Anche se Niceta Coniate ricorda la presenza a Costantinopoli di una perduta p. con dodici scene cristologiche in S. Maria Chalkoprateia (Frazer, 1973), i battenti di S. Paolo f.l.m. risultano in ogni caso innovativi grazie all'introduzione in un unico contesto, accanto alle scene della Vita del Salvatore, di un ciclo martiriale scelto come pendant storico alle icone degli apostoli. Nell'economia della salvezza, prefigurata dalle parole dei profeti, è proprio questa enfasi posta sulla fase apostolica della storia della Chiesa a contenere un accento fortemente romano, in sintonia con l'ideale riformatore della vitae apostolicae forma (Cadei, 1987; Pace, 1995).Coeva, se non addirittura un poco precedente, al celebre gruppo italiano è la p. costantinopolitana che si conserva all'ingresso del katholikón della Grande Lavra sul monte Athos, risalente forse alla prima metà del sec. 11° (Frazer, 1973; Buras, 1975). Dal punto di vista tecnico, essa è però molto diversa: il rivestimento dei battenti - che hanno sempre un'anima in legno - non è a formelle ageminate, bensì a sottili e lucenti lamine sbalzate a repoussée e poi cesellate con un procedimento proprio della toreutica, del tutto simile a quello attestato nei più celebri prodotti dell'oreficeria e dell'argenteria mediobizantina. Ogni anta è composta da quattro pannelli quadrati circondati da un intreccio a tre capi: i due superiori recano croci gemmate e fogliate, i due inferiori rosette entro cerchi con annodature angolari. Attorno a ciascun elemento corre una splendida cornice a girali, nella quale sono inserite, in posizione centrale, due classiche maniglie a protomi leonine in rilievo. L'estrema minuzia esecutiva ne fa una vera e propria opera di genere suntuario, il cui pregio materiale doveva essere certamente ritenuto superiore a quello dei battenti - sofisticati, ma in fondo semi-industriali - fabbricati per i committenti italiani.Dopo il prestigioso avvio segnato sul finire del Mille dal gruppo d'importazione dei battenti bizantini, nel corso del sec. 12° l'Italia meridionale, aggregata dal regno normanno, visse, per ciò che riguarda le imposte di bronzo, un periodo di autonoma e intensissima creatività, caratterizzato da un'apertura decisamente internazionale e dall'emergere di alcune grandi personalità artistiche. Il nuovo corso è ben sintetizzato dalla coppia di p. del duomo di Troia in Puglia. La p. principale (1119), che è legata al momento di più orgogliosa autonomia della sede troiana, durante l'episcopato di Guglielmo II, mostra la complessa cultura di un maestro di altissimo livello: quell'Oderisio da Benevento (v.) che firmò la seconda p. troiana (1127) e che fu autore anche degli esemplari perduti di S. Giovanni Battista a Capua (1122) e di S. Bartolomeo a Benevento (1150-1151). Nella p. principale, le figure in rilievo, violentemente apotropaiche, di leoni e draghi nei tiranti e nei picchiotti si possono comprendere solo stabilendo stringenti rapporti con la bronzistica nordica (maniglie della p. della cattedrale di Durham; piede di candelabro nel Mus. Saint-Remi di Reims), mentre le quattro lastre ageminate della sommità (Cristo giudice; Ss. Pietro e Paolo; il vescovo Guglielmo; il fonditore Oderisio da Benevento con un certo Berardo) rivelano, nella loro straordinaria libertà di segno, un totale superamento, in senso occidentale, della tradizione bizantina (Belli D'Elia, 1990; Aceto, 1995). La p. sul fianco destro, più semplice rispetto a quella sorta di organismo vivente che è la maggiore, si lega storicamente al momento dell'eroica resistenza antinormanna di Troia e la sua commissione è forse legata al concilio delle città pugliesi ribelli e filopapali indetto per l'11 novembre 1128 nella cattedrale. Nella parte alta delle ante, la genealogia dei vescovi troiani, con in testa Guglielmo, accanto ai Ss. Pietro e Paolo, non ha un semplice intento celebrativo, ma - nel ribadire il legame senza mediazioni con Roma - costituisce un manifesto di indipendenza e libertà della civitas; la lunga iscrizione che segue, toccante nella sua attualità, registra, quasi per tramandarlo, il coraggioso atto di rivolta prima della distruzione della città nel 1133. Nella semplicità della struttura, da cui aggettano solo le protomi delle maniglie, le figure in agemina, apparentemente convenzionali, tradiscono nelle loro dinamiche silhouettes stretti rapporti con la pittura francese coeva (Saint-Savin-sur-Gartempe, Saint-Gilles a Montoire), forse anche mediati da libri miniati presenti nello scriptorium dello stesso episcopio troiano (Belli D'Elia, 1990).Nuove motivazioni e contenuti, legati all'urgenza degli eventi contemporanei, cominciarono così a far sentire la loro esplicita presenza: nella dimensione sacrale degli schemi tradizionali penetrarono umori profani e immagini legate a un tempo storico (Cadei, 1987). Su questo solco si inserisce anche la serie di battenti che risale alla fase iniziale del patrocinio artistico normanno nell'Italia del Sud, quelli del mausoleo di Boemondo a Canosa (1111-1118 ca.) e la coppia della Cappella Palatina di Palermo (1140 ca.). Particolarmente significativi sono i primi, in cui le formelle dell'anta destra recano, incise e ageminate, forse le figure di Boemondo I d'Altavilla e di Ruggero Borsa in adorazione dinanzi a un'effigie a rilievo oggi perduta (forse una Madonna con il Bambino) e, subito sotto, i loro due figli, riconciliati dallo zio Tancredi d'Altavilla. Tecnicamente parlando, le due valve canosine configurano una situazione molto particolare, che induce a escludere una loro esecuzione simultanea e coordinata. Quella di destra, infatti, è a getto unico; quella di sinistra, invece, risulta concepita fin dall'origine in quattro parti - sempre massicce -, fermate sul verso con un sistema predisposto di spranghe e corredate sul davanti da cornici orizzontali coprigiunto. In questo caso i motivi ornamentali, stilisticamente collegabili a quelli della lastra tombale di Boemondo, assicurano una cronologia del pezzo in stretto collegamento con il mausoleo, mentre l'anta sinistra è quasi certamente di riuso. Essa è stata adeguata alla sua nuova collocazione con l'inserimento dell'iscrizione elogiativa di Boemondo e di due elementi figurati: forse una Vergine aggettante, oggi perduta, in alto, e una protome leonina al centro. Inoltre, la connotazione islamica nella sua decorazione è tanto forte, ed è stata tanto consapevolmente ricalcata nel battente destro, da far pensare che non si tratti di un reimpiego casuale. La p. nel suo insieme, come l'architettura dello stesso mausoleo, potrebbe infatti contenere un riferimento al regno di Antiochia conquistato da Boemondo, il quale verrebbe così celebrato come principe òrientale' (Cadei, 1990).Il particolare procedimento di fusione e montaggio adottato nella valva destra di Canosa si ritrova ancora nelle due p. bronzee di Palermo: tanto puntualmente da far pensare a una tecnica esclusiva delle officine attive su committenza normanna (Cadei, 1990). Ornati con profusione di acanto nelle cornici e grandi rosette sulle specchiature, con una presenza insistente di protomi leonine, i battenti della Cappella Palatina vanno letti - alla stregua di quelli carolingi di Aquisgrana - come un simbolo laico di regalità, squisitamente declinato all'antica. E probabilmente è in relazione a questo concetto anche il loro orientamento, sul lato ovest, verso l'interno della cappella, a funzionare quasi da complemento semantico del trono e, al tempo stesso, da solenne ingresso agli appartamenti reali.
