politica
Il termine p. deriva dall’aggettivo greco politikòs, a sua volta derivato da polis, città. Nel pensiero greco la riflessione politica incomincia come riflessione sulla giustizia, di origine divina e governante non solo la società ma il cosmo. Troviamo questa nozione già nei poeti (Omero, Esiodo), e poi in forma più riflessa in Solone, che è anche il primo uomo politico e legislatore della Grecia di cui abbiamo precisa nozione. Si profila un ideale di armonia, tale che a ciascun individuo e a ciascuna classe sia dato il giusto, ossia ciò che gli compete. Ma se si va al contenuto di questa giustizia si trova che essa corrisponde a un ideale aristocratico o monarchico-aristocratico. Più tardi, in concomitanza con lo sviluppo democratico di Atene nel 5° sec. a.C., troviamo elogi della democrazia in contrapposizione alla tirannide. La democrazia è intesa soprattutto come eguaglianza di diritti (isonomia), impero della legge, controllo sul governo, esclusione dell’arbitrio (e il discorso di Pericle nel secondo libro della Guerra del Peloponneso di Tucidide è certamente il più compiuto elogio della democrazia ateniese). Platone mostra invece sfiducia negli ordinamenti e negli uomini politici ateniesi. Vi è un contrasto di fondo tra la concezione politica corrente e quella platonica, contrasto che appare con particolare chiarezza nella discussione tra il Socrate platonico e Callicle nel Gorgia. Per Callicle la politica ha come fine il soddisfacimento dell’utile dei cittadini, per Socrate ha come fine la loro educazione, il renderli migliori. E dunque l’uomo politico è un educatore, e non può non essere un filosofo. Su queste premesse è costruita la Repubblica, dove Platone disegna uno Stato ideale (con piena consapevolezza della sua idealità), diviso in classi (i reggitori-filosofi, i guerrieri, i produttori, in corrispondenza con la tripartizione dell’anima in razionale, passionale, appetitiva). Le due classi superiori hanno in comune i beni, le donne e i nati, mentre le unioni sono regolate dallo Stato. Ai reggitori-filosofi è impartita un’educazione speciale a cura dello Stato, e in cambio di ciò essi dovranno a turno dedicarsi al governo. Il fine da perseguire è la giustizia, la realizzazione di un’armonia, di un equilibrio di parti nello Stato. Si profila chiaramente una concezione statalista, in cui la politica deve regolare tutti gli aspetti della vita degli individui; una concezione che è stata avvicinata da alcuni (K. Popper) alle moderne forme di totalitarismo politico. Anche Aristotele si pone il problema della migliore costituzione, che è per lui quella in cui si realizza la giustizia, ossia, come in Platone, l’equilibro delle parti, la coincidenza di interesse individuale e interesse collettivo. Per Aristotele lo Stato ha tre forme principali: monarchia (governo di uno), aristocrazia (governo di pochi), politìa (governo di tutti). Quando i governanti governano nell’interesse proprio e non in quello della comunità, si hanno le forme di governo degenerate: tirannide, oligarchia, democrazia. La forma di governo che più si avvicina allo Stato ideale (cioè quella che meglio persegue la felicità comune) è la politìa, che presuppone il prevalere delle fortune mediane, quelle cioè che stanno tra l’eccessiva ricchezza, che può dar luogo a tracotanza, e l’eccessiva povertà, che può dar luogo a malignità. Le degenerazioni più gravi sono la democrazia e la tirannide, apparentate tra loro come regimi di arbitrio e di disordine: il contrario di quello che uno Stato deve essere. E fattore essenziale dell’ordine e dell’armonia è infatti per Aristotele la legge, che deve essere sovrana (la sovranità della legge equivale a quella di Dio o della mente). Col cristianesimo si profila, rispetto al pensiero antico, una novità nella riflessione politica, perché il centro del pensiero politico cristiano è dato dal problema di ciò che è di Dio e di ciò che è di Cesare, col presupposto che l’ambito di Dio ha una superiorità qualitativa rispetto all’altro come lo spirituale è superiore al temporale. I presupposti della superiorità del fattore spirituale-cristiano e quindi chiesastico di fronte a quello temporale-laico-imperiale è chiarissimo in Agostino, che teorizza la divisione delle due città, la celeste e la terrena: la prima è di Dio, è immortale, è della Verità, mentre l’altra è del diavolo, è mortale, è della vanità. Comunque, Agostino ammette l’autonomia e la legittimità del potere civile, cui nelle cose temporali è sempre dovuta obbedienza. Di qui un difficile equilibrio nella sua concezione politica: lo Stato è conseguenza e nello stesso tempo è rimedio della caduta originaria, gli si deve ubbidienza come a un’autorità