Popoli e culture dell'Italia preromana. Gli Iapigi, gli Apuli e i Dauni
Il nome del territorio, Iapigia, è strettamente connesso con l’etnico Iapigi e, quindi, la trattazione del primo non può assolutamente prescindere dalle popolazioni che l’abitarono per molti secoli prima della conquista romana. Le fonti letterarie greche (Antioch. Hist., apud Strab., VI, 3, 2; Hdt., VII, 170; Thuc., VII, 33; Pol., III, 88, 4) concordano nel chiamare Iapigi (^I¥pugej) tutte le genti della Puglia, dal Promontorio del Gargano al capo di Santa Maria di Leuca. Essi si articolavano, procedendo da sud verso nord, in tre principali gruppi etnici: Messapi, Peucezi e Dauni (Pol., III, 88, 4), da cui sono derivati i nomi delle tre regioni storiche della Puglia. Si tramandano anche altri nomi per più specifici gruppi di Iapigi; accanto ai Peucezi vengono ricordati, nella Puglia centrale, i Poediculi, mentre in Messapia erano stanziate le tribù dei Calabri e dei Sallentini. Sull’estensione del termine Iapigi a tutti i popoli della Puglia concordano, dunque, sia le fonti letterarie antiche sia le interpretazioni che di esse danno gli studiosi moderni. Controversa, invece, è l’estensione del termine Iapigia (Ἰαπυγία). Infatti c’è chi, come G. Nenci (1978), afferma con decisione che “non si può parlare di Ἰαπυγία che per la sola penisola salentina” e chi, viceversa come E. Lepore (1979), ritiene che il concetto di Ἰαπυγία, a partire da Antioco di Siracusa e quindi da Erodoto, comprenda ormai tutta la Puglia, dal capo Iapigio al Gargano. Tale discordanza di opinioni deriva dalla diversa interpretazione di un passo di Erodoto (IV, 99, 5), nel quale vengono messe a confronto le forme geografiche della Iapigia e dell’Attica. La linea ideale che unisce Taranto a Brindisi sarebbe stata allora, nell’interpretazione di Nenci, il limite settentrionale della Ἰαπυγία erodotea, mentre per Lepore essa costituirebbe soltanto il limite dell’estremità meridionale della Ἰαπυγία, così come il Capo Sunio lo è rispetto all’intera Attica. Appare evidente che non è facile scegliere tra l’una e l’altra interpretazione e decidere con certezza che cosa lo storico antico avesse voluto dire. Per quanto ci riguarda saremmo propensi, come già abbiamo scritto in qualche studio precedente, ad accogliere l’interpretazione più estensiva del termine, per le seguenti ragioni.
L’interesse degli storici greci per l’estremità della Puglia, lambita nella loro navigazione verso l’Occidente e in diretto contatto con la colonia greca di Taranto, li ha indotti a interessarsi e a scrivere soprattutto di quella parte della regione e per essa hanno usato il termine Ἰαπυγία. Si tratterebbe, pertanto, dell’impiego di un termine generale invece che di uno più specifico (Messapia). Questa spiegazione appare valida tanto più se si riconosce l’estensione del termine Ἰάπυγες a tutte le popolazioni della Puglia. Viceversa si avrebbe una sostanziale contraddizione tra l’estensione del termine Ἰάπυγες ai popoli dell’intera Puglia, ammessa dallo stesso Nenci, e la limitazione del termine Ἰαπυγία al territorio di una sola frazione di essi, cioè a quello dei Messapi. Pure verso un’interpretazione estensiva del termine Ἰαπυγία porta il passo, anche se tardo, di Diodoro Siculo (XX, 80), che indica come Ἰαπυγία la regione in cui si trovava la città di Silbion, identificata con Gravina, nell’attuale provincia di Bari, assediata dai Romani nel 306 a.C. e da questi tolta ai Sanniti che la presidiavano. Infine, l’interpretazione restrittiva del termine Ἰαπυγία appare ancora meno sostenibile se si considera che al tempo della maggiore pressione sannitica sulla Puglia settentrionale il nome indigeno della regione doveva essere *Iαπυδία/Japùdia, trasformato dai Sanniti in *Apudia e quindi in Apulia, con il mutamento d>l tipico, come osserva G. Devoto, sia dell’osco sia del sabellico.