I quattro decenni centrali del sec. 12° sono quelli in cui la p. bronzea istoriata si impone in tutta Europa come tipologia caratteristica dell'arte romanica. In coincidenza, quasi ad annum, con i battenti della Cappella Palatina di Palermo, nell'Ile-de-France l'abate Suger faceva realizzare per l'atrio di Saint-Denis (1140) una p. fulgente di rilievi in bronzo dorato con la Passione e la Risurrezione di Cristo entro medaglioni a racemi. Fatto del tutto nuovo, l'opera - andata distrutta durante la Rivoluzione francese - non era tematicamente isolata, bensì inserita in un complesso programma scultoreo destinato a divenire l'archetipo del futuro portale gotico. L'accompagnava una lunga iscrizione, dettata dallo stesso Suger, emblematica per intenderne il significato simbolico: il fedele veniva esortato - nei termini anagogici della teologia neoplatonica sulla luce - a non ammirare solo il fasto materiale della p., ma a lasciarsi illuminare la mente dal suo splendore, così da poter ascendere "ad verum lumen, ubi Christus ianua vera" (Schlosser, 1896, p. 271).Quasi contemporaneamente, sempre in area settentrionale, erano assai attivi e ricercati, sia nei paesi tedeschi sia in Italia, i fonditori della regione mosana e, in modo particolare, quelli delle officine sassoni di Magdeburgo. Questi ultimi, già poco dopo il 1130, erano operanti a Verona nella p. di S. Zeno Maggiore, la quale tuttavia, nella sua veste odierna, rispecchia solo in parte l'edizione originaria. Come suggerisce la frequente duplicazione dei temi iconografici - ripetuti peraltro anche nelle contigue sculture -, essa deve essere infatti il risultato di un rimontaggio, forse successivo al 1178, avvenuto durante la ristrutturazione della facciata della chiesa a opera di Brioloto: occasione nella quale si provvide a ricollocare in un'unica p. elementi bronzei pertinenti a due serie diverse (Zuliani, 1990). Su ogni anta lignea sono attualmente inchiodate, in otto file di tre, ventiquattro formelle - delimitate da cornici coprigiunto semicilindriche a giorno con piccole protomi agli incroci - raffiguranti Storie del Vecchio e del Nuovo Testamento e quattro episodi della Vita di s. Zeno. Al primo atelier sono unanimemente attribuite le ventotto formelle del nucleo più antico, fissate sull'anta sinistra e nella zona inferiore di quella destra. A questo primo maestro, di cultura sassone, sarebbe succeduto un secondo maestro (distinto da alcuni in due personalità, una delle quali - il terzo maestro - sarebbe l'autore delle Storie di s. Zeno), la cui cronologia è discussa. L'attività della c.d. seconda officina è stata variamente collocata a ridosso del 1138, subito dopo i lavori del portale di Nicolò (Mende, 1983) o dopo il 1178, in occasione della nuova sistemazione architettonica di Brioloto (Zuliani, 1990). Il doppio raggruppamento stilistico delle formelle è stato peraltro confermato, in modo puntuale, dall'analisi dei metalli: un bronzo a basso tenore di stagno per il primo maestro, un ottone a basso tenore di zinco - ovvero oricalco - per il secondo (Aliberti Gaudioso, Pietropoli, 1990).Allo stesso ambiente da cui proviene il primo maestro di S. Zeno vanno ricondotti gli autori della splendida p. occidentale della Santa Sofia di Novgorod, giunta in Russia forse all'inizio del Quattrocento dalla cattedrale di Płock, in Polonia (Bocarov, 1990a). Realizzata a Magdeburgo verso il 1153-1154, essa reca le effigi dei suoi probabili committenti, l'arcivescovo magdeburghese Wichmann (1152-1192) e quello di Płock, Alessandro (1129-1156), e dei suoi tre fonditori, i sassoni Riquinus, Waismuth e Abraham. Le quarantasette formelle, racchiuse in cornici semicilindriche a girali, contengono - salvo poche eccezioni - scene tratte dal Nuovo Testamento, il cui ordine originario risulta però attualmente sovvertito (Knapinski, 1991). Distanziandosi dal consueto valore protettivo loro attribuito, qui le protomi di leone delle maniglie, dalle cui fauci spuntano teste umane, alludono all'inferno che inghiotte i peccatori.Sempre in Polonia, verso il 1170, una seconda p. di bronzo, quella della cattedrale di Gniezno, attesta la penetrazione di maestranze di diversa formazione, provenienti dalla Germania meridionale e dalla regione della Mosa. I raffinati battenti, che - insieme a quelli di Monte Sant'Angelo - sono gli unici a illustrare un ciclo agiografico (qui la Vita di s. Adalberto), tradiscono nello stile la probabile presenza di tre diversi modellatori, mentre sul piano tecnico rivelano l'impiego di un procedimento di fusione differenziato. La valva sinistra è infatti a getto unico, la destra in ventiquattro pezzi, e ciascuna si distingue per un diverso grado d'emergenza del rilievo. Le scene - nove per parte - sono incolonnate verticalmente l'una sull'altra, con un semplice listello piatto di separazione, secondo lo schema ciclico inaugurato dalla p. di Hildesheim. Diversamente da quest'ultima, qui esse presentano però anche una larga incorniciatura a girali abitati, che avvolge a tutt'altezza le ante. Riquadri narrativi e cornice dipendono da modelli completamente diversi: il girale mostra un'indiscutibile ascendenza mosana, mentre le scene della Vita di s. Adalberto si ispirano alla produzione miniatoria di Ratisbona-Prüfening. Questi elementi inducono ad attribuire la p. a un atelier composito, attivo probabilmente nella stessa Gniezno (Skubiszewski, 1990). Per ciò che riguarda il programma iconografico, va messa in evidenza la sua originalissima articolazione, che implica una complementarità semantica tra le immagini della cornice e la scena agiografica contigua. Valga per tutti il segmento di girale con la Caccia astrale di Orione. La figura, che s. Gregorio