POLINESIA
. Denominazione sorta, come Melanesia e Micronesia, nella letteratura geografica europea nella prima metà del secolo XIX, per le isole e gli arcipelaghi posti a oriente della Micronesia, della Melanesia e dell'Australia. Come gli altri due termini, quello di Polinesia è rimasto in uso principalmente nel senso etnografico: ma, come è detto anche alle voci micronesia, oceania, le indagini etnologiche hanno constatato la sostanziale identità del tipo raziale e di cultura fra le popolazioni indigene della Micronesia e della Polinesia, e il termine di Polinesiani (v.) è dato ormai ai gruppi etnici di ambedue le aree insulari. La Polinesia in senso ristretto ha un'area di poco più di 290.000 kmq., in senso lato, cioè con la Micronesia, l'area si eleva a 295.000. Ma questa superficie, che non raggiunge quella dell'Italia, è frammentata su 68° gradi di latitudine, fra le isole abitate più settentrionali delle Hawaii e il limite meridionale dell'antica occupazione umana della Nuova Zelanda; e su 115° di longitudine fra le Palau e l'isola della Pasqua. L'occupazione europea non ha alterato gran che questi limiti, estendendo soltanto gl'insediamenti umani nella Nuova Zelanda meridionale, mentre i gruppi insulari più orientali del Pacifico sono rimasti quasi tutti disabitati. Per le notizie geografiche, v. oceania.
Storia delle esplorazioni. - Per i Polinesiani stessi, navigatori senza pari già nei primi tempi storici, la conoscenza dei varî arcipelaghi che insieme costituiscono queste frammentatissime terre sparse per il Pacifico Centrale si dovette a casuali scoperte successive, come portava il soffiare dei venti e l'ardito navigare usato da quegli isolani, secondo fortuna, per centinaia e migliaia di miglia attraverso l'Oceano ignoto. Soltanto col viaggio di Ferdinando Magellano penetra poi in questa immensa parte delle acque terrestri (1520) la prima vela europea: ed è ben naturale che, su uno spazio d'acque così lontano dall'Europa e vasto non meno di 3 milioni di kmq., la graduale scoperta e la precisa determinazione di tanti arcipelaghi dispersi esiga un tempo assai lungo, distribuito in replicate navigazioni diverse. È naturale anche che più volte sia avvenuto a questi navigatori europei di scoprire, come nuove, isole ch'erano già state scoperte precedentemente, o di ricercare senza trovarli gruppi di cui i primi scopritori avevano date indicazioni non abbastanza esatte o del tutto fallaci. La traversata di Magellano, secondo l'interpretazione che generalmente si dà alle narrazioni rimaste, avrebbe incontrato nel lunghissimo percorso del nuovo Oceano soltanto due isole del tutto insignificanti; delle altre scoperte spagnole che vengono poi, dopo che la Spagna, divenuta padrona delle Filippine, promuove le navigazioni dal Perù a quelle sue isole asiatiche, sola tocca nella Polinesia qualche atollo delle Paumotu la spedizione del 1605-6, comandata da Pedro Fernández de Quiros e condotta a più importanti scoperte nelle isole melanesiane. L'olandese W. C. Schouten nel 1615, passato lo stretto magellanico, attraversa anch'egli le Isole Basse (o Paumotu) e, proseguendo a un dipresso lungo il parallelo 15° S., tocca nel passaggio qualcuna delle minori Samoa prima di raggiungere la Melanesia. Durando poi ancora il predominio delle navigazioni olandesi, vediamo Abele Tasman nel 1643, durante il suo famoso viaggio di scoperta della Nuova Zelanda, spingersi di qui a NE. fino a scoprire nelle Tonga l'isola Tongatabu e altre minori, proseguendo poi a ponente nel gruppo delle Figi. Ma di altre scoperte polinesiane non v'ha traccia per tutto il sec. XVII e solo nel 1722 troviamo ricordata dell'olandese Jacob Roggeveen la scoperta della Isola della Pasqua vantata per le sue sculture singolarissime, indi di talune fra le Isole Basse, e di Raiatea fra le Isole della Società.
Di nessuna scoperta è poi notizia per oltre otto lustri, finché nel periodo di sicura pace succeduto alla guerra dei Sette anni le navigazioni tralasciate riprendono con nuova lena, promosse soprattutto dall'Inghilterra, sia con l'intento di risolvere finalmente il dubbio non ancora dileguato circa l'esistenza del preteso gran continente australe, sia per acquistare una più precisa contezza delle terre contenute in questo immenso oceano, ancora così poco noto due secoli e mezzo dopo che gli Europei lo avevano scoperto. Prima registriamo la spedizione del commodoro John Byron, che nel 1765 dallo Stretto di Magellano raggiunge l'isola Disappointment nelle più settentrionali Paumotu, indi il gruppo delle Tokelau o dell'Unione, proseguendo di qui verso le isole della Micronesia. Samuel Wallis nel 1766 approda a Tahiti, la più importante isola della Polinesia orientale, proseguendo di qui alle Samoa e alle maggiori isole della Melanesia. Dell'anno seguente è la scoperta, pur essa inglese, della Pitcairn, tra le estreme a sud-est delle Isole Basse, dovuta a P. Carteret; nel 1768 traversa gli arcipelaghi meridionali, dopo tante spedizioni inglesi, una francese, quella di L.-A. de Bougainville.
