POLLAIOLO, Antonio e Piero di Iacopo Benci, detti del
Pittori, scultori e orafi di Firenze. Antonio nacque, secondo documenti fiorentini, nel 1429, o nel 1432, o nel 1433; nel 1426, secondo l'epigrafe della sua tomba a S. Pietro in Vincoli, dove egli, morendo a Roma nel 1498, volle essere sepolto, accanto al fratello Piero, nato nel 1443 e morto nel 1496. La continuata collaborazione dei due fratelli (circa il 1460 nelle Fatiche di Ercole per il palazzo mediceo; circa il 1466 nei Tre Santi per la chiesa di S. Miniato al Monte; e fin nelle ultime opere di scultura: i mausolei di Sisto IV e d'Innocenzo VIII) rende incerti qualche volta nel distinguere la parte dell'uno da quella dell'altro; ma, a considerare le cose più sicure di Piero, non v'è dubbio che Antonio sia stato il maggiore senza paragone, egli che fu uno dei massimi maestri fiorentini del Quattrocento.
La qualità più particolare che congiunse Antonio, come continuatore, a Donatello e ad Andrea del Castagno, come iniziatore al Botticelli e a Leonardo, come compagno al Verrocchio, fu l'esaltazione del movimento. Per propria natura, Antonio poco la ricercò come espressione del mondo morale, degli "affetti", di cui Donatello, il Botticelli e Leonardo furono rivelatori; con palese indifferenza d'ogni sottigliezza psicologica, egli si compiacque dei moti più violenti e rudi: ma li esaltò in una forma che li sublima nell'arte. Il rude e possente Andrea del Castagno aveva dato un proprio valore al contornare concentrandovi in segni energici la forza della modellazione; Antonio lo accentuò tanto da farne il suo mezzo sommo per esprimere l'energia, il movimento e la struttura delle forme: e da lui poté ben muovere S. Botticelli al suo più lineato disegnare. Aveva A. P. un senso plastico preciso, ma stimolato soltanto dalle impressioni di forza in azione, di movimento (ciò si può indurre dalla sua interpretazione d'ogni forma); e nel modellare ricercò i contorni piuttosto che i piani interiori, pur vivacemente definiti: li compose in linee fortemente significanti il moto, la vita, la stessa struttura dei corpi. I suoi più lineari disegni - l'Adamo nella raccolta degli Uffizî; l'incisione degl'Ignudi combattenti - anziché rinnegare il rilievo, lo colgono in modo da rivelarlo più energicamente; le sue sculture, sul modellato sottile e talvolta semplificato, come nelle Allegorie della tomba di Sisto IV, formano ritmi di linee frementi; e questi nei suoi dipinti il maestro li accrebbe col fluido dell'atmosfera.
Aveva cominciato da orafo; da orafo tenne bottega col fratello e con altri in via Vacchereccia a Firenze, in Calimala, e vi durava ancora nel 1480: dell'oreficeria praticò ogni tecnica, anche lo smalto e il niello, che doveva portarlo a incidere su rame. È appunto di orafo il primo suo lavoro di cui resti notizia, l'imbasamento della grande croce d'argento (Firenze, Museo dell'Opera) commesso a lui e a Miliano Dei nel 1457, di cui egli ebbe poi compenso (1459) opera non tanto restaurata come si crede, ancor goticheggiante nella parte inferiore (più gotico è il disegno di un turibolo, probabilmente di Antonio, nella Galleria degli Uffizî) ma pienamente del Rinascimento nelle altre parti, dove l'arte del P., già in tutto formata, si riconosce nella statuetta del Battista e più ancora in alcuni degli argenti del piede lavorati a bassissimo rilievo come per fondo di smalti: il Battesimo di Cristo; Mosè; Profeti e altro. Il maestro, a quanto afferma il Cellini, forniva disegni per nielli a Maso Finiguerra: e di lui, con probabile collaborazione del fratello, resta almeno la stampa d'un niello eseguito per un Orsini, certo nell'estremo soggiorno a Roma (Parigi, collezione E. de Rothschild: La Giustizia); resta, iscritta col suo nome, e di fattura assai consimile ai nielli, per la "maniera larga" a ombreggiature in tagli paralleli, la stampa degl'Ignudi Combattenti (probabilmente parte di un'incisione maggiore), che mostra altamente tutte le sue qualità nell'azione violenta e nell'energia dei contorni, se pur l'insufficiente costruzione dello spazio vi contrasti con l'esperta e celebrata sua scienza anatomica.