Magno considera allusiva a quanti si sacrificano per la Chiesa, si trova infatti a fare da pendant al riquadro dell'Infanzia di s. Adalberto, funzionando come una sorta di oroscopo tracciato presso la culla del futuro martire. L'ostentata celebrazione di colui che era divenuto nel sec. 12° il santo nazionale dei Polacchi sottintende inoltre un significato politico, tanto più forte in quanto l'opera fu realizzata proprio al tempo in cui Mieszko III il Vecchio (m. nel 1202) potenziava l'autorità centrale con capitale a Gniezno. Lo confermano soprattutto due elementi del racconto agiografico: lo spicco concesso al sovrano unificatore della Polonia, Boleslao I il Coraggioso (m. nel 1025), e l'importanza riconosciuta alla missione di s. Adalberto in Prussia, obiettivo territoriale delle mire espansionistiche di Mieszko III.In ambito mediterraneo, intanto, la seconda fase della committenza normanna, impersonata da Guglielmo II il Buono (1166-1189), offriva il suo sostegno all'attività dei due bronzisti italiani più famosi del tempo: Bonanno Pisano (v.) e Barisano da Trani (v.), entrambi impegnati dal sovrano per il duomo di Monreale. Del primo, che in patria fu l'autore delle p. centrali della cattedrale (1180), perite nell'incendio del 1595, restano oggi due sole opere: la p. di S. Ranieri a Pisa, nel transetto destro della cattedrale, la p. principale del duomo di Monreale, firmata e datata 1186 (Melczer, 1987; 1988). Quest'ultima, che è forse anche la più antica, costituisce un esemplare di dimensioni grandiose, nel quale Guglielmo II intese fare sfoggio - come nel resto dell'edificio - delle sue illimitate possibilità di committente. Fusa certamente a Pisa, la p. presenta su ciascun battente due larghe formelle rettangolari alla base e alla sommità, le prime con coppie di leoni e grifoni apotropaici, le seconde con la Vergine Assunta e il Cristo assisi in trono, rispettivamente a sinistra e a destra. Tra questi 'terminali' si svolge, su dieci registri, un ciclo con quaranta formelle del Vecchio e del Nuovo Testamento, fissate alle ante lignee con cornici e chiodi a rosetta e scandite verticalmente da lunghi salienti vegetali a rilievo schiacciato. La lettura si svolge dal basso verso l'alto, seguendo orizzontalmente, da sinistra a destra, le righe del lunghissimo racconto. La stessa struttura organizzativa e narrativa si ripete, in scala minore, anche nella p. pisana, con venti episodi del Nuovo Testamento, preceduti in basso dall'originalissimo corteo en plein air dei profeti dell'Incarnazione e conclusi in alto dall'Assunta e dal Cristo in gloria, il tutto entro cornici cordonate in spiccato rilievo. A differenza delle imposte monrealesi, quelle pisane - tanto vicine nella concezione generale all'esempio di Novgorod - mostrano un maggiore respiro e una più intensa nitidezza di racconto. Vi contribuiscono in modo particolare il modellato delle figure, condotto talora quasi a tutto tondo, le loro pose dinamiche e le splendide architetture traforate a giorno, che dialogano spazialmente con i personaggi (White, 1988).Molto diversi da quelli di Bonanno Pisano sono metodi e intenzioni creative dell'altro grande fonditore del tardo sec. 12°: Barisano da Trani. Il suo sistema di produzione sofisticato e razionalmente flessibile - come quello bizantino, quasi 'industriale' - implica l'uso di matrici uniche, dalle quali sono state ricavate le fondamentali unità figurative e ornamentali che si ritrovano variamente assemblate nelle sue tre p.: quelle delle cattedrali di Ravello (1179), Trani e Monreale, di cui la prima è forse la più antica. Nonostante le differenze di tecnica e materiali - Barisano da Trani usa bronzo autentico -, la struttura di questi battenti, ottenuta per moltiplicazione di elementi quasi senza aggetto, affonda le sue radici nella tradizione orientale. A questa si ispirano, almeno per alcuni aspetti, anche i programmi iconografici, tra i quali il più esteso è quello di Ravello. La parte alta (Cristo, Madonna con il Bambino, profeti, apostoli, Deposizione dalla croce, Anastasi) sintetizza la parabola cristiana della redenzione e il concetto di intercessione; nella zona mediana i santi cavalieri, accanto alle protomi leonine, incarnano i valori protettivi connessi alla soglia; in basso, arcieri e lottatori stanno probabilmente a indicare il livello 'mondano' di un unico ordine gerarchico che trova alla sommità della p. il suo apice 'celeste'. In questo esemplare - caso unico tra i tre e in assoluto senza riscontri - tutti gli elementi significativi dell'iconografia si ripetono specularmente sui due battenti: forse per dare la possibilità al fedele di captare anche a p. aperta, sulle singole ante, le coordinate fondamentali del programma (Cadei, 1987). Quanto all'aspetto stilistico dell'opera di Barisano da Trani, si è recentemente proposto di rivedere la tesi tradizionale che voleva l'artista legato iconograficamente e linguisticamente alla Kleinkunst bizantina, specialmente agli avori (Boeckler, 1953), prospettando un suo più diretto rapporto con la contemporanea scultura campana (Walsh, 1990).Sempre in Italia meridionale, ma agli estremi confini settentrionali del regno normanno, si colloca la p. bronzea dell'abbazia di S. Clemente a Casauria, in Abruzzo (1182-1189), ascrivibile anch'essa agli anni di re Guglielmo II. Commissionata dall'abate Gioele, essa presenta uno schema reticolare robusto ed essenziale, con settantadue pannelli quadrati a cornici piatte e grosse borchie agli incroci. La parte centrale è riservata a una serie di formelle ornamentali a corolle, intrecci e croci, mentre le uniche figure sono inserite alla sommità. Si tratta di due sovrani, Ludovico II, il fondatore della chiesa, a sinistra, e Guglielmo II, il sovrano regnante, a destra, che fiancheggiano la scena mediana con S. Clemente in trono e l'abate Gioele, rappresentato nell'atto di rendere omaggio al titolare dell'abbazia (Bloch, 1990). Ai lati esterni dei battenti sono invece incolonnati i plastici architettonici dei ventidue castella terrae Sancti Clementis: un attestato visivo delle proprietà monastiche, che Gioele volle concretamente effigiate ed elencate, con le relative iscrizioni, in perenne monito ai rapaci barones locali. Questo aspetto documentale del programma casauriense non è un'invenzione del committente, ma si ispira a un'idea già sviluppata a Montecassino dall'abate Oderisio II (1123-1126) nel restauro da lui compiuto sui battenti desideriani della basilica. Utilizzandone a rovescio le originarie lastre figurate bizantine come supporto alla lista dei possedimenti dell'abbazia, questi aveva infatti messo a