Ma l'Inghilterra non cede ad altri l'onore di completare la conoscenza di questa immensa area oceanica, e trova in James Cook l'ardito e illuminato esecutore dell'imponente programma. Prima, nel 1768-9, è la spedizione per l'osservazione del passaggio di Venere sul Sole, durante la quale, dopo una fermata di tre mesi all'ospitale Tahiti e il riconoscimento delle altre isole ch'egli chiamò della Società, nonché di taluna delle Tubuai, il Cook allarga la sua rotta nel sud dove forse si nascondeva il favoleggiato continente australe, e arriva senza incontrare altre terre alla Nuova Zelanda. Il secondo viaggio conduce il Cook, per il capo di Buona Speranza, un'altra volta nel Pacifico meridionale a Pitcairn e a Tahiti, indi alla scoperta del gruppo ch'egli chiamò di Harvey e che oggi porta il nome di Cook; segue la scoperta del gruppo ch'egli stesso denominò degli Amici (Tonga) e, dopo i famosi tentativi spinti a S. del Circolo Polare, gli approdi alla Pasqua, alle Marchesi, alle Samoa e ad altre isole più occidentali. Nel terzo dei famosi viaggi (1777) ritroviamo il Cook a Tahiti e negli arcipelaghi circonvicini, prima che il caso gli faccia incontrare le isole Hawaii: quelle dove poi era destino egli dovesse trovare la sua tomba.
Poco altro è da dire degli ultimi anni del secolo, solo dovendosi ricordare la scoperta delle Kermadec avvenuta nel 1788. Gli ultimi quaranta anni del sec. XVIII hanno insomma arrecato maggior luce sulle acque e sulle terre della Polinesia che tutto il periodo precedente da Magellano fino al 1765. Al sec. XIX non rimarrà poi altro compito che completare l'esplorazione scientifica delle acque e il riconoscimento dei minori particolari topografici delle innumerevoli isole.
Bibl.: Cfr. E. Heawood, A history of geographical Discovery in the XVIIth a. XVIIIth centuries, Cambridge 1912; J. C. Beaglehole, The exploration of the Pacific, Londra 1934.
Lingue. - Le lingue della Polinesia appartengono alla famiglia maleo-polinesiaca o austronesiaca (v. maleo-polinesiache, lingue, XXII, pp. 6-8). Esse sono abbastanza affini tra loro; si dividono in due gruppi, occidentale e orientale. Il gruppo occidentale comprende le lingue fakaafo, futuna, samoano, tonga, uvea, niue; il gruppo orientale comprende il maori della Nuova Zelanda, il mangareva, i dialetti delle isole Marchesi, il rarotonga, l'hawaiano, il tahitiano e altre lingue minori. Il sistema fonetico delle lingue polenesiane è molto semplice; le consonanti intervocaliche del proto-austronesiano tendono a cadere; per es. al malese akar "radice" corrisponde il tahitiano e l'hawaiano aa; al malese ikan "pesce", corrispondono il tahit. e haw. ia (ma nel maori aka "radice", nel marchesiano e mangareva ika "pesce"). È caratteristica la mancanza delle sonore g, d, b e delle palatali č, ǧ; questi suoni esistono solo nel tonga-tabu, dove provengono probabilmente dalla lingua delle vicine isole Figi (XV, p. 246). Le lingue polinesiane conoscono un articolo plurale sconosciuto alle altre lingue austronesiane (per es., maori te, pl. ña; hawaiano ke, pl. na; tahitiano te, pl. te mau). Per quanto restino delle tracce delle costruzioni A.B. (= nominativo-genitivo) come nel maori tuke mata "sopracciglio", letteralmente "arco occhio", i rapporti casuali, compreso il genitivo, sono formati da preposizioni, p. es. nel maori te tañata "homo", ò (a) tañata "hominis", ki tañata "homini", i tañata "hominem", e tañata "homine"; ña tañata "homines", o (a) ña tañata "hominum", ki ña tañata "hominibus", ecc. Il sistema numerale è quello decimale comune all'indonesiano; il sistema verbale è piuttosto complicato.
Bibl.: F. Müller, Grundriss der Sprachwissenschaft, II, ii, Vienna 1882, pp. 4-50 (chiaro schizzo comparativo delle lingue polinesiane); E. Tregear, The Maori-polynesian comparative Dictionary, Wellington 1891; J. Ella, Dialect Changes in the Polinesian languages, in Journ. of the Royal Anthropological Inst. of Great Britain and Ireland, 1899, pp. 154-180; F. N. Finck, Die Wanderungen der Polinesier nach dem Zeugniss ihrer Sprachen, in Nachr. d. k. Ges. Wiss., Gottinga 1909; S. H. Ray, Polinesian linguistics past and future, in Journ. of the Polinesian Society, XXI, p. 75 segg.; H. Jensen, Studien zur Morphologie der polinesischen Sprachen, Kiel 1923.