Contrariamente al racconto del Vasari, il maestro non lasciò mai l'arte dell'orafo, né tardi si volse alla pittura, né a questa poté trarre molto pratico insegnamento, se mai ne ebbe alcuno, dal fratello. Piero era appena diciassettenne quando, intorno al 1460, lo aiutava a dipingere tre Fatiche d'Ercole: e non a lui né alle pitture di A. Baldovinetti, Antonio doveva aver riguardato, ma a quelle di Andrea del Castagno, sì che s'intende il facile errore di attribuirgli il David di Andrea (Filadelfia, coll. Widener). Scomparse le tre tele delle Fatiche d'Ercole, ne rimane assai più che il ricordo - oltreché in incisioni e in disegni, di artisti diversi - in due minuscole tavolette (Firenze, Uffizî), dipinte non da qualche grande seguace come L. Signorelli, ma dal maestro stesso, tanto vi sono condensati tutti i suoi caratteri: Ercole con l'idra; Ercole ed Anteo. Le veementi figure vi si profilano su sfondo di paese visto dall'alto solo apparentemente affine ai paesaggi del Baldovinetti, poiché la prospettiva lineare vi è sommersa, e corretta, dalla densità dell'atmosfera e del colore, che dà al tutto tale sensibile vibrare da preludere agli sfondi di Leonardo. Alle tre tele scomparse poteva rassomigliare un S. Michele (Firenze, museo Bardini), in cui, pur tra i molti guasti, si scorge l'opera del maestro. Alle due tavolette degli Ullìzî, che si potrebbero credere anche di un decennio più tarde (c. 1470) per quelle qualità del paesaggio, è da unire un altro minuscolo dipinto (Londra, National Gall.: Apollo e Dafne), nel quale l'impeto del movimento, segnato con i modi proprî al maestro e con la sua intensità, non solo nel lieve gruppo delle figure, ma anche linee del paesaggio, dello scorrente fiume, come nell'Ercole e Nesso ora nella Galleria di belle arti di New Haven, è accompagnato dal vibrare del colore denso, così imbevuto di luce da poterlo equiparare a quello dello sfondo del Battesimo di Cristo, dipinto dal giovane Leonardo nella tavola del Verrocchio (Firenze, Uffizi).
Prima di queste ultime opere, alle quali va unito un piccolo David (Berlino, Kaiser-Friedrich Museum), singolare per la spregiudicata immaginazione del soggetto, ma più mirabile per l'energia del disegno e per il prezioso colore, si possono collocare nell'attività di Antonio altri dipinti, la cui successione cronologica è resa più incerta dalla probabile, e talvolta evidente, collaborazione del fratello: l'Assunzione della Maddalena, nella pieve di Staggia, opera robustamente spirituale, in cui sono più chiari i rapporti di Antonio con Andrea del Castagno; l'Angiolo e Tobiolo (Torino, Pinacoteca), già in Orsanmichele a Firenze; la tavola dei Tre Santi della cappella del cardinale di Portogallo in San Miniato al Monte (Firenze, ora agli Uffizî), nella cui decorazione, compiuta circa il 1466, Antonio affrescò due impetuosi angeli in atto di scostare un velario. Nei Tre Santi il paesaggio, che Antonio stende sempre all'infinito verso un orizzonte molto basso, ha più densità atmosferica che nel dipinto di Torino; toni preziosi e profondi ha il colore: ma la figura di S. Eustachio, meno energica nei contorni, fa pensare che nell'opera, prevalentemente di Antonio, abbia partecipato anche Piero.