punto - sebbene in forma aniconica - una sorta di cartulario monumentale, il cui significato di base coincide con l'operazione iconografica di S. Clemente a Casauria (Bloch, 1990).Gli ultimi esemplari bronzei del sec. 12° in Italia sono i battenti del Laterano, eseguiti al tempo di papa Celestino III e oggi conservati a Roma nel battistero (1195) e nel chiostro (1196) di S. Giovanni, ma collocati originariamente in cima alla scala del Patriarchio e all'ingresso del triclinio di Leone III. Tra le due p., classicamente spartite ed entrambe firmate da Pietro e Uberto, è specialmente importante la più antica, che si distingue per una rarissima decorazione figurata. Le quattro specchiature che scandiscono le ante contengono una serie di rappresentazioni architettoniche incise, al cui interno erano fissate otto figurette a rilievo, di cui resta solo l'Ecclesia in trono. Questa è incorniciata da un prospetto a due torri che rappresenta la facciata settentrionale della basilica lateranense, mentre nello specchio contiguo è un edificio civile, una p. urbica, che allude per sineddoche all'intera città di Roma. Qui si trovava probabilmente un pontefice in trono, forse S. Pietro come capostipite della genealogia papale romana, all'interno di un programma finalizzato a rivendicare le prerogative universali del papato e la sua supremazia sull'autorità dell'impero (Iacobini, 1990). Dal punto di vista dello stile, questa opera rappresenta una novità assoluta nel quadro della produzione artistica della città. Le incisioni architettoniche degli sfondi rivelano infatti la conoscenza del linguaggio protogotico borgognone importato nel Lazio dai Cistercensi, mentre la statuetta dell'Ecclesia, con il volto e le chiome di un'antica matrona, sembra arieggiare le cadenze nordiche dello 'stile 1200'. I fonditori - che si autodefiniscono fratres - potevano essere non due semplici artefici laici, ma due Cistercensi. Ciò, eventualmente, potrebbe spiegare la doppia indicazione di provenienza presente nelle iscrizioni (Placentini, Lausenenses, ovvero 'di Piacenza' e 'di Losanna'), da indendersi forse come riferimento al luogo di nascita e alla patria di adozione dei due magistri (Iacobini, 1991).La lunga serie delle imposte bronzee medievali del Meridione d'Italia - indubbiamente fuori del comune quanto a concentrazione geografica - si conclude al principio del Duecento con un nuovo capolavoro: la p. del duomo di Benevento. Devastata da un bombardamento e da un incendio nel settembre 1943, essa sopravvive oggi in frammenti (Benevento, Mus. Diocesano), ma con casi limitatissimi di perdita integrale. Contava in origine settantadue pannelli uguali montati su un'anima di legno, disposti su nove file di quattro per ciascuna anta, inquadrati da classiche cornici a ovoli con rosette angolari. Nella zona superiore si svolgeva, da sinistra a destra a scendere, un ciclo cristologico in quarantatré scene, che occupava - comprendendo le quattro protomi di leone e grifone - le prime sei righe della grande pagina istoriata. L'ultima scena di questa sezione, con il metropolita di Benevento in trono che ordina un vescovo, era però di fatto la prima del paragrafo finale, che mostra i ventiquattro suffraganei dell'archidiocesi eretti frontalmente al di sotto di baldacchini. L'arcivescovo è effigiato con una mitra simile a una tiara, il camaurum, copricapo riservato al titolare della sede sannitica, ed è enfaticamente posto alla guida di una sottomessa falange di presuli. Il significato globale implicito nelle ultime tre righe di formelle, disposte a formare con i relativi tituli una sorta di monumentale lista di possesso, non è dissimile da quello della p. di S. Clemente a Casauria e ne condivide, quasi sicuramente, la fonte d'ispirazione: i battenti cassinesi di Oderisio II (Bloch, 1990). Le indagini svolte nel 1987 hanno fornito ulteriori conferme all'ipotesi che vede il committente dell'opera nell'arcivescovo Rogerio (1179-1221), un benedettino che era stato monaco a Montecassino e che dunque conosceva de visu la p. bronzea della basilica (Angelucci, Marinelli, 1990).Nel sec. 12° e nel 13°, soprattutto in Europa centrale e settentrionale, è documentata una tipologia di p. più modesta rispetto ai costosi esemplari in metallo o in legno scolpito e dipinto: quella delle imposte lignee con applicazioni in ferro battuto, che ebbero un'ampia e capillare diffusione dalla Francia alle Isole Britanniche, dalla Germania alla Scandinavia (Karlsson, 1988; Geddes, 1990). Salvo eccezioni, si tratta di opere legate di norma a un contesto rurale e alla committenza di sacerdoti o signorotti locali, che ne affidavano l'esecuzione a semplici artigiani, in genere fabbri di villaggio, che disponevano di un circoscritto bagaglio tecnico, senza confronto con la sofisticata tecnologia della fusione bronzea. Ornate con croci, elementi zoomorfi o grandi girali di ispirazione vegetale, esse contengono talora dei succinti programmi figurati, ma anche in questi casi ne esce confermato il peculiare habitat d'origine, caratterizzato da una cultura di base orale, intrisa di credenze popolari, diametralmente all'opposto del milieu delle città e delle grandi fondazioni, ufficiale e raffinato, cui si lega il fenomeno delle p. bronzee. L'uso delle applicazioni in ferro, ricavate da sottili lamine ritagliate, rimonta con ogni probabilità a una tradizione precristiana di ambito scandinavo, poi introdotta in Inghilterra dai Vichinghi: sembrerebbero attestarlo le affinità, nello stile e nel sistema della narrazione, con le stele dell'isola di Gotland. Gli ornati, rigorosamente piatti, presentano talora parti in aggetto all'apice dei girali, sotto forma di protomi umane e animali o di draghi apotropaici, di norma collocati presso le serrature (p. di Notre-Dame a Orcival in Alvernia, secc. 12°-13°). L'impiego di parti plastiche, molto raro a causa della loro difficile lavorazione a martellatura, ebbe un maggiore impulso in epoca tardomedievale (secc. 14°-15°), grazie all'introduzione della fusione del ferro.Quanto ai motivi figurati presenti su questo genere di p., sono frequenti soggetti legati alle vicende biografiche del santo titolare della chiesa: per es. un uomo che lotta con un drago sulla p. da S. Giorgio a Flemlose, in Danimarca (Copenaghen, Nationalmus.). In Inghilterra e Svezia, dove si è conservata una gran messe di materiali, sono documentati anche rari esempi di imposte che sviluppano veri e propri programmi. È il caso della p. meridionale di St Helen a Stillingfleet, nello Yorkshire (1160 ca.): qui le immagini di Adamo ed Eva, di un gigante, dell'Arca di Noè e della Croce trovano