PONTIFICALE
Il p. costituisce un compendio di testi e prescrizioni rituali di specifica pertinenza del vescovo.Nella prima edizione completa, realizzata a Magonza intorno alla metà del sec. 10°, la raccolta assomma un insieme di benedizioni, messe votive, sermoni per occasioni liturgiche particolari, testi giuridici relativi alle funzioni episcopali, canoni di concili. Alle spalle di questo ponderoso sforzo compilativo, che prende il nome di p. romano-germanico e matura nell'ambito della corte ottoniana, sussiste una lunga fase preparatoria della quale si conosce assai poco. In effetti, non sopravvive alcun documento manoscritto anteriore al sec. 9° nel quale possa con sicurezza riconoscersi un libro specificamente approntato per l'uso del vescovo (Rasmussen, 1976). Del resto, sino a quel momento, i compiti cerimoniali del vescovo non si distinguevano in modo troppo netto da quelli del clero ordinario. Ciò spiega perché, precedentemente a tale fase, quelle parti della liturgia non eucaristica riservate alla funzione episcopale - formule di benedizione e ordines di varia natura - abbiano trovato spesso collocazione all'interno dei sacramentari. Poteva tuttavia accadere che recitativi e prescrizioni relative a offici particolari fossero trascritti su fascicoli staccati di piccola dimensione detti quaterni o libelli. Per formule di particolare solennità è attestato con una certa frequenza anche l'uso di rotuli.La forma più nota e meglio documentata di libro liturgico altomedievale in forma di rotulo è rappresentata dagli Exultet (v.). Sebbene il cerimoniale della Pasqua non sia di esclusiva competenza del vescovo, ma rientri in senso più largo tra le mansioni sacerdotali, è assai probabile che molti rotuli dell'Exultet siano stati eseguiti per l'uso di vescovi. Ciò spiegherebbe il grande rilievo conferito alla figura vescovile nei cicli illustrati che formano la principale caratteristica di questi manufatti.Certamente riferibili a un vescovo sono, in ogni caso, i due più antichi rotuli liturgici italo-meridionali conservati: il p. De ordinibus conferendis e la Benedictio fontis (Roma, Casanat., 724/I; 724/II); il p. e il benedizionale, uniti insieme già in antico, sarebbero stati eseguiti forse a poca distanza di tempo l'uno dall'altro per il primo arcivescovo di Benevento, Landolfo (957-984), ricordato da una vistosa nota di possesso apposta in fondo al testo delle ordinazioni. Il primo dei due rotuli conserva formule e prescrizioni rituali relative all'ordinazione dei gradi ecclesiastici minori, dagli ostiari ai sacerdoti. L'ordo è arricchito da un ciclo di dodici disegni acquarellati che illustrano le rubriche destinate a guidare il celebrante nel corso della cerimonia. Si tratta - come è stato più volte osservato (Reynolds, 1983) - di una testimonianza unica, tanto sotto il profilo testuale quanto sul piano iconografico. Testo e immagini documentano quali fossero l'articolazione gerarchica e la prassi di ordinazione del clero italo-meridionale prima della grande riorganizzazione ottoniana. In effetti, non molto tempo dopo la stesura, il testo sarebbe stato uniformato agli usi imposti dal p. romano-germanico (Reynolds, 1990).La forma del rotulo, spesso associata a consuetudini rituali preesistenti alla riforma romano-germanica, sembra aver conosciuto una certa diffusione nella liturgia pastorale dell'Alto Medioevo. Un rotulo, o più esattamente una rotula consecrationis, sulla quale erano riportate le formule di consacrazione episcopale, è per es. ricordata nel resoconto dell'ordinazione vescovile di Incmaro di Reims (869 ca.; Ep., XXIX; Andrieu, 1953). Nel cerimoniale in uso presso la Chiesa milanese è spesso menzionato un rotularius, al quale erano affidati la custodia dei rotuli liturgici e il compito di presentarne i testi alla lettura del vescovo. Un prezioso riflesso iconografico di questo rituale può riconoscersi nelle sequenze illustrate dei citati p. e benedizionale di Benevento, dove alla figura del vescovo officiante è spesso affiancato un diacono con un rotulo aperto. Una sopravvivenza dell'uso di rotuli del tutto esterna alla regione beneventana sembra testimoniata, ancora nel sec. 11°, da un frammento conservato ad Asti (Seminario Vescovile, Bibl., XIII; Dell'Oro, 1988).Tra il sec. 9° e il 10° i p. conobbero una rapida evoluzione: ai semplici libelli in forma di rotulo o di fascicolo non rilegato sembrano progressivamente essersi sostituite le prime