Possiamo, perciò, considerare legittimo l’uso del termine Iapigia per indicare tutta la regione abitata dagli Iapigi, cioè la Puglia prima della conquista romana. Il momento unitario per l’intera regione è quello della prima età del Ferro (IX-VIII sec. a.C.), allorché essa presenta un’identità culturale comune, diversa e ben caratterizzata da quelle presenti nello stesso tempo nelle regioni vicine, come la Campania e l’Enotria. Successivamente, a partire dal VII sec. a.C., questa unità verrà meno, con una chiara articolazione nelle tradizionali tre culture subregionali della Puglia (la messapica, la peucezia e la daunia), cui concorre in misura non lieve la presenza della colonia greca di Taranto. È opportuno, a questo punto, indicare brevemente le caratteristiche culturali della Iapigia nella prima età del Ferro, cioè nella sua fase unitaria. Innanzitutto va registrato un notevole aumento e un infittirsi degli insediamenti nell’intera regione, attribuibili a un più intenso sfruttamento delle risorse agricole e probabilmente al conseguimento di una maggiore sicurezza interna ed esterna.
L’esistenza di villaggi è documentata sia lungo le coste, dal Gargano al Golfo di Taranto (Monte Saraceno, Salapia, Cupola, Trani, Bari, Egnazia, Otranto, Porto Cesareo, Torre Castelluccia, Saturo, Taranto), sia nella pianura o sulle colline dell’interno (Arpi, Ordona, Lucera, Canosa, Lavello, Minervino Murge, Bitonto, Altamura, Gravina, Monte Sannace, Oria, Manduria, Muro Leccese, Cavallino, Vaste). Gli insediamenti di pianura o collinari erano costituiti da gruppi di capanne sparsi su ampie superfici, mentre quelli costieri mostrano una struttura più compatta. Le unità abitative sono costituite da capanne, costruite con pali, rami e canne e rese impermeabili con strati di fango argilloso. Sono attestati due tipi di capanna: uno a pianta rettangolare, con il fondo dritto o absidato, e un altro di forma ovale o tondeggiante. Per quanto riguarda le pratiche funerarie, le genti iapige inumavano i defunti adagiandoli su un fianco con le gambe e le braccia flesse. Anche la tipologia delle tombe si presenta abbastanza unitaria. Prevale il tipo a fossa rettangolare oppure ovale coperta da ciottoli o da lastroni monolitici, mentre più raro è il tipo a tumulo circolare, riservato a personaggi di rango elevato. Ampiamente diffusa è infine la tomba a enchytrismòs, riservata ai neonati e consistente nella deposizione del corpo dentro grandi recipienti d’impasto.
Legato alle necropoli e limitato quasi esclusivamente alla parte settentrionale della regione è l’uso di segnacoli antropomorfi di pietra, costituiti sia da semplici elementi “a fungo” sia da pilastrini sormontati da una testa. Anche la produzione di manufatti metallici è ben attestata. Essa consiste soprattutto in fibule di bronzo, che comprendono tipi presenti nelle necropoli dell’Italia meridionale e altri di provenienza balcanica e adriatica, come le fibule cosiddette “a occhiali”. Numerosi sono anche i pendagli zoomorfi e antropomorfi di bronzo fuso. In quest’epoca, accanto ai più rozzi vasi d’impasto, si produce in tutta la Puglia una pregevole ceramica depurata con decorazione dipinta di stile geometrico. Si tratta di forme biconiche, ovali o globose, modellate a mano o alla ruota lenta e ornate da un ricco repertorio di motivi geometrici originali che, solo dalla seconda metà dell’VIII sec. a.C., comincia ad accogliere anche schemi e singoli motivi provenienti dalla ceramica tardogeometrica corinzia. Nell’VIII sec. a.C. la ceramica geometrica appare già distinta tra quella prodotta nella Puglia centro-meridionale (Geometrico iapigio) e quella fabbricata nella parte settentrionale (Geometrico protodaunio). Quest’ultimo, a differenza del primo, è ampiamente diffuso al di fuori del territorio d’origine, sia in Campania (Nola, Suessula, Ischia, Pontecagnano), sia nell’area adriatica (Piceno, Dalmazia, Istria).