una chiave di lettura nella prospettiva cristiana di tentazionecaduta-redenzione, il cui motivo conduttore sembra essere il Sacro Legno, agiograficamente legato alla titolare della chiesa (Bradley, 1988). Per quanto riguarda la Svezia, occorre ricordare la presenza di due nuclei omogenei di manufatti, comprendenti p. e casse decorate in ferro: quello che reca la firma del fabbro Asmund e quello della forgia di Roglösa, entrambi accomunati da un sistema narrativo continuo che ha significativi rapporti con le tappezzerie scandinave di epoca romanica (Karlsson, 1988). Del primo gruppo fanno parte i battenti delle chiese di Stroya e Väversunda, presso il lago Vättern. In questi ultimi la decorazione è ordinata in sei pannelli: in basso compare forse l'albero della conoscenza, accompagnato dal serpente, dal demonio e da un'arpia, intesi come simboli della tentazione dei progenitori; seguono al centro due piante araldiche con uccelli, allusive al paradiso, mentre in alto la Crocifissione celebra l'epilogo della storia della salvezza con la vittoria finale di Cristo sul peccato. Al di fuori dell'area scandinava, queste soluzioni stilisticamente molto semplici a sagome piatte, tipiche dell'età romanica, nel corso del Duecento passarono gradualmente di moda, lasciando ampio spazio, sia in Germania sia in Inghilterra, alle eleganti e flessuose composizioni vegetali elaborate dai fabbri dell'Ile-de-France.Per quanto riguarda i battenti lignei intagliati a rilievo, il sec. 13° si pone in una prospettiva di continuità con la tradizione romanica. Sono in questo senso emblematici soprattutto gli esemplari del duomo di Spalato, in Dalmazia, firmati da Andrea Buvina e datati 1214, con formelle che narrano Storie del Nuovo Testamento. Indubbiamente più originale e innovativa è la p., grosso modo coeva, del duomo di Gurk, in Carinzia, la cui superficie è ripartita a medaglioni vegetali istoriati, forse un'eco dei perduti battenti bronzei di Suger per l'atrio di Saint-Denis. L'anta sinistra ha per tema l'albero di Iesse, quella destra contiene scene della Vita di Cristo, tutte con interessanti riscontri iconografici nell'ambito della miniatura e delle vetrate. La residua colorazione argentea dei fondi suggerisce che, nella sua finitura originaria, la p. aspirasse a imitare un modello metallico. La scena chiave del ciclo cristologico è la Pentecoste, nella quale ha un ruolo assolutamente dominante la figura di s. Pietro. Ciò consente una lettura in chiave di storia contemporanea, come dichiarazione di fedeltà al papato da parte del vescovo Ulrich I Ortenburg (1221-1253), appellatosi a Roma per resistere all'ingerenza del metropolita filoimperiale di Salisburgo (Pippal, 1990).
Nel mondo ortodosso, dalla Grecia all'Armenia alla Russia, si continuavano intanto a produrre, secondo inveterati modelli, p. di chiese sia in legno sia in metallo, ma l'entità dei materiali superstiti consente di seguirne la storia solo per sommi capi. Tra gli esemplari lignei è di particolare importanza, anche per l'originalità tematica, quello attualmente disperso, già collocato nella chiesa di S. Nicola a Ochrida, in Macedonia (sec. 12°-13°). Le due ante, di uguale misura, sono ripartite ciascuna in dodici bassorilievi rettangolari, di cui quattro più piccoli, disposti orizzontalmente a formare, con quelli contigui, due fasce zoomorfe che traversano in larghezza la porta. A battenti chiusi, la parte centrale risulta occupata, a scendere, da sei scene con santi cavalieri simmetricamente affrontati; subito accanto si susseguono pannelli zoomorfi con un'aquila che atterra un serpente, un grifone, due leoni, due pavoni, tutti legati al comune significato apotropaico e protettivo tradizionalmente connesso alla soglia. La resa dinamica ed espressiva, ma fortemente appiattita, delle figure avvicina gli intagli di Ochrida alla coeva produzione bizantina in metallo, pietra e avorio, ma la fitta impaginazione zoomorfa ne rivela chiaramente l'origine 'adriatica', quindi in un'area regionale aperta ai contatti con il mondo latino (Grabar, 1976, nr. 116).Un altro esemplare ligneo tra i pochi superstiti è quello del katholikón del monastero dell'Olympiotissa a Elasson, in Tessaglia. Le due ante, ciascuna a tre grandi riquadri sovrapposti, contengono altrettanti pannelli decorati ad annodature, lavorati a giorno e poi inchiodati su un fondo liscio. Quest'ultimo, nella stesura originaria, era rivestito di cuoio colorato - rosso in basso, verde in alto - che faceva risaltare cromaticamente le transenne lignee, a loro volta arricchite, nelle cornici rettilinee e nei nastri intrecciati, da intarsi in osso. La p. - che un'iscrizione dice restaurata nell'anno 1296 - è in realtà ben più antica. Lo confermano soprattutto gli uccelli e gli altri motivi decorativi inscritti nei nodi delle formelle, più consoni a una datazione tra il sec. 11° e l'inizio del 13°, e tanto finemente eseguiti da far pensare che il pezzo, qui solo reimpiegato, possa in realtà provenire da una chiesa di Salonicco o di Costantinopoli (Buras, 1989-1990).Sull'altra sponda mediterranea, uno dei celebri santuari di Terra Santa, la chiesa della Natività a Betlemme, fu provvisto nel 1227 di nuovi e sontuosi battenti lignei, opera di due artisti armeni, Abramo e Arakel. Le ante, oggi frammentarie e dismesse, sono ripartite a croce, ciascuna con quattro pannelli coronati da due bande epigrafiche, una in arabo e una in armeno. La metà inferiore è rivestita da un fittissimo tappeto a girali; quella superiore è occupata da due coppie di grandi croci vegetalizzate, sempre su un fondo a girali, molto simili ai xač῾k῾ar, le croci di pietra in forma di stele tipicamente armene. L'interesse di questo esemplare, il cui repertorio ornamentale sfugge a una classificazione univoca, sta nel suo carattere eclettico, che fonde e rielabora motivi della tradizione armena e islamica all'interno di uno schema iconografico-compositivo fedele al modello delle 'p. del paradiso' bizantine (Jacoby, 1990).Un capitolo a sé nella storia delle p. metalliche orientali è costituito infine dai battenti russi realizzati con la nuova tecnica della crisografia, ovvero la doratura a fuoco su rame. Gli esemplari meglio conservati del gruppo sono rappresentati dalle p. meridionale e occidentale della Natività di Maria a Suzdal᾽(1230-1233), dalle c.d. p. basiliane della Santa Sofia di Novgorod e dalle p. meridionale e occidentale della Trinità di Alexandrov (sec. 14°), tutte preziosamente istoriate. Le p. di Suzdal᾽, realizzate da un unico e composito atelier su committenza dei vescovi Simone e Mitrofane, presentano entrambe la stessa 'architettura', con quattordici formelle per anta, cornici coprigiunto semicilindriche e grandi borchie globulari agli incroci, ricoperte da una minuziosa ornamentazione a reticolo d'oro su fondo scuro che si estende anche alle parti strutturali. Le imposte occidentali, restaurate nel 1750, illustrano il ciclo delle Feste liturgiche, integrato da scene relative al culto della Vergine, titolare della cattedrale, e sono concluse in basso da quattro effigi apotropaiche di pantere e grifoni. I quattro maestri che eseguirono le formelle sono accomunati da un disegno scorrevole e graficamente dettagliato, che aderisce allo stile lineare comneno accolto nel sec. 12° nel principato di Vladimir-Suzdal᾽ (Bocarov, 1990b). Nella p. meridionale è di notevole interesse la parte del ciclo dedicata - come a Monte Sant'Angelo - alle gesta di s. Michele Arcangelo (Grabar, 1971).