Piero è noto come pittore soprattutto per le sei Virtù, che nel 1469 e nel 1470 gli furono commesse dal Tribunale di Mercanzia per formarne spalliera alla sua sala di udienza, e per la tavola dell'Incoronazione della Madonna 1483) nella pieve di S. Gimignano. Per quelle Virtù (Firenze, Uffizî) egli poté trarre aiuto dal fratello, a cui si attribuisce il disegno a tergo della tavola della Carità, più energico e più chiaro nella forma che la pittura, se pure non condotto sicuramente nella prospettiva; ma nessuna delle sei figure, non tutte giustamente impostate, ha la vitalità delle opere più sicure di Antonio: nemmeno la Temperanza, brillante nel panneggio e di vivace atto. Nella Prudenza il fare dei panni più largo, senza le fratture solite ad Antonio, è simile a quello di un'Annunciazione (Berlino, Kaiser-Friedrich Museum) ch'è pur da attribuire a Piero, incertamente costretta nella prospettiva dei primi piani, anche se il paesaggio ricordi quello delle Fatiche d'Ercole. Nell'Incoronazione della Madonna, opera firmata di Piero, la voluta complessità geometrica della composizione - elissi dell'aureola che fa asse ai due cerchi dei santi e degli angioli - fu male attuata nei rapporti di spazio; è inespresso il voluto turbinare del coro angelico; tutto deriva il pittore dal fratello, suo maestro, ma diminuendolo nella forma, nel colore, nelle monotone figure estatiche.
Al paragone di queste epere, si può ammettere che Piero abbia dipinto qualche parte, e specialmente il santo, in quella pala che da Francesco Albertini (1510), fu tutta attribuita a lui, ma venne giudicata l'opera più bella di Antonio dal Vasari, che l'afferma compiuta nel 1475: il Martirio di S. Sebastiano, già nella cappella Pucci ai Servi di Firenze (Londra, Nat. Gall.). Vi sono nelle figure dei balestrieri curvi e degli arcieri il vigore plastico e l'energia del maestro, comparabili alle tavolette delle Fatiche d'Ercole, forse dello stesso tempo; nel profondissimo sfondo è la sua propria visione del paesaggio. Così deve appartenere ad Antonio, per l'acuta sensibilità del disegno, per il denso colorito, per vivacità, un gruppo di ritratti femminili, la cui attribuzione, lungamente incerta, è ancora discussa: un profilo (Berlino, Kaiser-Friedrich Museum), ch'è forse fra tutti il più antico, già attribuito a Domenico Veneziano, e ancora al Baldovinetti o a Piero P.; un altro profilo (Milano, museo Poldi Pezzoli), che fu attribuito a Piero della Francesca, poi al Verrocchio, capolavoro di modellazione semplice e salda, di intenso colorito, di disegno che esprime nell'apparente immobilità della figura l'incontenibile brio; un altro profilo (Firenze, Uffizî), in cui non è da escludere in tutto la mano di Piero, ch'è più palese ancora in un altro ritratto muliebre della National Gallery di Londra e in quello, davvero immobile, del museo Gardner di Boston.