Riassumendo i caratteri generali di quest’età, si può osservare che la fonte di ricchezza più consistente e diffusa per le genti iapigie doveva essere la coltivazione della terra, integrata all’allevamento del bestiame: ovini e suini nelle zone montuose e collinari del subappennino dauno e delle Murge, cavalli nelle pianure della Daunia e della Messapia. L’artigianato, fiorente in tutta la regione, deve aver soddisfatto soprattutto le esigenze interne, creando le condizioni di una notevole autonomia, ma producendo anche, come nel caso dei Dauni, manufatti di pregio adatti all’esportazione. Passando, infine, sul piano dell’analisi sociologica, si può ritenere, con tutte le dovute cautele, che nella prima età del Ferro non esistesse ancora un’articolazione in classi. È più probabile che gruppi socialmente indifferenziati fossero guidati da “capi”, cui confluiva il surplus economico della comunità, utilizzato in un ristretto ambito familiare per l’acquisto di beni di prestigio.
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È ampiamente accettato da parte di linguisti, storici e archeologi che nei nomi Apulia, Apuli si debbano riconoscere i termini greci Ἰαπυγία, Ἰάπυγες ovvero il risultato del passaggio dall’originario Japùdia-Ἰαπυδία allotropo di Ἰαπυγία attraverso la fonetica osca (d>l). La trasformazione del nome greco, o ancora meglio di quello indigeno affine, sarebbe avvenuta nell’area più settentrionale della Puglia al tempo e a opera delle popolazioni sabelliche. Queste, infatti, tra il V e il IV sec. a.C. avevano occupato ampie zone della Daunia settentrionale e interna continuando a premere sui maggiori centri dauni, come Canosa e Arpi. L’alleanza di Roma con Arpi, risalente già al 326 a.C., segna l’inizio dell’interesse e della presenza effettiva dei Romani in Puglia e anche l’assunzione nella lingua latina dei nomi che connotavano il popolo e la regione con cui avrebbero avuto sempre più stretti rapporti, ossia gli Apuli e l’Apulia. Questi sono, quindi, i termini utilizzati dai Romani per indicare le popolazioni e la regione che i Greci continueranno a chiamare a lungo Iapigi e Iapigia. Infatti, solo negli scrittori greci di piena età romana faranno la loro apparizione i termini Ἀπουλία, Ἄπουλοι, ricalcati a loro volta su quelli latini.
Nel corso della rapida avanzata romana in Puglia, il termine si estese presto a tutta la parte centro-settentrionale della regione, ovvero ai territori occupati dai Dauni e dai Peucezi, cioè da due dei tre principali gruppi tribali in cui si dividevano gli Iapigi (il terzo era costituito dai Messapi). La progressiva forte attenuazione delle differenze culturali fra Dauni e Peucezi e la conseguente difficoltà di distinzione dei due antichi gruppi tribali dovettero portare al disuso dei due termini precedenti, come è detto esplicitamente da Strabone (VI, 3, 8), e favorirono viceversa i nomi usati dai Romani, utilizzati ormai in maniera indifferenziata per le due antiche entità etnico-culturali. Se è vero che il termine Apulia viene assunto dai Romani negli ultimi decenni del IV sec. a.C., al tempo del loro primo concreto contatto con la Puglia, esso è attestato per la prima volta circa un secolo dopo, tra la fine del III e l’inizio del II sec. a.C., in due commedie plautine, ossia in un contesto di generale e immediata comprensibilità da parte del pubblico romano (Plaut., Cas., 72, 77; Mil., 647).
Per quanto riguarda l’estensione del termine Apulia, esso ufficialmente non deve avere mai superato il territorio della Puglia centro-settentrionale, cioè quello a nord-ovest di una linea che congiunge Taranto a Egnazia; a sud-est di questa, infatti, cominciava la Messapia dei Greci o la Calabria dei Romani, abitata dai Calabri e dai Salentini. Questa bipartizione storica e culturale dell’antico territorio degli Iapigi persisterà e sarà avvertita come tale durante tutto il corso dell’Impero romano, come testimonia il mantenimento del doppio nome, per la II regio (Apulia et Calabria), indicata come tale già dal momento dell’istituzione da parte di Augusto. Nella tradizione storica e letteraria non mancano, però, confusioni e soprattutto l’estensione del termine Apulia a centri o parti del Salento e alla stessa Taranto (Diod. Sic., XVI, 2, 3: a proposito della fondazione di due colonie da parte di Dionisio II, probabilmente nel Salento; Liv., XXXIX, 29, 8; 41, 6-7; XL, 18, 4; 19, 9: laddove chiama Apulia la provincia assegnata ai pretori residenti a Taranto, al tempo della rivolta dei pastori degli anni 186-181 a.C.; Iust., XII, 2: nell’espressione Brundisium urbs Apulis).