Già dai primi decenni del Duecento, a Venezia, con la definitiva sistemazione dell'atrio di S. Marco, si creavano i necessari presupposti per completare quella che sarebbe divenuta, nel giro di mezzo secolo, la più trionfale parata di p. bronzee mai dispiegata in una chiesa dell'Europa medievale. Tra p. e p.finestre, interne ed esterne, messe in opera tra la fine del sec. 11° e il 14°, la basilica marciana annovera infatti undici pezzi: un insieme imponente, comparabile solamente a quello che in origine corredava la Santa Sofia di Costantinopoli. All'esterno, i primi a essere collocati furono i battenti del nuovo portale centrale, un vero e proprio palinsesto metallico, abilmente confezionato con pezzi di epoche diverse. Due monumentali cancelli a pelte di epoca paleobizantina - in origine a traforo - furono infatti montati su ante lignee rivestite in lamina bronzea, e vi fu applicata sopra una lunghissima fila di protomi leonine, dieci pezzi di reimpiego medievali, di cui nove, sicuramente romanici, si possono attribuire all'ambito della prima officina veronese di S. Zeno Maggiore (Iacobini, 1997).L'archetipo della porta clathrata vitruviana, che ritorna, nella sua classica versione a traforo, anche nei cancelli paleobizantini della cappella Zen, sarebbe stato scelto mezzo secolo più tardi come motivo-guida per siglare tutti gli accessi esterni di S. Marco. L'esecuzione dell'unitario progetto venne affidata verso il 1300 a Bertuccio (v.), aurifex venetus, e alla sua bottega, cui si devono le due p. laterali di facciata, la p. di S. Alipio, la p. dei Fiori, la p. meridionale e forse la p.-finestra della cappella Zen (Polacco, 1990). Motivo comune a tutti i battenti è la nitida spartizione a croce, che circoscrive su ciascuna anta due campi rettangolari lavorati a giorno, mentre le larghe cornici piatte presentano una minuta decorazione a rilievo con rosette e figurine applicate. Si tratta in genere di busti di santi e profeti, legati al tradizionale repertorio delle 'p. del paradiso', ma sulle imposte di destra della facciata la tematica sacra si arricchisce di motivi profani: sei grandi teste femminili e quattro personificazioni classiche con cornucopia, forse Oceano e la Tellus, sottoposte qui a una interpretatio cristiana in chiave battesimale. Si tratta di immagini ottenute, probabilmente tramite calchi, da autentici esemplari metallici di età romana, facilmente accessibili all'artista in anni in cui è attestata la formazione delle prime raccolte venete di antichità (Favaretto, 1997).L'alta specializzazione raggiunta dalle officine veneziane all'inizio del nuovo secolo spiega perché da Firenze, nel 1329, l'Arte di Calimala inviasse in laguna un suo messo - l'orafo Piero di Jacopo - per reclutare artefici all'altezza di un nuovo, ambizioso progetto: la fusione in bronzo massiccio delle p. del battistero. Inizialmente, l'Arte, che amministrava l'edificio, aveva stabilito di far eseguire i battenti in legno con un rivestimento in rame dorato (1322), ma poi si era decisa a favore della più impegnativa versione in bronzo. Il lavoro, che si protrasse per sei anni, dal 1330 al 1336, fu affidato ad Andrea Pisano (v.), il celebre orafo e scultore toscano che emerge documentariamente sulla scena artistica proprio con questo incarico. Nella fusione, egli fu assistito dal veneziano Leonardo Avanzi, attivo a Firenze fino al 1332 insieme a due lavoranti. Le ante sono suddivise ciascuna in quattordici riquadri, che contengono, entro compassi mistilinei, venti scene della Vita di s. Giovanni Battista e, alla base, otto Virtù. La scelta di questa duplice incorniciatura quadrilobata, che costituisce una delle rarissime deroghe al canone della formella di p. quadrangolare, introduce nell'opera un'intensa nota di modernità gotica, i cui modelli vanno cercati non solo nell'oreficeria, ma anche nella scultura transalpina, per es. nei sette rilievi con le Storie della Vergine all'esterno del coro di Notre-Dame a Parigi (1320). L'assenza di vere e proprie maniglie e l'omogenea distribuzione delle protomi leonine agli incroci della griglia ortogonale obliterano quasi del tutto la connotazione funzionale dei battenti e il potenziale apotropaico tradizionalmente concentrato sulle loro figure, facendo di questa p. qualcosa di tipologicamente nuovo: con le sue formelle tutte cesellate e dorate, essa diviene infatti, ad ante chiuse, quasi un prezioso dossale, un'opera di oreficeria monumentale. Nell'Europa centrale l'impiego delle grandi p. istoriate, siano esse di legno o di bronzo, terminò di fatto con il Duecento. I messaggi religiosi e dottrinari affidati ai battenti delle chiese vennero ormai definitivamente trasferiti nella decorazione scultorea dei portali e delle facciate. È quanto accade, in ambito mediterraneo, anche nella penisola iberica, dove alcune p. trecentesche spagnole, nelle cattedrali di Toledo, Córdova e Siviglia, sono semplicemente rivestite di placche bronzee con ornati geometrici, stemmi, iscrizioni. Un'eccezione alla norma è costituita dalle p. gemelle della chiesa del monastero di Guadalupe (fine del sec. 14°), firmate da un certo Paulus de Collonia. Le imposte, in lamine di bronzo, sono tradizionalmente suddivise in formelle rettangolari, inquadrate a tutt'altezza da una cornice vegetale, ma la loro dimensione è insolitamente dilatata. La Vita della Vergine e quella di Cristo sono infatti condensate su ogni p. in sei sole grandi scene, racchiuse in loggette a timpani inflessi che sembrano quasi gli episodi di un grande retablo scolpito. Alla fine del Medioevo, il futuro destino della p. istoriata si sarebbe giocato in Toscana, a Firenze, dove proprio i bronzi trecenteschi di Andrea Pisano avrebbero costituito, nel 1401, il tema assegnato a Lorenzo Ghiberti, Filippo Brunelleschi, Jacopo della Quercia e altri 'dotti maestri' nel concorso per l'esecuzione delle nuove imposte del battistero (Krautheimer, Krautheimer-Hess, 1956).