collezioni di ordines strutturate per sezioni che accorpano il contenuto di più libelli. La forma di questi 'p. primitivi' (Rasmussen, 1977) è quanto mai varia, spesso fortemente influenzata da culti locali e generalmente assai modesta sul piano decorativo. Tra le poche eccezioni si segnalano il p. di Sens (San Pietroburgo, Saltykov- Ščedrin, Lat. Q.v.I. 35; Staerk, 1910; Rasmussen, 1977) e alcuni manoscritti di scuola anglosassone: il p. di Sherborne, dell'ultimo quarto del sec. 10° (Parigi, BN, lat. 943), il p. dell'arcivescovo Roberto di Jumièges, del 980 ca. (Rouen, Bibl. Mun., 369, già Y. 7), e il p. di Lanalet, del sec. 11° (Rouen, Bibl. Mun., 368, già A. 27).L'assetto decorativo dei p. più antichi è scarno e disomogeneo. In generale, il repertorio figurativo dei rari esemplari illustrati non si discosta dai temi cristologici ricorrenti in altri manoscritti liturgici del periodo, in special modo nei sacramentari. Abbastanza più rare risultano le scene liturgiche. In taluni casi la scelta di un soggetto iconografico rivela però un'attenta lettura simbolica del testo: la triplice rappresentazione di Cristo che orna l'intestazione del p. di Sherborne (cc. 5v-6v) trae ispirazione da alcuni versetti di Sal. 23 (22), pronunciati nel corso della cerimonia di dedica di un nuovo edificio ecclesiale, secondo un uso documentato intorno alla fine del sec. 10° negli ordines in dedicatione ecclesiae dell'area anglosassone. Non a caso, nel più tardo p. di Lanalet, alle tre immagini del Cristo triumphans è sostituita una scena di consacrazione (Rosenthal, 1981).La genesi del p. conosce una tappa evolutiva di eccezionale importanza intorno alla metà del sec. 10°, come detto, con la nascita del p. romano-germanico, specificamente destinato all'uso del vescovo e comprendente tutto il materiale liturgico necessario per le occasioni celebrative relative alla vita della diocesi: ordines di consacrazione dei gradi minori, conferme di abati, dediche di edifici. Vi si accompagna anche una certa quantità di testi per uso didattico: expositiones missae, sermoni per particolari festività, formule di esorcismo, iudicia Dei, excerpta giuridici e canoni di concili relativi allo statuto giuridico della funzione episcopale. La raccolta, composta da alcune centinaia di item, è nota attraverso ca. cinquanta esemplari, prodotti tra la fine del 10° e il 12° secolo. Lo studio di questo corpus ha permesso di ricostruire la fisionomia dell'archetipo della collezione, costituito nello scriptorium di St. Alban a Magonza tra il 950 e il 962 (Andrieu, 1931-1961, I; Vogel, Elze, 1963-1972, I). Non a caso, nell'arco di questo periodo, le funzioni di vescovo di Magonza e di arcicancelliere dell'impero erano riunite nelle mani di un fratello di Ottone II (961-983), Guglielmo, in carica dal 954 al 968.Compilata sotto la diretta supervisione degli ambienti ecclesiastici di corte, la collezione di Magonza costituì uno dei principali strumenti dell'unificazione politico-liturgica dell'impero messa in opera dagli Ottoni facendo perno sugli episcopati. Nato in funzione di una riorganizzazione interna al mondo germanico, il p. romano-germanico si sarebbe presto diffuso oltre i confini dell'area d'influenza politica dell'impero, per divenire un vero e proprio modello normativo. Lo dimostra la precoce fortuna manoscritta della collezione, che annovera tra le copie più autorevoli diversi testimoni italiani e francesi.Sofisticata selezione di testi, frutto di un ambizioso disegno di riforma religiosa, sotto il profilo librario il p. di Magonza non fu oggetto di un'altrettanto raffinata riflessione progettuale. Quasi certamente l'archetipo della collezione non fu dotato di un corredo illustrativo elaborato ad hoc.La decorazione dei rari esemplari di lusso è in genere limitata al frontespizio, nel quale trovano spazio ritratti di committenti e scene di dedica. Un'immagine di quest'ultimo tipo orna il p. commissionato dal vescovo Ottone di Riedenburg (ca. 1060-1089) per la cattedrale di Ratisbona (Parigi, BN, lat. 1231, c. 1v; Kuder, 1987). In altri casi, l'intestazione del manoscritto può essere occupata da rappresentazioni a carattere ufficiale, come nel frontespizio di un p. adattato per l'uso della cattedrale di Bamberga, dove compare, tra due vescovi, Enrico II il Santo (m. nel 1024) munito delle insegne regali (Bamberga, Staatsbibl., Lit. 53). L'immagine contiene un evidente riferimento all'ordo d'incoronazione nel