legittima, ma il potere spirituale-chiesastico ha il diritto di giudicare se il potere civile resta nei suoi limiti propri o ne esorbita. Nel Medioevo, in Tommaso d’Aquino troviamo una ripresa dei temi aristotelici e quindi una rivendicazione dell’autonomia della sfera naturale rispetto a quella sovrannaturale e della grazia. L’ordine civile, la socialità sono intesi come dati appunto «naturali» e non come conseguenze del peccato. Fine dell’ordine civile e del governo è conferire unità alle tendenze dei molti, come la ragione dà unità alle membra del corpo. La forma di governo che Tommaso preferisce è la monarchia, e l’ufficio del re è da lui paragonato a quello di Dio. Il governo del re deve essere però opportunamente temperato dalla legge, sulla quale Tommaso insiste come su un fattore tipico di razionalità. Si viene sviluppando una tesi giusnaturalistica, per cui la razionalità ha la sua sede eminente nell’intelletto divino, è presente, perché impressavi da Dio, nelle menti degli uomini (legge naturale), è infine presente negli ordinamenti positivi nella misura in cui partecipano di questa universale razionalità. Ma al di sopra dello Stato c’è la Chiesa, come al di sopra del fine della società, che è aristotelicamente la vita virtuosa, c’è il fine ultimo dell’uomo, ossia il godimento di Dio, al cui raggiungimento l’uomo deve essere guidato dai sacerdoti. La concezione del ruolo della politica nella vita dell’uomo cambia radicalmente con Marsilio da Padova, il quale ammette un’utilità morale e sociale della religione, ma la considera nel suo significato più schietto come una serie di credenze e di atti rivolti alla vita futura, e quindi in nessun rapporto col potere civile e con la vita politica. Potere civile e potere religioso non si incontrano, perché l’uno è un potere, l’altro no. Il sacerdote può infliggere delle pene, ma soltanto di carattere religioso, spirituale. Le conseguenze laiche di questa concezione sono evidenti: nessun privilegio è accordato alla Chiesa e ai sacerdoti, il foro ecclesiastico non ha giustificazione, la proprietà ecclesiastica non è immune da imposte. In Machiavelli la preoccupazione mondana è prevalente e anzi esclusiva, il problema della religione e della Chiesa è visto in funzione dell’interesse dello Stato. Il quale Stato è l’ultimo orizzonte della sua riflessione e della sua etica. A questa dottrina corrisponde la formazione delle grandi monarchie moderne contro i particolarismi feudali, emancipate da ogni tutela chiesastico-religiosa. Machiavelli desiderava che qualcosa di simile accadesse anche in Italia. La sua opera lumeggia le tecniche di conquista, di conservazione, di governo dello Stato. Far politica, ossia agire nell’interesse dello Stato, significa in ultima istanza strumentalizzare gli altri a questo fine, ricorrendo a ogni forma di violenza e di astuzia. Quello che conta è la bontà politica del fine. Ora la bontà politica è data da risultati storicamente significativi. Il semplice successo infatti non basta a dar valore a un’azione politica. Chi perviene al principato con scelleratezze, ossia per semplice ambizione personale, raggiunge «imperio ma non gloria» (Principe, VIII). Fondato lo Stato occorre conservarlo, e a questo fine la miglior forma di governo è quella che garantisce la libertà dei cittadini e il rigoroso rispetto delle leggi. Mentre nella conquista dello Stato, nell’instaurazione del nuovo potere, è necessaria la forza, nel governare lo Stato è necessaria la prudenza e il «riformismo». I precetti politici di Machiavelli hanno per lui una validità generale, perché gli uomini sono sempre gli stessi. Un analogo senso della secolarizzazione della vita politica troviamo nelle dottrine di Bodin e di Hobbes. Bodin si pone dal punto di vista dell’interesse esclusivo dello Stato, la cui autorità è incondizionata. Il fattore religioso viene subordinato alla salute dello Stato e considerato soltanto in sua funzione. Lo Stato può disinteressarsi delle credenze dei cittadini, purché queste non diano luogo a turbamenti di carattere politico. Da ciò la tolleranza bodiniana, che ha quindi una genesi politica. L’assoluta sovranità dello Stato è teorizzata in termini rigorosi da Hobbes, che ricorre allo schema contrattualistico: gli uomini devono assolutamente uscire dallo stato di natura, che è uno stato di assoluta insicurezza e di guerra di ognuno contro tutti (qui è evidente il riferimento di Hobbes alle guerre civili che dilaniano l’Inghilterra del suo tempo); per uscire da tale stato e conseguire sicurezza gli uomini stipulano fra loro un contratto, col quale rinunciano a tutti i loro diritti (tranne uno: il diritto alla vita), e li trasferiscono a un terzo (che può essere una persona o più persone), il quale acquista così una sovranità assoluta, alla quale i sudditi non possono ribellarsi. La religione cristiana viene ridotta da Hobbes a pochi articoli di fede, e la sua organizzazione chiesastica posta sotto l’autorità dello Stato. Il potere politico viene così a coprire tutte le sfere della vita sociale e spirituale. Anche Locke parte dallo schema giusnaturalistico, ma, a differenza di Hobbes, postula uno stato di natura pacifico, in cui sono presenti gli istituti fondamentali della vita civile: la famiglia e la proprietà privata. Senonché a un certo punto questo stato naturale degenera, perché, per quanto molti uomini seguano la legge naturale, altri la violano, arrecando offese e danni al prossimo; e poiché, in mancanza di leggi positive e di giudici, ognuno deve farsi giustizia da solo, avviene che lo stato naturale, da pacifico che era, divenga uno stato di insicurezza e di guerra. Per uscirne, gli individui edificano una società politica, attraverso un contratto, col quale però non rinunciano a tutti i loro diritti naturali (come avveniva in Hobbes), ma li conservano tutti tranne uno: il diritto di farsi giustizia da soli. Il potere politico (che deve essere fondato sul consenso, cioè eletto dai cittadini) non può quindi attentare in nessun modo ai diritti naturali degli individui: se fa ciò, esso diviene illegittimo. Anche nel pensiero illuministico troviamo come nota pressoché costante una polemica verso la concezione che può dirsi tradizionale della politica, intesa come attività di un potere per scopi di potere. Il politico deve essere essenzialmente un legislatore e un amministratore, il cui compito è rendere la società razionale e gli uomini felici. L’esigenza fondamentale di Montesquieu è quella antidispotica, ossia la libertà del cittadino nel quadro delle leggi. E a garanzia di questa libertà-autonomia Montesquieu esprime l’esigenza che il potere sia diviso. Egli indica nel sistema politico britannico, in cui il potere è diviso tra la monarchia e le due camere, e nella monarchia francese temperata dai corpi intermedi, le due forme politiche migliori che si siano manifestate storicamente. Completamente diverso è il quadro tracciato da Rousseau. Egli teorizza uno Stato democratico nel quale le leggi siano votate da una assemblea, alla quale prenderanno parte tutti i cittadini indistintamente, quale che sia la loro condizione sociale. Tale assemblea costituisce il corpo sovrano e, se in essa la maggioranza sarà devota al bene comune, allora essa esprimerà la volontà generale. Quest’ultima non è alienabile (donde il rifiuto rousseauiano della rappresentanza, cioè della democrazia parlamentare) e non è divisibile (donde il rifiuto rousseauiano della divisione dei poteri). Il corpo sovrano non può occuparsi della esecuzione delle leggi, che delega a un governo, revocabile in qualunque momento dal corpo sovrano stesso. Nella concezione di Rousseau la politica pervade tutti gli ambiti della vita dei cittadini, perché essi (che non devono dividersi in fazioni o partiti) devono dedicare tutte le loro energie migliori alla vita della repubblica. Perciò l’educazione civile deve formare il cittadino fin dall’infanzia. La concezione rousseauiana della politica è stata aspramente criticata dal liberale Benjamin Constant, il quale ha auspicato una sfera privata (economica e sociale) dei cittadini la più ampia possibile, libera dall’intervento della politica; ha negato come utopia la democrazia diretta rousseauiana, la quale è impossibile negli Stati moderni, e se fosse possibile non sarebbe nemmeno auspicabile, perché assorbirebbe tutta la vita dei singoli non lasciando loro altri spazi e altri interessi. L’idea della democrazia diretta è stata invece ripresa da Marx e dai marxisti. Per il marxismo, una volta che la classe operaia si sia impadronita del potere, e dopo un periodo di «dittatura del proletariato», saranno eliminate tutte le classi grazie alla soppressione della proprietà privata: nascerà una comunità di eguali, nella quale scompariranno il governo e la burocrazia come entità separate, scompariranno lo Stato e la stessa politica, sostituiti da una «amministrazione delle cose» (secondo la formula sansimoniana). Questa prospettiva anarchica prospettata dal marxismo è stata criticata e respinta da diversi pensatori nel Novecento (Weber, Kelsen, Aron) come puramente illusoria. Anzi – è stato detto – nelle società industriali i compiti della mediazione politica fra ceti e gruppi sociali prodotti da una divisione del lavoro sempre più complessa, così come i compiti della burocrazia sia nello Stato che nell’economia, diventano sempre più ampi e più importanti.