poetica
Si dice p. di un autore l'idea di ciò che, a suo parere, ‛ deve ' essere l'arte da lui praticata: una teorizzazione, cioè, che da quella conoscitivo-descrittiva dell'estetica (v.) si differenzia per il suo carattere deontologico-operativo. In questa nozione di p. rientra così la teoria degli strumenti e procedimenti del fare arte come quella intorno al fine e all'ufficio dell'arte stessa; nonché la particolare` determinazione che nell'opera di quell'autore la categoria estetica assume, in relazione al fine assegnato all'arte, nonché agli strumenti e procedimenti mediante i quali l'arte viene realizzata.
Le fonti dalle quali risulta la p. di un autore sono costituite in primo luogo dalle sue dichiarazioni teoriche, nella misura in cui esse hanno carattere deontologico-operativo: ma la produzione stessa di ogni autore, in quanto manifesta una concezione dello scopo, dell'ufficio, degli strumenti e procedimenti dell'arte, si costituisce come un'implicita enunciazione di poetica. Bisogna inoltre tener presente, quando si ricostruisce la p. di un autore, la storia interna della sua produzione, l'articolarsi di questa in diversi tempi: a ciascuno dei quali corrisponde una nozione finalistica dell'arte e una determinazione della categoria estetica diversa, in tutto o in parte, da quella riconoscibile in un altro tempo della stessa produzione personale.
Una ricostruzione della p. di D. - cioè un riepilogo delle concezioni che D. professava circa il dover essere della poesia e la correlativa determinazione della categoria estetica - dovrà tener conto dello svolgimento di tali concezioni dalla Vita Nuova al Convivio alla Commedia; e all'interno della Commedia sarà opportuno tener presente il diverso modo in cui la categoria estetica si determina in ciascuna delle tre cantiche, in corrispondenza al modo come, nell'Inferno, nel Purgatorio, nel Paradiso, la poesia è chiamata ad assolvere il proprio ufficio col dare forma alla materia verbale.
Nel suo primo momento, la p. di D. s'identifica in un ideale di poesia come messaggio che, raccontando le vicende di un amore giovanile (Vn XXI 1 vennemi volontade di volere dire anche in loda di questa gentilissima parole, per le quali io mostrasse come per lei si sveglia questo Amore; XXXI 1 Poi che li miei occhi ebbero per alquanto tempo lagrimato, e tanto affaticati erano che non poteano disfogare la mia tristizia, pensai di volere disfogarla con alquante parole dolorose; e però propuosi di fare una canzone, ne la quale piangendo ragionassi di lei per cui tanto dolore era fatto distruggitore de l'anima mia; e cominciai allora una canzone, la qual comincia: ‛ Li occhi dolenti per pietà del core '), si rivolge ai poeti e alle gentildonne che fanno parte della società letteraria nella quale l'autore ambisce di essere accolto: Pensando io a ciò che m'era apparuto, propuosi di farlo sentire a molti li quali erano famosi trovatori in quello tempo: e con ciò fosse cosa che io avesse già veduto per me medesimo l'arte del dire parole per rima, propuosi di fare uno sonetto, ne lo quale io salutasse tutti li fedeli d'Amore; e pregandoli ché giudicassero la mia visione, scrissi a loro ciò che io avea nel mio sonno veduto. E cominciai allora questo sonetto, lo quale comincia: ‛ A ciascun'alma presa ' (III 9); a me giunse tanta volontade di dire, che io cominciai a pensare lo modo ch'io tenesse; e pensai che parlare di lei non si convenia che io facesse, se io non parlasse a donne in seconda persona, e non ad ogni donna, ma solamente a coloro che sono gentili e che non sono pure femmine. Allora dico che la mia lingua parlò quasi come per se stessa mossa, e disse: ‛ Donne ch'avete intelletto d'amore ' (XIX 1-3).
La poesia viene qui concepita e praticata, con esplicite enunciazioni teoriche, come una sorta di credenziale che apra al poeta l'accesso nell'élite dei ‛ fedeli d'amore ', i quali sono intenditori autorevoli della poesia e della sua bellezza: A questo sonetto fue risposto da molti e di diverse sentenzie (III 14); E sé non vuoli andar sì come vana, / non restare ove sia gente villana: / ingegnati, se puoi, d'esser palese solo con donne o con omo cortese (XIX 14-17); e la bellezza, cioè la determinazione della categoria estetica, che in questa sua prima fase la p. di D. persegue, è, naturalmente quella idealizzante la figura umana e tutti gli aspetti del reale, che era propria di una certa figuratività gotica.