Appare necessario indicare anche l’arco cronologico entro il quale è legittimo usare il termine Apuli e, comunque, quello qui considerato. Come si è detto, non si ritiene legittima e giustificata l’estensione del termine Apuli all’età arcaica e classica, per le quali possono essere utilizzati con maggiore aderenza storica i termini Iapigi, per tutti i popoli indigeni della Puglia, e Dauni, Peucezi e Messapi, per le loro maggiori articolazioni. Il nuovo termine Apuli andrebbe invece usato, in senso stretto, per buona parte dell’età ellenistica, dagli ultimi decenni del IV ai primi del I sec. a.C. Con la guerra sociale e con l’estensione della cittadinanza romana a tutti i centri italici, la Puglia, infatti, non solo rientra completamente nella struttura politico-amministrativa dello stato romano, ma anche culturalmente non appare più differenziata rispetto alle regioni contigue. Persistendo, tuttavia, la distinzione regionale e poi provinciale fino alla tarda antichità, si segnaleranno brevemente gli aspetti principali degli Apuli anche nell’età romana, tardorepubblicana e imperiale.
All’inizio dell’età ellenistica l’Apulia presenta ancora caratteristiche culturali ben definite, diverse anche da quelle delle regioni contigue come il Salento e la Lucania. Si tratta, nella maggior parte dei casi, di elementi culturali della precedente tradizione indigena ancora vivi e resistenti di fronte alla progressiva avanzata della cultura ellenizzante. Questa, infatti, era già stata assorbita da tempo dalle regioni più vicine e da alcuni dei maggiori centri propulsori della Magna Grecia, quali Taranto e Metaponto. Un contributo a una maggiore caratterizzazione culturale degli Apuli è dato, tuttavia, oltre che dai precedenti locali, anche da nuovi apporti dovuti al contatto con la Campania etruschizzata prima, con i Sanniti poi e, infine, con il mondo romano. Se prendiamo in esame il sistema di insediamento e le forme di fortificazione dei centri abitati possiamo trarre già utili informazioni. È noto ormai che presso gli Iapigi il sistema di occupazione del territorio era fondato, sin dalla protostoria, su insediamenti di tipo vicano- paganico. Ciò spiega la mancanza di veri e propri centri urbani, la diffusa presenza nel territorio di segmenti di abitato e, infine, la vicinanza e la coesistenza delle strutture abitative con gruppi di sepolture pertinenti a esse.
L’acquisizione del modello urbano proprio della civiltà greca, avviata nel Salento già dall’età arcaica, era appena iniziata fra gli Apuli nel momento in cui incontrarono i Romani. È questa, infatti, la fase della costruzione di cinte urbane realizzate in blocchi squadrati secondo la tecnica ellenica e soprattutto della concentrazione della popolazione rurale in alcuni dei nuovi centri urbani, con il conseguente abbandono dei numerosi villaggi sparsi nel territorio. Un impulso a questa trasformazione, anche per un più facile controllo delle popolazioni assoggettate, fu dato subito dai Romani a loro volta portatori del modello urbano ellenico; essi infatti già nel 315/4 a.C. costruivano le mura della nuova colonia Luceria, in Daunia, nella tecnica a blocchi squadrati. La costruzione di mura urbane che definiscono nettamente l’area interna della città fa cessare presto la secolare mescolanza di abitazioni e di tombe, provocando di conseguenza, per ovvie esigenze di spazio, lo sviluppo di vaste necropoli extra moenia. Tale mutamento, dovuto a esigenze pratiche, non scaturì almeno all’inizio dall’adozione di una diversa ideologia funeraria, come è dimostrato dalla presenza di sepolture di rango in pieno centro urbano, ancora nel III sec. a.C., a Monte Sannace e a Canosa.