Da pittore, Antonio diede opera a singolari lavori, del resto non inconsueti ad altri grandi maestri: nel 1469, e forse ancora nel 1480, forniva disegni colorati, con storie del Battista, per ricamare un parato - pianeta, tonacelle, piviale - di S. Maria del Fiore. Eseguiti da ricamatori non soltanto italiani ma anche fiamminghi, quei ricami (Firenze, Museo dell'Opera) tradussero con varia fedeltà, ma sempre distintamente, i caratteri dei modelli; e se in qualche parte, come nella Imposizione del nome al Battista, lasciano sospetto che anche nei disegni abbia operato Piero, per lo più vi s'intravede bene l'arte di Antonio, veemente negli atti, e qualche volta di così largo comporre che sembra ideata per l'affresco più che per il minuto ricamo (Battesimo delle turbe; Seppellimento del corpo decapitato del Battista). Nel 1477 alcuni degli stessi ricamatori eseguivano probabilmente il paliotto donato da Sisto IV alla basilica d'Assisi: un grande pallio di velluto broccato d'oro, in cui si possono attribuire al maestro, col disegno delle figure, anche quello dei larghi girali e delle fronde, che si ritrova simile in altri velluti nella "maniera del Pollaiolo": paliotto della cattedrale di Toledo; pianeta di Mattia Corvino (frammenti alla cappella di corte di Budapest e all'Erdödy).
Anche in opere di scultura Piero poté collaborare col fratello, per certo in modo più sommesso. Sembra che tutto suo fosse un progetto (1477) per il mausoleo del cardinale Forteguerri nel duomo di Pistoia; ma non ebbe fortuna, rifiutato a favore di un progetto del Verrocchio, forse su parere di Lorenzo il Magnifico. Nella scultura Antonio improntò altamente, come nei dipinti, la sua arte. Nel piccolo gruppo di bronzo, Ercole e Anteo (Firenze, Museo Nazionale), che può essere quello ricordato dagl'inventarî medicei del 1494, tutte le qualità di Antonio sono alla massima potenza: il movimento è colto in un attimo di estrema tensione; la ferocia degli atti fa risaltare fino allo scheletro la struttura dei corpi, ma l'artista non ostenta la sua scienza anatomica, intento solo a esprimere movimenti e sforzi. I quali, come nei disegni e nei dipinti del maestro, si rivelano soprattutto nei profili del gruppo, sotto qualunque angolo visuale, composti in ritmi veementi. Nella Natività del Battista, altorilievo d'argento, commesso nel 1478, compiuto nel 1480, per l'altare del battistero fiorentino (Firenze, Museo dell'Opera), Antonio ricercò più mobilità che struttura nelle agili figure, nell'ondeggiare dei panni, nei giuochi di luce, preparando i suoi ultimi capolavori. Furono questi a Roma, dove il maestro si recò nel 1484, seguito dal fratello: e vi rimasero l'uno e l'altro fino alla morte. Nel suo ultimo periodo (1484-1498) Antonio si diede tutto alla scultura: Vagheggiò grandi opere: aveva forse già progettato la statua equestre di F. Sforza, per Milano, nei due disegni un tempo posseduti dal Vasari (Monaco, Gabinetto delle stampe; New York, coll. privata) che poterono anche incitare Leonardo per i suoi progetti del medesimo monumento col cavallo che s'impenna; più tardi (1494), invitato da Virginio Orsini a ritrarlo in una testa di bronzo, gli proponeva di fargli una statua equestre. A Roma eseguì i mausolei di Sisto IV e d'Innocenzo VIII, già nell'antica basilica vaticana.
Il mausoleo di Sisto IV (Roma, Museo Petriano), fuso mirabilmente nel bronzo, venne compiuto dal 1484 al 1493. Fu ideato da A. in modo nuovo, fuor della tradizione fiorentina delle tombe riquadrate d'architettura, come a perpetuare la solenne esposizione del pontefice defunto. Potenti volute di fogliami collegano l'imbasamento al piano del letto funebre su cui è la figura giacente. Di questa l'orafo indugiò a cesellare la tiara, aspra di risalti e di gemme, l'artista di genio modellò il corpo appiattito dalla morte, l'energia impressa dalla vita nei ferrei lineamenti del volto, e intorno al pontefice patrono delle arti, fondatore della Cappella Sistina, restitutore della Biblioteca Vaticana, adunò non soltanto le Virtù ma le Arti. Non era né lo scopo né la possibilità della sua arte di cogliere sottigliezze intellettuali o morali; e le Virtù, le Arti, anche la Filosofia e la Teologia, come la Musica, esprimono soprattutto quel senso di movimento che dominava in lui: vibranti figure, in cui la modellazione semplice, levigata, accompagna con sottili gradazioni l'inquieto ritmo dei profili; forme non meno ideali che le immaginazioni del Botticelli.