È la medesima determinazione della categoria estetica che, più o meno negli stessi anni in cui si collocano gli avvenimenti narrati da D. nella Vita Nuova, veniva coltivata da Duccio nella figuratività della pala commessagli nel 1285 per la chiesa di Santa Maria Novella dalla famiglia fiorentina dei Rucellai, figuratività rigorosamente coloristica, più che plastica: Apparve vestita di nobilissimo colore, umile e onesto, sanguigno, cinta e ornata a la guisa che a la sua giovanissima etade si convenia (II 3); avvenne che questa mirabile donna apparve a me vestita di colore bianchissimo, in mezzo a due gentili donne, le quali erano di più lunga etade (III 1); m'apparve una maravigliosa visione: che me parea vedere ne la mia camera una nebula di colore di fuoco, dentro a la quale io discernea una figura d'uno segnore di pauroso aspetto a chi la guardasse (§ 3); Ne le sue braccia mi parea vedere una persona dormire nuda, salvo che involta mi parea in uno drappo sanguigno leggeramente (§ 4); me parve vedere ne la mia camera lungo me sedere uno giovane vestito di bianchissime vestimenta (XII 3; e qui la p. dei colori luminosi e trasparenti si accompagna a quella di un'armoniosità delle parole, loro, dolcezza nel dire d'amore: voglio che tu dichi certe parole per rima, ne le quali tu comprendi la forza che io tegno sopra te per lei, § 7; e no le mandare in parte, sanza me; ove potessero essere intese da lei, ma falle adornare di soave armonia, ne la quale io sarò tutte le volte che farà mestiere, § 8; e anzi ch'io uscisse di questa camera, propuosi di fare una ballata, ne la quale io seguitasse ciò che lo mio segnore m'avea imposto, § 9; Con dolze sono, quando se' con lui, / comincia este parole, / appresso che averai chesta pietate: / " Madonna, quelli che mi manda a vui, / quando vi piaccia, vole, / sed elli ha scusa, che la m'intendiate... ", § 12 15-20). P. visiva del colore, e p. musicale della dolce armonia, traslocate nella forma delle parole: dolce armonia, colore; o la linearità sinuosa di quel gotico francese della corte di s. Luigi e degli ambienti a questa legati, che D. e i suoi amici potevano parzialmente conoscere attraverso codici miniati e sculture portatili in avorio: Voi che portate la sembianza umile, / con li occhi bassi, mostrando dolore (XXII 9 1-12); Ell'ha nel viso la pietà sì scorta, / che qual l'avesse voluta mirare / sarebbe innanzi lei piangendo morta (§ 16 12-14); io vidi monna Vanna e monna Bice / venire inver lo loco là 'v'io era, / l'una appresso de l'altra maraviglia; / e sì come la mente mi riduce, / Amor mi disse: " Quell'è Primavera, / e quell'ha nome Amor, sì mi somiglia " (XXIV 8 9-14); Io dico ch'ella si mostrava sì gentile e sì piena di tutti li piaceri, che quelli che la miravano comprendeano in loro una dolcezza onesta e soave (XXVI 3). E in questa teorizzazione hanno parte uguale, come principio dell'operare poetico, quello che con Platone potremmo chiamare il divino furore, l'invasamento per il quale il poeta compone come fuori di sé (quasi cambiato ne la vista mia cavalcai quel giorno pensoso molto e accompagnato da molti sospiri. Appresso lo giorno cominciai di ciò questo sonetto, lo quale comincia: ‛ Cavalcando ' (IX 7-8); passando per uno cammino lungo lo quale sen gia uno rivo chiaro molto, a me giunse tanta volontade di dire (XIX 1); l'invasamento, ma anche la deliberazione della volontà, accompagnata dalla riflessione intorno ai modi del poetare, al suo procedimento: propuosi di dire parole, acciò che degnamente avea cagione di dire (XXII 7); propuosi di dire parole di questo che m'era addivenuto, però che mi parea che fosse amorosa cosa da udire; e però ne dissi questa canzone: ‛ Donna pietosa e di novella etate ' (XXIII 16); molte volte non potendo lagrimare né disfogare la mia tristizia, io andava per vedere questa pietosa donna... E però mi venne volontade di dire anche parole, parlando a lei, e dissi questo sonetto, lo quale comincia ‛ Color d'amore ' (XXXVI 2-3): in ogni caso condizionando l'adempimento dell'ufficio della poesia, e il raggiungimento del fine al quale essa è ordinata, all'essere la poesia fatta con parole ‛ adorne di soave armonia ' (XII 8) poiché in quest'armonia delle parole si comunica l'amore, dal quale la poesia è suggerita e come imposta: propuosi di farne alcuna lamentanza in uno sonetto; lo quale io scriverò, acciò che la mia donna fue immediata cagione di certe parole che ne lo sonetto sono, sì come appare a chi lo intende. E allora dissi questo sonetto, che comincia: ‛ O voi che per la via ' (VII 2); e nella medesima armonia delle parole, i destinatari del messaggio poetico possono in qualche modo partecipare della dolcezza quale al cuore, attraverso gli occhi, dà la donna dell'amore ispiratrice: Mostrasi sì piacente a chi la mira, / che dà per li occhi una dolcezza al core, / che 'ntender no la può chi no la prova: / e par che de le sue labbia si mova / un spirito soave pien d'amore, / che va dicendo a l'anima: Sospira (XXVI 7 9-14).