quale sono menzionati due vescovi; tuttavia non è chiaro se il volume sia stato approntato in occasione dell'investitura regale o di quella imperiale di Enrico II, rispettivamente avvenute nel 1002 e nel 1014. Una scena d'incoronazione imperiale, anche questa officiata da due vescovi, introduce l'ordo de incoronando rege del p. di Sciaffusa, del 1080 ca. (Sciaffusa, Stadtbibl., Ministerialbibl., Min. 94, c. 29r; Weidemann, Weidemann, 1992).L'influenza della collezione magontina è avvertita anche nell'illustrazione di manoscritti che ne contengono solo qualche estratto. Per es. nel sacramentario del vescovo Varmondo (969-1005 ca.; Ivrea, Bibl. Capitolare, 86) le scene di ordinazione regale (c. 2r) e pastorale (c. 8r) che aprono il ciclo illustrato risultano visibilmente ispirate ai corrispondenti ordines della raccolta di Magonza, inseriti in una sezione aggiunta al testo del sacramentario copiato per il vescovo eporediense nei primi anni del sec. 10° (Dell'Oro, 1970; Magnani, 1990).Alla rapida diffusione del p. di Magonza seguì, tra il sec. 11° e il 12°, un lungo periodo di assestamento e revisione che si svolse in massima parte a Roma, negli ambienti di origine della riforma gregoriana. Meno definito resta il ruolo di altri centri del movimento riformatore, in primo luogo quello del circolo intellettuale raccolto dall'abate Desiderio (1058-1086) a Montecassino. Già all'inizio del sec. 11° comunque, all'officina grafica dell'abbazia cassinese sono con sicurezza riferibili due importanti testimoni della famiglia italiana del p. romano-germanico, il codice di Montecassino (Bibl., 451) e quello che attualmente si trova a Roma (Vallicell., D. 5), uno dei quali deve certamente identificarsi con il p. Romanum eseguito per l'abate Teobaldo verso gli anni trenta del secolo (Chronica monasterii Casinensis, III, 54). Sulla base di questo modello, a distanza di qualche decennio, sarebbe poi stato elaborato il testo dell'Ordo Episcopalis (Roma, BAV, Barb. lat. 631), compilato per Desiderio (Chronica monasterii Casinensis, III, 63) e adattato alle nuove funzioni di quest'ultimo, in occasione della sua ascesa al pontificato (1086-1087; Andrieu, 1931-1961, I). Il codice, ritenuto tra le copie più autorevoli della nuova edizione emendata agli usi romani, conserva un'importante testimonianza dell'attitudine riformatrice che animò la Montecassino dell'abate Desiderio (Gyug, 1992).Connaturata a un'esigenza di unificazione della liturgia d'ispirazione squisitamente gregoriana, la risistemazione romana del p. non sembra aver generato un modello rigido, ma piuttosto una famiglia di varianti relativamente omogenea (Gy, 1975; Vogel, 1986) e priva di riverberi iconografici. Persino il citato p. di Desiderio, copiato per uno dei maggiori esponenti del mecenatismo ecclesiastico romanico e in uno dei principali centri d'irradiazione dell'arte 'riformata', ha una veste grafica assai spoglia e assolutamente priva di inserti illustrati. Una circostanza tanto più singolare se si considera l'opulenza decorativa che distingue la produzione libraria cassinese realizzata a Montecassino in questo periodo, in special modo i manoscritti destinati al decorum liturgico. Non si può tuttavia escludere che il principale ornamento del volume potesse essere rappresentato da una legatura figurata. Ritratti di vescovi o scene liturgiche ispirate alle cerimonie del p. possono facilmente riconoscersi nei rilievi di alcune copertine in avorio. Una soluzione decorativa di questo tipo impreziosiva il p. utilizzato all'inizio del sec. 11° dai vescovi di Beauvais (Parigi, Louvre; Gaborit Chopin, 1989).Nell'arco della sua lunga fase sperimentale, il p. romano del sec. 12° esercitò una notevole influenza sui costumi liturgici di episcopati e comunità monastiche direttamente collegati alla sede apostolica; al propagarsi di tale modello contribuì anche la crescente influenza politica del papato riformatore. Il nucleo fondamentale della nuova recensione romana era ancora quello che venne utilizzato, nei primi decenni del sec. 13°, per la composizione del p. della curia romana (Andrieu, 1931-1961, II). Frutto di una rielaborazione avviata da Innocenzo III (1198-1216) e conclusa entro il pontificato di Innocenzo IV (1243-1254), il p. romano del sec. 13° segnò la definitiva canonizzazione della liturgia papale. Alla rapida fortuna europea di quest'edizione avrebbe notevolmente contribuito il trasferimento del papato ad Avignone, avvenuto