D’altra parte, per restare nell’ambito del rituale funerario e delle tipologie tombali, la pratica della deposizione rannicchiata propria degli Iapigi resiste accanto a quella supina comune agli altri popoli (Greci, Sanniti, Romani) almeno sino alla fine del II sec. a.C., come è attestato da una tomba a semicamera scoperta nel 1975 ad Altamura presso Bari. Tra le acquisizioni dall’esterno, rispettivamente dall’Etruria e dalla Campania etruschizzata, va considerato l’uso delle tombe a grotticella risalente alla metà del V sec. a.C., ma sviluppatosi soprattutto nel corso del IV sec. a.C., e quello della pittura parietale figurata, che contraddistingue le tombe dell’Apulia, segnandone quasi il confine a sud con gli esempi più meridionali di Egnazia. Anche nell’ambito della produzione ceramica, gli Apuli offrono un quadro originale. Una parte considerevole dei grandi vasi apuli a figure rosse dell’ultimo periodo sembra possa essere stata fabbricata da officine impiantate ormai nei maggiori centri apuli (Canosa, Arpi, forse Ruvo), peraltro grandi importatori da tempo di tale ceramica prodotta a Taranto. Alle classi vascolari di derivazione greca si affiancano, nello stesso tempo, quelle che continuano o ravvivano la tradizione locale, come la “listata” e la “policroma e plastica”. L’indubbia prosperità dei maggiori centri della regione, soprattutto di quelli settentrionali, attestata dalla ricchezza dei corredi contenenti spesso preziosi oggetti d’importazione e dalla persistenza di una florida attività artigianale, si interrompe bruscamente alla fine del III sec. a.C. con le vicende della guerra annibalica, che coinvolgono pesantemente le popolazioni dell’Apulia, compresi i suoi ceti dirigenti.
Le distruzioni belliche e le confische operate dai Romani di ampie parti dei territori delle città ribelli producono una grave crisi economica e un diffuso malessere sociale, da cui però la regione appare risollevata già intorno alla metà del II sec. a.C. Infatti la ristrutturazione economica avviata dai Romani, anche attraverso il potenziamento o la creazione di nuove colonie, come quella di Siponto, incrementò alcuni importanti settori della produzione agricola, come la viticoltura e l’olivicoltura, fiorenti nel territorio canosino e sulla costa daunia e opportunamente collegate alle fornaci di anfore apule, di cui sono state messe in luce ampie testimonianze poco a nord di Brindisi. Non vanno trascurati infine i vantaggi nel trasporto e nella di stribuzione dei prodotti agricoli, assicurati dalla vasta rete romana di collegamenti stradali e marittimi e dall’inserimento dei prodotti apuli nell’ampia sfera economica controllata dai Romani. Tra la fine del II e l’inizio del I sec. a.C. si può dire concluso il processo di romanizzazione degli Apuli. Anche nell’uso della lingua domina ormai incontrastato il latino, rispetto sia al greco sia al messapico, che in Apulia sembra essere stato più legato al modello della più recente koinè greca, sì da essere definito “apulo” dai linguisti. Intorno alla metà del I sec. a.C. si svilupparono nuovi fenomeni negativi per l’Apulia: le devastazioni connesse alla guerra sociale, le scorrerie di Spartaco, la chiusura dei mercati dell’Egeo in seguito alla rivolta anti-italica e alla guerra mitridatica. A tutto ciò va aggiunta la concorrenza portata ai prodotti agricoli apuli da quelli dell’Istria, della Dalmazia e, in genere, dell’Italia settentrionale.
Si giunse così a una nuova più grave crisi che portò all’abbandono delle colture specializzate dell’olivo e della vite, legate ancora alla piccola e media proprietà, sostituite dalla cerealicoltura propria di un’organizzazione latifondistica a mano d’opera schiavile. Infine, l’abbandono di vaste porzioni di territorio agricolo favorì la pastorizia, caratterizzata proprio fra gli Apuli e nel contiguo Sannio dalla transumanza. Questo quadro economico persiste durante tutta l’età romana e, possiamo dire, caratterizza l’economia e il paesaggio agrario apulo fin quasi ai nostri giorni. Durante tutta l’età imperiale viene migliorata e ampliata la rete stradale, oggetto di particolari cure fino alla tarda antichità. Se ne comprende la ragione se si considera che dalla Puglia passava il percorso più breve fra Roma, la Grecia e l’Oriente. Dei maggiori centri, alcuni, come Arpi e Salapia, decaddero presto dopo la guerra annibalica, mentre altri, come Lucera, Siponto e Canosa, ebbero un notevole incremento fino alle soglie del Medioevo. In particolare Canosa, quale importante centro urbano e quindi sede del governatore della provincia, poté godere di particolari provvidenze e cure da parte di imperatori e mecenati, che l’arricchirono di edifici monumentali, oggi solo in piccola parte conservati o riconoscibili.