Già il capitolo con cui si chiude la Vita Nuova preannuncia tuttavia un differente modo di poetare, prepara i nuovi tempi della p. dantesca: apparve a me una mirabile visione, ne la quale io vidi cose che mi fecero proporre di non dire più di questa benedetta infimo a tanto che io potesse più degnamente trattare di lei. E di venire a ciò io studio quanto posso, sì com'ella sae veracemente. Sì che, se piacere sarà di colui a cui tutte le cose vivono, che la mia vita duri per alquanti anni, io spero di dicer di lei quello che mai non fue detto d'alcuna (XLII 1-2). E il Convivio, che si dichiara essere una continuazione della Vita Nuova (Cv III I 1-4 lo mio secondo amore prese cominciamento da la misericordiosa sembianza d'una donna... E sì come lo multiplicato incendio pur vuole di fuori mostrarsi, che stare ascoso è impossibile, volontade mi giunse di parlare d'amore, l[a] quale del tutto tenere non potea... e vidi che, d'amor parlando, più bello né più profittatile sermone non era che quello nel quale si commendava la persona che s'amava), espone e applica, appunto, questo secondo tempo della p. di D.: in cui la poesia viene concepita e teorizzata come pane orzato (I XIII 12), con il quale sfamare il desiderio di sapienza di coloro che non sono uomini di scienza: queste canzoni, a le quali questo comento è per servo ordinato, comandano e vogliono essere esposte a tutti coloro a li quali puote venire sì lo loro intelletto, che quando parlano elle siano intese... Onde con ciò sia cosa che molti più siano quelli che desiderano intendere quelle non litterati che litterati... (VII 11-12); la bontà de l'animo, la quale questo servigio attende, è in coloro che per malvagia disusanza del mondo hanno lasciata la litteratura a coloro che l'hanno fatta di donna meretrice; e questi nobili sono principi, baroni, cavalieri, e molt'altra nobile gente, non solamente maschi ma femmine, che sono molti e molte in questa lingua, volgari e non litterati (IX 5). Ufficio della poesia, in questa seconda fase della p. di D., è inducere li uomini a scienza e a vertù (IX § 7); e questo, mediante la polisemia della poesia: la quale consta di un senso letterale e di una sentenza (significato allegorico; senso morale e senso anagogico o sovrasenso: v. ESTETICA), che al senso letterale sta come, secondo la filosofia di Aristotele, la forma sta alla materia: è impossibile però che in ciascuna cosa, naturale ed artificiale, è impossibile procedere a la forma, sanza prima essere disposto lo subietto sopra che la forma dee stare: sì come impossibile la forma de l'oro è venire, se la materia, cioè lo suo subbietto, non è digesta e apparecchiata; e la forma de l'arca venire, se la materia, cioè lo legno, non è prima disposta e apparecchiata. Onde con ciò sia cosa che la litterale sentenza sempre sia subietto e materia de l'altre, massimamente de l'allegorica, impossibile è prima venire a la conoscenza de l'altre che a la sua (II I 10-11).