Il mausoleo d'Innocenzo VIII, in cui le spoglie del pontefice furono riposte soltanto pochi giorni innanzi la morte di Antonio, era nell'antica basilica di S. Pietro presso l'altare della Sacra Lancia, che Innocenzo aveva ottenuto dal sultano; trasportato nella nuova basilica fu alterato nella originale composizione ponendo in basso la figura giacente che ne occupava la sommità. La statua del papa che benedice, con la Sacra Lancia, è fieramente atteggiata e condotta; ma le Virtù non uguagliano tutte l'intenso moto delle figure del mausoleo di Sisto IV, e si può dubitare che vi abbia più collaborato con Antonio il fratello Piero, morto quando già i lavori del monumento dovevano essere inoltrati.
Altre minori sculture di Antonio: un busto di terracotta (Firenze, Museo Nazionale); statuette di bronzo (David, nel Museo Nazionale di Napoli; Ercole nel Kaiser-Friedrich Museum di Berlino, nella collezione Frick a New York); i putti della Lupa capitolina probabilmente con la collaborazione di Piero. Incerta l'attribuzione di un busto marmoreo (1495) - il cosiddetto Machiavelli - del Museo Nazionale di Firenze. Diversi dipinti furono attribuiti senza fondamento ai due fratelli; ma in tracce di affreschi, con figure nude in atto di sfrenata danza, nella Villa Gallina presso Arcetri, si può riconoscere un'opera di A.; e di Piero è un ritratto di Galeazzo M. Sforza (Firenze, Uffizî). (V. tavv. CLIII-CLX).
Bibl.: Dell'ampia bibliografia (cfr. F. Schottmüller, in Thieme-Becker, Künstler-Lexikon, XXVII, 1933, pp. 210-215), vedi per trattazione complessiva: M. Crutwell, A. P., Londra 1907; A. Venturi, Storia dell'arte italiana, VI, VII, VIII, passim; R. v. Marle, Italian Schools of Painting, L'Aia 1929, XI, pagine 316-477. Sulle oreficerie, i ricami, le incisioni: H. Mckowski, Das Silberkreuz für den Johannes Altar, in Jahrbuch d. königl. preuss. Kunstsamm., XXIII (1902), p. 235; P. Kristeller, Die italienische Niellodrucke, ibid., XV (1894), p. 115; A. Blum, Les nielleurs du Quattrocento, in Gazette des B.-Arts, 1933, I, pp. 214-230; S. Schwabacher, Die Stickereien nach Entwürfe des A. P., Strasburgo 1911; O. v. Falke, Kunstgeschichte der Seidensweberei, Berlino 1921, p. 42. Sui disegni: B. Berenson, Florentine drawings of the Renaissance, Oxford 1932, p. 465; A. H. Barr, in Art Studies, IV (1926), pp. 73-78; S. Meller, I progetti di A. P. per la statua equestre di F. Sforza, in Hommage à A. Petrovics, Budapest 1934. Sui dipinti: B. Berenson, Italian picutres of the Renaissance, Oxford 1932, pag. 465; R. Fry, in The Burlington Magazine, LVI (1930), pp. 134-135; A. Venturi, in Pantheon, I (1929), pp. 13-19; L. Venturi, Pitture italiane in America, Milano 1931. - Sulle sculture: W. v. Bode, Bronzestatuetten der Renaissance, Berlino 1922, p. 17; L. Planiscig, Piccoli bronzi italiani del Rinascimento, Milano 1930; L. Dami, in Dedalo, VI, pagine 559-569.