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Oltre a rivestire un ruolo significativo nell'arredo architettonico islamico medievale, in quella civiltà la p. (arabo bāb, persiano dar, turco kapı) costituì un elemento simbolicoreligioso rilevante in coincidenza con le funzioni del portale monumentale (ṭāq, pīshṭāq o īvān; Pugačenkova, 1958, pp. 400-405; Watson, 1996; Bernardini, in corso di stampa). In ambito islamico-orientale detto elemento simbolico favorì anche un'iconografia sacra, come attestano le p. raffigurate nella Grande moschea di Fahraj, nella regione di Yazd (Iran), del sec. 9° (Zipoli, Alfieri, 1977, tavv. XXI-XXII).Le p. sopravvissute appartengono principalmente a edifici sacri, moschee, madrase e mausolei, ma anche a palazzi. Vi si può individuare la presenza di elementi decorativi caratterizzanti le arti del legno - gli esemplari conservati sono soprattutto in questo materiale -, ma anche di elementi caratteristici delle decorazioni in stucco (v.) e ancora dell'arte libraria, dalle legature (v.) alla miniatura dei codici. Nel sec. 10° ad al-Ṣābi᾽ (Tuḥfat al-umarā᾽) si deve un raro accenno alla costruzione di p. nelle fonti islamiche: egli elenca tre categorie di grandi p., in ferro, in legno e in legno rivestito di metallo (mulabbas).Per questa sua natura, la tipologia della p., anche se paradossalmente poco studiata, offre uno specchio molto esemplificativo dei diversi stili che caratterizzarono l'arte islamica medievale. Tra gli elementi dell'arredo che maggiormente vengono posti in connessione con la tipologia della p. vi è certamente il minbar: è anzi spesso difficile stabilire quando un reperto è decontestualizzato se si tratti di una p. o di una parte di minbar, essendovi in molti casi una coincidenza stringente nel trattamento degli ornati di entrambi. Un caso significativo in tal senso è costituito da una testimonianza artistica databile al sec. 8°, che rappresenterebbe, stando a Dimand (1931), uno dei primi esempi di p. islamica, anche se lo stesso ricercatore e gli studiosi successivi (Sourdel-Thomine, Spuler, 1973, nr. 147, p. 237) si sono dichiarati incerti sulla funzione dell'esemplare, che potrebbe costituire una parte di minbar. Si tratta di una tavola in legno di teak proveniente da Takrīt, città sul Tigri a N di Baghdad e oggi conservata a New York (Metropolitan Mus. of Art, Rogers Fund), caratterizzata da due pannelli quadrati e due rettangolari annessi, in verticale, nel suo centro. Paragonabile per la sua esuberante decorazione fitomorfa alle decorazioni della facciata del palazzo di Mshattà (Giordania), oggi a Berlino (Staatl. Mus., Pr. Kulturbesitz, Mus. für Islamische Kunst), o agli ornati della moschea di al-Aqṣā a Gerusalemme, il pannello è stato posto in connessione anche con il minbar monumentale della Grande moschea di Kairouan (Tunisia). Ma nella disposizione dei pannelli come nella scelta del repertorio ornamentale l'esemplare di Takrīt risente anche di modelli preislamici, come quello di un battente di p. copta proveniente dal Fusṭāṭ, risalente a un periodo compreso tra i secc. 6° e 7° (Cairo, Mus. of Islamic Art; Pauty, 1931, nr. 4468, p. 1, tav. I).Dalla Samarra abbaside (Iraq) provengono diversi battenti di p. caratterizzati dal rilievo smussato tipico dell'arte di quel contesto tra il 9° e il 10° secolo. Alcuni esemplari conservati a New York (Metropolitan Mus. of Art; Dimand, 1972, p. 62; Welch, 1987, pp. 18-19) attestano il consolidarsi della tipologia a pannelli quadrangolari inseriti in verticale, sebbene, rispetto alla p. di Takrīt, il trattamento ornamentale presenti i tratti consueti dell'eleganza formale dell'arte abbaside della lavorazione del legno, in quella fase caratterizzata da maggiore astrazione nell'impianto decorativo. Un altro esempio significativo in tal senso può essere costituito da un battente di p. abbaside in teak, sempre del sec. 9°, conservato a Parigi (Louvre), che si rifà in maniera stringente a modelli quali i pannelli in stucco del palazzo del Jawsāq al-Khāqānī a Samarra (L'Islam dans les collections nationales, 1977, nr. 309).Le numerose p. egiziane di epoca fatimide, seppure in parte debitrici ai modelli abbasidi per la disposizione dei pannelli e per la sopravvivenza di un repertorio decorativo astratto, introducono tuttavia diversi elementi di novità, che vanno dalla forte stilizzazione dell'ornato all'introduzione di elementi epigrafici e figurativi. Al periodo del califfo al-Ḥākim, e precisamente al 400 a.E./1010, come si evince da un'iscrizione, risale un'importante p., proveniente dalla moschea di al-Azhar (Cairo, Mus. of Islamic Art) e caratterizzata da pannelli disposti in verticale e in orizzontale, che fu realizzata al momento dei restauri della moschea eseguiti dallo stesso califfo (Pauty, 1931, p. 30, nr. 551). A questa p. possono essere accostati sei pannelli sconnessi da una p. conservati a Londra (Vict. and Alb. Mus.; Christie, 1925). Diversi altri esemplari di p. fatimidi sono oggi conservati al Cairo (Mus. of Islamic Art; Pauty, 1931, nrr. 4128, 3553, 3540, 554, 1646, 1055) e attestano una continuità sorprendente del repertorio decorativo sino al sec. 12°, sebbene in alcuni, come in uno splendido pannello del sec. 11° (Cairo, Mus. of Islamic Art; Pauty, 1931, nr. 3391; Sourdel-Thomine, Spuler, 1973, nr. 192, pp. 261-262) caratterizzato dalla raffigurazione araldica di due protomi di cavalli adossati, si colgano un'influenza centroasiatica e l'introduzione di nuovi elementi decorativi quali la palmetta stilizzata e allungata secondo stilemi estranei agli esemplari precedenti. A questo tipo di figurazione può essere accostato un battiporta con draghi alati addossati di epoca artuqide (sec. 13°), conservato a Berlino (Staatl. Mus., Pr. Kulturbesitz, Mus. für Islamische Kunst; Museum für Islamische Kunst, 1979, nr. 14, p. 17).Diverse sono anche le p. provenienti dall'ambito iranico negli stessi secoli. Tra i primi esemplari vanno segnalati tre pannelli in legno provenienti dal villaggio di Uburdān, in Uzbekistan, conservati a Tashkent (State Art Mus. of Uzbekistan), che includono elementi dell'arte sogdiana preislamica (Denike, 1935). Certamente tra le p. monumentali spicca quella del mausoleo di Maḥmūd a Ghaznī, poi trasportata nel Forte Rosso di Agra (India), del sec. 11° (Dimand, 1972, fig. 115; Bronstein, 19773, pp. 2609-2610). Essa è caratterizzata da un doppio trattamento ornamentale sulle due facciate dei battenti: all'interno, ventotto