La p. del Convivio è dunque teoria di una poesia allegorico-didascalica: nella quale però la sentenza non fa una cosa sola con la bellezza, che consiste ne l'ornamento de le parole (XI 4): nell'essere, la poesia, perfetta, secondo la definizione che lo stesso poeta dà, sì per construzione, la quale si pertiene a li Bramatici, sì per l'ordine del sermone, che si pertiene a li rettorici, sì per lo numero de le sue parti, che si pertiene a li musici (§ 9). L'esposizione della sentenza è pertane:, affidata al commento, redatto in volgare, affinché lo possano intendere quelli che delle canzoni sono in grado di afferrare la bellezza, ma non la bontà: queste canzoni, a le quali questo comento è per servo ordinato, comandano e vogliono essere esposte a tutti coloro a li quali puote venire sì lo loro intelletto, che quando parlano elle siano intese... E lo latino non l'averebbe esposte se non a' litterati, ché li altri non l'averebbero inteso. Onde... seguitasi che non averebbe pieno lo suo comandamento come 'l volgare, che da li litterati e non litterati è inteso (I VII 11-12); la bontade e la bellezza di ciascuno sermone sono intra loro partite e diverse; ché la bontade è ne la sentenza, e la bellezza è ne l'ornamento de le parole... Onde con ciò sia cosa che la bontade di questa canzone fosse malagevole a sentire... e la bellezza fosse agevole a vedere, parvemi mestiero a la canzone che per li altri si ponesse più mente a la bellezza che a la bontade (II XI 4-5). Possiamo dunque rilevare, in questo secondo tempo della p. dantesca, una non completa identificazione del senso letterale col significato allegorico, col senso morale e col senso anagogico: mentre l'identificazione dei quattro sensi, che è anche identità della bellezza con la bontà della poesia, caratterizzerà la p. di D., la quale risulta nella Commedia: dove il commento dottrinale è interamente immedesimato alla visione che la poesia descrive e racconta.
La p. della Commedia differisce da quella del Convivio perché qui il procedimento da seguire nella lettura è analogo a quello che Ugo di San Vittore (Eruditiones Didascalicae V III) aveva raccomandato per le Sacre Scritture, dove " non tantum verba, sed etiam res " sono portatrici di significato: un processo seguendo il quale " per vocem ad intellectum, per intellectum ad rem, per rem ad rationem, per rationem pervenitur ad veritatem ". La poesia della Commedia si propone dunque nello stesso tempo come ‛ bella ' e come stimolante per il pensare, il sentire dei lettori, sull'animo dei quali essa vuole agire; e la sua azione sarà tanto più efficace quanto più la sua bellezza (per valerci della terminologia adoperata nel Convivio) corrisponde alla sua bontà: quanto più, cioè, la scelta e la modellazione della materia verbale sarà rispondente al significato letterale, e al significato delle cose nominate e raccontate - al senso, cioè, qui habetur per significata per litteram (Ep XIII 20).
Molteplici e diverse sono dunque le determinazioni della categoria estetica che D. adotta nelle tre cantiche, in relazione al fine che volta per volta si propone la sua volontà di apostrofare chi legge, di ammaestrarlo, di guidarlo a salvazione, secondo l'ufficio soteriologico della poesia, che a suo tempo fu posto in evidenza dal Seiferth (v. ESTETICA): il quale ufficio viene volta per volta esercitato attraverso il terrore, la ripugnanza, la nostalgia, l'entusiamo, o addirittura l'abbagliamento provocato nel lettore da parole che anticipano la luce e la gloria del Paradiso. E questa varietà della bellezza in relazione alla varia bontà della poesia viene più volte sottolineata da D. nel corso delle tre cantiche: in modi che vanno da quello che oggi si direbbe uno understatement, mediante il quale il poeta manifesta in anticipo la maniera di poetare che egli si propone alla frequente richiesta dell'aiuto divino, talvolta identificato con le Muse, e infine direttamente invocato nell'ultimo canto del Paradiso.
Così, per suscitare nei lettori l'orrore gelido della ghiaccia infernale, D. mette in pratica una scelta analogica della materia verbale, insieme lamentando la pochezza del proprio dire: S'io avessi le rime aspre e chiocce... (If XXXII 1); ed evidente è qui il richiamo a formulazioni consimili reperibili nelle Rime o nel Convivio con parallele intenzioni di p.: Così nel mio parlar voglio esser aspro (Rime CIII 1); e: diporrò giù lo mio soave stile, / ch'i' ho tenuto nel trattar d'amore; / e dirò del valore, / per lo qual veramente omo è gentile, / con rima aspr'e sottile (Cv IV Le dolci rime 10-14). E per l'insufficienza dei propri mezzi, per la povertà della materia verbale e della propria capacità di modellarla, D. ricorre alla p. dell'ispirazione, invoca le Muse, o Dio stesso: Ma qui la morta poesì resurga, / o sante Muse, poi che vostro sono; / e qui Calïopè alquanto surga (Pg I 7-9); O sacrosante Vergini, se fami, / freddi o vigilie mai per voi soffersi, / cagion mi sprona ch'io mercé vi chiami. / Or convien che Elicona per me versi, / e Uranìe m'aiuti col suo coro / forti cose a pensar mettere in versi (XXIX 37-42); e infine: O somma luce che tanto ti levi / da' concetti mortali, a la mia mente / ripresta un poco di quel che parevi, / e fa la lingua mia tanto possente, / ch'una favilla sol de la tua gloria / possa lasciare a la futura gente; / ché, per tornare alquanto a mia memoria / e per sonare un poco in questi versi, / più si conceperà di tua vittoria (Pd XXXIII 67-75).