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I Dauni costituivano uno dei tre gruppi etnici principali in cui si articolavano gli Iapigi, i quali hanno abitato la Puglia per un millennio circa, prima di essere assoggettati e integrati nel mondo romano. Essi occupavano la parte settentrionale della regione, ossia la Daunia, che comprendeva tutta l’attuale provincia di Foggia, compreso il Gargano, un’ampia fascia a sud del basso corso dell’Ofanto, ora in provincia di Bari, e l’area melfese, tra l’alta valle del Bradano e il medio corso dell’Ofanto, appartenente attualmente alla Basilicata. Le origini mitiche dei Dauni si fanno risalire al re illirico Dauno e ai suoi rapporti con Diomede, giunto in Daunia dopo la guerra di Troia. Sembra probabile, in realtà, che alla formazione della civiltà daunia – e, in un ambito più vasto, di quella iapigia – abbiano contribuito gruppi di provenienza illirica, in un ampio arco di tempo che va dalla fine del XII a tutto l’XI sec. a.C. Tuttavia soltanto a partire dalla prima età del Ferro si riesce a distinguere la cultura dei Dauni da quelle, per tanti aspetti simili, delle vicine Peucezia e Messapia.
All’inizio dell’età del Ferro il sistema insediativo daunio appare finalmente stabilizzato, consentendo un’analisi delle sue caratteristiche. Sono noti due gruppi fondamentali di abitati: quelli compatti, spesso arroccati su colli e difficilmente accessibili, e, molto più numerosi, quelli sparsi. Nel primo gruppo si inseriscono parecchi villaggi del Gargano, dei quali il più noto è quello di Monte Saraceno. Questo tipo di insediamento sembra decadere e rarefarsi nella tarda età del Ferro, a vantaggio dei grandi abitati di pianura o di collina, certo più idonei allo sfruttamento agricolo del territorio. Questi ultimi, tra i quali si possono ricordare Arpi, Ordona, Lavello, rientrano in un sistema insediativo vicano-paganico, caratteristico della Daunia, il quale comincerà a essere sostituito da quello urbano soltanto dalla seconda metà del IV sec. a.C., per influsso greco e romano. L’insediamento sparso aveva come punto di riferimento un luogo più sicuro e meglio difendibile (collina, laguna), oppure gravitava e in parte era compreso in una vasta area delimitata e difesa da un terrapieno e da un fossato, come avviene per l’aggere di Arpi.
In tal caso non si può parlare di centri urbani, ma di luoghi di convergenza e di rifugio in caso di pericolo, sia per l’enorme lunghezza dei perimetri di questi insediamenti (quello di Arpi raggiunge i 13 km; né tanto minore doveva essere la superficie occupata da Salapia, Tiati, Ordona), sia perché all’interno di essi si trovavano gruppi di abitazioni con le relative, vicine necropoli e ampi spazi liberi, per la coltivazione e per il ricovero degli abitanti e degli animali del territorio circostante. Gli abitati finora descritti erano formati da capanne: infatti dalle origini e per tutta l’età arcaica le abitazioni daunie consistono in capanne di materiale deperibile. Agli esempi più antichi, ritrovati a Salapia, di forma rettangolare, talvolta absidata, succedono capanne a pianta tondeggiante, come quelle scoperte a Lavello, in contrada Casino. Sul fondo di terra battuta era impostato l’elevato, sostenuto, lungo il perimetro, da una fila di pali e completato da rami e da canne resi impermeabili da strati di argilla. Solo dalla seconda metà del VI sec. a.C. si osserva, in alcuni casi, l’introduzione di esili fondazioni, formate da un filare di pietre e di ciottoli, che ricalcano l’andamento tondeggiante delle capanne tradizionali.