pannelli quadrati - di cui però solo quattordici decorati - offrono un esempio degli elementi peculiari dell'arte ghaznavide, con indubbie sopravvivenze centroasiatiche, sebbene mediate dal gusto abbaside, come nella resa dei rilievi; all'esterno, la p. è caratterizzata da ventotto grandi stelle a sei punte campite da un fitto intreccio vegetale stilizzato. Questa facciata dei battenti attesta il successo di quegli elementi geometrici che caratterizzarono numerose p. successive. Inoltre, le lesene lignee, fittamente decorate a traforo, disposte tra un battente e l'altro, devono essere considerate come un elemento tipico delle p. di ambito iranico, come attesta per es. un'altra p. in legno, più tarda (sec. 12°), proveniente dal Khorasan e conservata a Kuwait City (Nat. Mus., Dār al-Āthār al-Islāmiyya; Atil, 1990, p. 325), caratterizzata da una diversa disposizione geometrica dei pannelli ornamentali, riflettenti al loro interno la coeva arte persiana dello stucco.In Iran, diverse p. presentano una particolare originalità nel trattamento decorativo: tale è il caso del battente, della fine del sec. 11°, conservato a Washington (Freer Gall. of Art; Bronstein, 19773, p. 2614, tav. 1461), caratterizzato da un decoro ad ampi cerchi campiti al loro interno da una fascia epigrafica in cufico (v. Cufica) che racchiude a sua volta dei tondi con decorazione vegetale stilizzata. Alla tradizione iranica può essere accostata una p. risalente al periodo di governo degli atabeg mesopotamici (sec. 12°), con pannelli epigrafici e vegetali, che proviene dalla moschea Nabī Jurjīs di Mossul (Iraq) ed è conservata a Baghdad (Iraq Mus.; The Arts of Islam, 1976, nr. 451, pp. 288-289). Essa attesta la diffusione del gusto iranico in zone limitrofe a quella regione, come dimostra per altro anche la p. conservata nel monastero di Gelati (Georgia), datata 1063 e prodotta nella regione di Derbent (Curatola, Scarcia, 1990, p. 270). A queste p. possono essere accostati alcuni esemplari anatolici, come un battente di p. di minbar, datato 1155, o la p. della moschea di Sadreddin Konevi a Konya, dell'inizio del sec. 14°, opere entrambe conservate a Istanbul (Türk ve İslam Eserleri Müz.; Anadolu Medeniyetleri, 1983, pp. 86, 88, nrr. D.167, D.170).L'elemento geometrico nel trattamento dell'ornato delle p. islamiche medievali ebbe un particolare successo nell'arte dell'Egitto mamelucco, così come in quella dell'Africa settentrionale e della Spagna. Già in una p. della Grande moschea di Sfax, risalente al sec. 9°, questo elemento gioca un ruolo significativo (Papadopulo, 1980, fig. 332) e non mancano elementi geometrici nelle p. fatimidi. Ma esso compare su larga scala in p. posteriori, come nelle p. spagnole e in quelle mamelucche caratterizzate da un decoro stellare, spesso destinato all'intera superficie dei due battenti come se si trattasse di un unico grande pannello. Questa tipologia è presente per es. nella p. della Sagrestía nel monastero di Las Huelgas a Burgos, realizzata tra i secc. 11° e 12° (Gómez-Moreno, 1951, p. 172, fig. 332) o in quella, in legno e bronzo, della cattedrale di Siviglia, denominata p. del Perdón, ascrivibile al sec. 12° (Torres Balbás, 1965, p. 70) e caratterizzata da splendidi battiporta in bronzo recanti fasce epigrafiche che circondano palmette finemente decorate a traforo. Ancora il disegno geometrico si ritrova in una p. lignea del sec. 14°, riccamente decorata da un fitto intarsio includente l'uso dell'osso (Granada, Mus. Nac. de Arte Hispanomusulmán, Alhambra; Torres Balbás, 1935; Al-Andalus, 1992, pp. 372-373). A queste p. vanno ricollegati due pannelli dipinti provenienti da Fez (Kuwait City, Nat. Mus., Dār al-Āthār al-Islāmiyya), sempre del sec. 14°, caratterizzati da un riquadro superiore al cui interno è disposta una stella a quaranta punte e da due pannelli geometrici rettangolari disposti in verticale, uno per battente, nella parte bassa (Jenkins, 1983, pp. 108-109). A Fez sono conservati altri esempi monumentali di porte lignee e bronzee nella madrasa Bū ῾Ināniyya e nella moschea al-Karawiyyin tuttora in situ.Tra le p. mamelucche - oltre a esemplari monumentali in bronzo, come la p. della madrasa di Sulṭān Ḥasan al Cairo (Mus. of Islamic Art), datata 757 a.E./1356 (Ettinghausen, 1976, fig. 12) - ve ne sono diverse caratterizzate spesso dall'uso dell'intarsio, come nel caso della p. mamelucca in palissandro, avorio ed ebano conservata a Parigi (Louvre), databile tra i secc. 13° e 14° (L'Islam dans les collections nationales, 1977, nr. 115). Numerosi altri esemplari sono decorati in maggior parte da un intreccio geometrico su tutta la superficie di un unico pannello, come in una p., di provenienza egiziana o siriana (Parigi, Mus. des Arts Décoratifs), databile tra i secc. 14° e 15° (L'Islam dans les collections nationales, 1977, nr. 116). Non mancano esempi di p. mamelucche commissionate da cristiani, come quella prodotta in Siria (Parigi, Mus. des Arts Décoratifs), del sec. 13°, con un'iscrizione latina (L'Islam dans les collections nationales, 1977, nr. 486).In Persia si sono conservate numerose p. di epoca ilkhanide (sec. 14°), diverse delle quali firmate e datate (Mayer, 1958). Vanno ricordate quella dell'Imāmzāda Qāsim a Tunikabān (1306-1307), quella del santuario di Bāyazīd Bisṭāmī a Bisṭām (1307-1309), che presenta un decoro vegetale coerente con gli stucchi del resto del complesso, e, ancora, una p. conservata a Filadelfia (Univ. Mus., Univ. of Pennsylvania), caratterizzata da formelle con iscrizioni in naskh con la firma dell'artefice Maḥmūd b. ῾Alī al-Basānī e la data (727 a.E./1326-1327). Al 1334-1345 risale il rifacimento della p. del santuario dell'Imām Riżā a Mashhad; di cinque anni posteriore è la p. dell'Imāmzāda di Bābā Qāsim a Isfahan (1340; Curatola, Scarcia, 1990, p. 271).P. di formato monumentale caratterizzarono l'arte timuride. Quella del mausoleo di Aḥmad Yasavī a Turkestan (Kazakistan), del 1397-1399, costituisce uno degli esemplari più significativi di quel periodo: in essa il fitto ornato vegetale, circoscritto da una trama geometrica ed echeggiante ascendenze estremo-orientali, racchiude fasce epigrafiche con tipologie scrittorie diverse, tipiche del repertorio manoscritto; vi si ritrovano iscrizioni in cufico e in thulth monumentale, nelle quali è riportato il nome dell'artefice ῾Izz al-Dīn (Bronstein, 19773, p. 2618, tav. 1467; Nurmuhammadoğlu, 1991). A esse vanno collegate le diverse p. del mausoleo di Tamerlano a Samarcanda (Gūr-i Mīr), del 1405, conservate a San Pietroburgo (Ermitage; Bronstein 19773, pp. 2620-2621).
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