In queste terzine dell'ultimo canto del Paradiso, la p. della Commedia (quale troverà esplicita formulazione in Ep XIII 84 Multa namque per intellectum videmus quibus signa vocalia desunt: quod satis Plato insinuat in suis libris per assumptionem metaphorismorum; multa enim per lumen intellectuale vidit quae sermone proprio nequivit exprimere) risulta differenziata da quella del Convivio, la cui fondazione filosofica era razionalistico-aristotelica; e riprende i temi della metafisica della luce, che era stata teorizzata da Roberto Grossatesta, mentre in precedenza li aveva compendiati, nel sec. XII, l'abate Sugerio, con i versi dedicatori della basilica di Saint-Denis (v. ESTETICA). La fonte più probabile di questo orientarsi della p. di D., nel senso della metafisica neoplatonica della luce, dev'essere stato s. Bonaventura: ma è lecito supporre, dati i legami che il vescovo Grossatesta aveva avuti con l'ordine francescano, che del De Luce seu de inchoatione formarum, l'opera più conosciuta di quel vescovo di Lìncoln, D. avesse avuto notizia dai francescani di Santa Croce.
All'interno della p. del Paradiso (in cui l'ispirazione platonica prevale su quella aristotelica, o quanto meno la pareggia) sono inoltre da rilevare assunzioni in proprio dalla p. delle arti figurative, nelle correnti più strettamente legate alla metafisica della luce: la p. dei mosaici e delle miniature, con impiego simbolico delle lettere dell'alfabeto, considerate come immagini, oltre che come segni (cfr. Pd XVIII 73-108); oppure è la p. delle vetrate, in cui la luce colorata mostrava il diverso risplendere della gloria di Dio (La gloria di colui che tutto move / per l'universo penetra, e risplende / in una parte più e meno altrove (I 1-3) e il diversificarsi della grazia divina, che si rifrange variamente colorandosi, secondo le virtù che essa beatifica dopo averle in terra di sé alimentate cfr. II 121-146, XXXII 70-72.
Anche verso la fine della seconda cantica, del resto, era stato palese il richiamo alla metafisica della luce: più che nella formulazione bonaventuriana, quale risulta dal commento di s. Bonaventura alle Sentenze di Pietro Lombardo (II XIII), in quella che ne aveva data Ugo di San Vittore nel libro VIII, capitolo XV, delle Eruditiones Didascalicae: dove si legge un elogio dei colori che può benissimo esser riconosciuto come un principio della p. professata e messa in pratica da D. negli ultimi quattro canti del Purgatorio. In questi canti, inoltre, ha luogo un passaggio dal mondo della storia, e quindi del tempo, alla sovrastoricità e sopratemporalità del Paradiso: questo spiega l'andamento narrativo con cui D. vi descrive gli accadimenti da lui immaginati; i quali accadimenti, a somiglianza del cerimoniale liturgico e paraliturgico su cui sono esemplati, si svolgono nel tempo, ma con una loro identità a sé stessi che li mostra non come episodi (quali sono quelli riferiti nelle narrazioni della prima cantica: la discesa di D. e Virgilio in groppa a Gerione, in If XVI, le ribalderie dei Malebranche in If XXI e XXII), ma come riti: nei quali si realizza il significato sovratemporale della storia umana, e si fa manifesto il carattere escatologico che la p. di D. reputava essenziale alla poesia realizzata nella Commedia.
Bibl. - Oltre le opere citate sotto Estetica, si vedano: Ugo di San Vittore Didascalion. De studio legendi, a c. di C.M. Buttimer, Washington 1939; S. Bonaventura Commentaria in IV libros sententiarum Magistri Petri Lombardi, in Opera Theologica selecta, I-IV, Quaracchi 1934-1949; Roberto Grossatesta, De luce seu de inchoatione formarum, ediz. L. Baur, in Beiträge zur Geschichte der Philosophie der Mittelalters, IX, Münster 1912; W. Seiferth, Zur Kunstlehre D., in " Archiv für Kulturgeschichte " XVII (1927) 194-225; H.H. Glunz, Die Literarästhetik des europäischen Mittelalters, Bochum 1937, in bibl. (nuova ediz. postuma: Francoforte 1963); R. Guardlni, Das Licht bei D., Monaco 1956; C.S. Singleton, Journey to Beatrice, Cambridge Mass. 1958 (traduz. ital. Viaggio a Beatrice, Bologna 1968).