Costante e caratteristica dell’intera Puglia è la pratica dell’inumazione e l’uso di adagiare i cadaveri in posizione rannicchiata. Relativamente più varia si presenta la tipologia delle tombe, dipendendo sia dalla situazione ambientale, sia dal rango e dall’età del defunto. Infatti lo stesso tipo a fossa assume forme diverse nelle necropoli rocciose del Gargano e in quelle del Tavoliere. Nelle prime le fosse hanno una forma troncopiramidale e sono coperte da lastroni monolitici, mentre nelle seconde le fosse, rettangolari, sono coperte da cumuli di pietre o di ciottoli. Più rare e impegnative sono, invece, le tombe a tumulo, sepolture monumentali riservate a pochi. Infine, ampiamente diffuse e riservate agli infanti sono le tombe a enchytrismòs, consistenti nel seppellimento in grossi recipienti d’impasto. Strettamente connessa con le necropoli è la scultura in pietra, che si sviluppa sino alla fine dell’età arcaica e distingue la Daunia dalle altre due regioni della Puglia. Alla prima età del Ferro appartengono le stele antropomorfe scoperte a Monte Saraceno, ma attestate anche ad Arpi e a Troia, costituite da un rozzo blocco parallelepipedo, sormontato da teste fortemente espressive. Successivamente, nel corso del VII e del VI sec. a.C., le stele si evolvono in forma di sottili lastre rettangolari, decorate a incisione da motivi geometrici e da scene figurate e accompagnate dagli ornamenti personali o dalle armi. La lastra-corpo è sormontata da una testa iconica o aniconica, di vario tipo. Le stele sono diffuse soprattutto nella fascia costiera, lagunare, in cui si trovavano gli insediamenti di Cupola e di Salapia, ma alcuni frammenti di esse provengono anche da zone più interne, come Arpi, Tiati, Ordona, Melfi. Ampia e varia è la produzione metallurgica della Daunia, che raggiunge il livello più alto con i bronzetti figurati, antropomorfi e zoomorfi, utilizzati come pendagli o facenti parte di manufatti più complessi, come i “carrelli” rituali. Ma quantitativamente molto più rilevanti sono le fibule, tra le quali sono rappresentati i tipi più diffusi nell’Italia meridionale, cui si aggiungono più specificamente quelle a doppia spirale (cd. “acchiali”), nelle diverse varianti. Tra le armi, sono documentate soprattutto le cuspidi di lancia di bronzo o di ferro e rare spade di ferro con impugnatura a crociera. Pure di ferro sono i lunghi spiedi posti nelle tombe più ricche, per sottolineare una particolare dignità del defunto.
Ma la produzione più importante e nota dei Dauni è quella della ceramica figulina, dipinta con motivi geometrici. Essa si distingue da quella in uso nelle altre regioni pugliesi per forme e per decorazione, già almeno dall’inizio dell’VIII sec. a.C. Per tutto questo secolo si sviluppa il cosiddetto Geometrico protodaunio, il quale presenta caratteri tecnici e stilistici propri anche delle fasi successive. I vasi sono modellati a mano o alla ruota lenta e dipinti, sulla superficie chiara, con motivi geometrici di colore bruno. Dal VII alla metà del VI sec. a.C. si svolge la fase Daunio I, articolata stilisticamente in due “scuole”, facenti capo l’una a officine della Daunia centrale, come quelle di Herdonia (Ordona), l’altra al fiorente centro di Canosa. I prodotti di questa “scuola” si arricchiscono con l’adozione di un secondo colore, il rosso, accanto al tradizionale bruno-nero, differenziandosi ancora di più, per forme e decorazione, da quelli della scuola ordonese nel corso della successiva fase Daunio II. La base economica principale per i Dauni di questa fase storica è stata certamente l’agricoltura, integrata dall’allevamento del bestiame.