alcuni decenni più tardi (1305).Alla fine del sec. 13° data la revisione di Guglielmo Durando. Redatta tra il 1293 e il 1295, la versione che prende il nome dal vescovo di Mende era improntata a criteri di stretta funzionalità liturgica e suddivisa in tre grandi sezioni. La prima contenente formule di consacrazione relative a persone; la seconda riservata alla consacrazione di edifici e oggetti; la terza concernente quibusdam ecclesiasticis officiis. La collezione conservava l'originale impianto romano introducendovi alcuni correttivi ed eliminando le parti dell'officio che potevano essere assolte da semplici sacerdoti. La forma agile e la struttura tripartita avrebbero assicurato la sopravvivenza della rielaborazione di Guglielmo Durando, che fece da falsariga per la prima edizione a stampa del Pontificalis ordinis liber curata da Agostino Patrizi Piccolomini e Giovanni Burcardo (Roma 1485).Con il definitivo assestamento testuale della collezione presero forma anche i primi tentativi di un'illustrazione sistematica degli ordines pontificali. A partire dalla metà del sec. 13° ca. i manoscritti ospitarono cicli sempre più estesi di iniziali istoriate. Tra i primi esemplari dotati di un programma iconografico elaborato ad hoc è da segnalare un manoscritto il cui terminus ante quem è individuabile nel 1222 (Metz, Bibl. Mun., 1169; Leroquais, 1937), arricchito da ca. venti vignette dedicate alle diverse funzioni del vescovo (ordinazione di nuovi chierici, consacrazione di abati, dedica di edifici). La disposizione dei soggetti è generalmente condizionata dall'organizzazione interna delle raccolte; tende tuttavia a stabilizzarsi nelle due grandi famiglie tardomedievali della collezione: il p. della curia romana e quello di Guglielmo Durando.Fra il sec. 13° e il 14°, il repertorio iconografico si arricchì sino a coprire l'intera successione dei capitoli. Un p. di Guglielmo Durando adattato per l'uso del vescovo di Narbona, della prima metà del sec. 14° (Carpentras, Bibl. Inguimbertine, 97), conserva quasi cento iniziali figurate che illustrano l'intero contenuto del volume. Il corredo illustrativo di questi esemplari tradisce spesso l'influenza di formule decorative standardizzate. Non sono rare contaminazioni o interferenze con la tradizione illustrata di testi esegetici o paraliturgici. Studi recenti hanno messo in luce le forti analogie che uniscono il ciclo iconografico dei p. di Guglielmo Durando con la recensione illustrata del Rationale divinorum officiorum, composto dallo stesso autore poco tempo prima (Rabel, 1992).Con il moltiplicarsi delle repliche, il legame delle immagini con il testo sembra divenire sempre più labile: un fenomeno senz'altro favorito dalla consuetudine di affidare l'esecuzione delle iniziali miniate al lavoro di ateliers specializzati. Un prodotto abbastanza rappresentativo di questa fase può riconoscersi nel codice custodito a Parigi (BN, lat. 15619), un p. secundum usum Romanae Curiae copiato tra il primo e il secondo decennio del sec. 14° per il cardinale Jacopo Stefaneschi. Trascritto a Roma o ad Avignone da un copista quasi certamente italiano (Condello, 1987; 1989), esso è ornato da poco più di quaranta iniziali dipinte, concordemente attribuite alla bottega del Maestro del Codice di S. Giorgio (Ciardi Dupré Dal Poggetto, 1981). Testimone di un altissimo artigianato librario, legato al nome di una delle personalità più rilevanti della curia avignonese, il manoscritto rivela tuttavia alcune vistose divergenze tra testo e immagini. Nella grande D che introduce l'ordinazione dei gradi maggiori (c. 2r), la figurina del papa che si appresta a compiere la tonsura di un chierico ha il capo coperto da una mitra, in aperto contrasto con la disposizione liturgica riportata nella rubrica posta a fianco. All'origine di questa e di altre incongruenze della decorazione, presenti anche nei brani di maggior impegno formale, sussiste una probabile divaricazione tra il lavoro del copista e quello dei miniatori, con tutta verosimiglianza artisti professionali coinvolti in altre opere librarie commissionate dal cardinale Stefaneschi.Nato come semplice libello liturgico d'uso strettamente funzionale, d'aspetto spesso trascurato, alla fine della sua parabola storica il p. sembra acquisire le forme sontuose, ma ormai depurate di ogni spessore simbolico, proprie del libro di lusso tardogotico.
Bibl.:
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