Tuttavia una funzione non secondaria deve aver svolto l’artigianato, il quale, oltre a soddisfare pienamente le esigenze interne, riu- scì, in alcuni settori, come quello della ceramica, a esportare i propri prodotti anche in regioni lontane. È noto, infatti, che vasi del Protodaunio e del Daunio I sono stati ritrovati in buon numero sia in Campania, sia lungo le coste adriatiche (Piceno, Dalmazia, Istria). Per quanto riguarda l’organizzazione sociale dei Dauni, si assiste al passaggio da una società ancora sostanzialmente indifferenziata, fatta eccezione per i capi delle singole comunità e per i gruppi aristocratici, testimoniati dalle ricche tombe “principesche” e da strutture “palaziali”, con funzioni molteplici. A partire dalla seconda metà del VI sec. a.C. si avverte in Daunia un’apertura agli influssi provenienti da altre culture, quelli ellenici dell’area magno-greca e quelli etruschi di origine campana, mentre si indeboliscono i rapporti secolari con i Liburni nell’area adriatica. Oltre all’importazione di ceramiche greche, soprattutto a Canosa, si assiste alla diffusione di antefisse di tipo greco a gorgoneion, nella Daunia meridionale, e di tipo etrusco-capuano, a testa femminile nimbata, nella Daunia centrosettentrionale. Ciò rispecchia un coevo sviluppo dell’architettura, anche domestica, con il passaggio dalla capanna alla casa con pianta quadrangolare, zoccolo di pietre, elevato di legno e mattoni crudi e tetto di tegole.
Nell’ambito della pratica e della tipologia funerarie non si avvertono mutamenti di rilievo, se si eccettuano la scomparsa delle stele e il primo apparire, nel corso del V sec. a.C., della tomba “a grotticella” artificiale, che sarà comunissima nel IV e III sec. a.C. Dagli ultimi decenni del V sec. a.C. e nel corso del successivo si rafforza e si completa l’ellenizzazione della Daunia. A ciò contribuiscono le aristocrazie indigene, le quali si impegnano sempre più nell’importazione di oggetti di prestigio greci e nell’imitazione degli usi e dell’ideologia ellenici. Inoltre, nei decenni tra il IV e il III sec. a.C., giunge a compimento anche in Daunia il lungo processo evolutivo che porta alla nascita della città. Ne consegue una rar efazione dei numerosi insediamenti sparsi nel territorio a vantaggio dei pochi centri maggiori, che si rafforzano e si organizzano come veri centri urbani. Il fenomeno è stato ben riscontrato a Canosa, a Canne e a Ordona. Significative innovazioni si riscontrano anche nel costume funerario. Accanto alla tradizionale deposizione su un fianco, in posizione contratta, se ne registra una nuova, “supino-contratta”, per la quale il busto e il bacino si presentano supini e le gambe flesse. Inoltre, accanto alla più diffusa inumazione, appare, in tombe a grotticella e a camera canosine, il rito della semicremazione in situ. Anche la tipologia tombale si rinnova e si arricchisce.
Oltre alle tradizionali tombe a fossa e alle più recenti a grotticella si diffondono le tombe a semicamera di origine tarantina e i grandi ipogei a una o più camere. Questi due ultimi tipi di tombe sono ornati, talvolta, da scene figurate dipinte, le quali costituiscono un’altra acquisizione della civiltà daunia nella sua ultima fase di sviluppo. I prodotti dell’artigianato appaiono ormai simili a quelli presenti in altre aree geografiche, soprattutto quelli in metallo e in materiale prezioso. Soltanto nella ceramica la Daunia conserva ancora una propria originalità. Continua, infatti, per tutto il IV sec. a.C. la tradizionale ceramica di stile geometrico, arricchita da motivi vegetali (Daunio III), nella cui produzione si inserisce un terzo centro, Ausculum, accanto ai due precedenti. A Canosa, inoltre, vengono create due nuove classi vascolari, la “listata” e quella “plastica e policroma”, la quale si protrarrà almeno fino alla metà del II sec. a.C. Il primo impatto con i Romani, dunque, non deve aver recato danno ai centri dauni, almeno a quelli alleati, come Canosa e Arpi, i quali proprio in questo periodo mostrano un particolare rigoglio (per Canosa basti ricordare il fastoso santuario in località San Leucio). Infatti, alle tradizionali fonti di ricchezza si erano aggiunte la viticoltura e l’olivicoltura, mentre i traffici commerciali potevano godere di un allargamento e di un notevole incremento sotto la protezione politico-militare dei Romani.
È soltanto dopo la guerra annibalica che il precedente sistema economico dei centri dauni, dominato dalle aristocrazie locali, entra in crisi e viene sostituito da una nuova economia, fondata sul latifondo e su una ristrutturazione delle colture e delle fonti di ricchezza più funzionale alle esigenze di un mondo ormai enormemente dilatato e dominato politicamente da Roma.
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