Platonismo e pitagorismo in Plutarco e Numenio
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La storia del platonismo antico è segnata a partire dal I secolo a.C. da una fase piuttosto travagliata, caratterizzata, da una parte, dal tramonto dell’orientamento scettico, che aveva egemonizzato questa tradizione filosofica per tutta l’epoca ellenistica (III-I sec. a.C), e dall’altra, dal progressivo imporsi di un atteggiamento dogmatico, mirante ad attribuire a Platone dottrine (dogmata) filosofiche definite. Questo processo di sistematizzazione prende forma anche grazie all’innesto nel cuore del platonismo di concezioni derivate da altre scuole, e in particolare dal pitagorismo. I due autori nei quali la fusione di elementi platonici e motivi pitagorici assume contorni più definiti e interessanti sono Plutarco di Cheronea e Numenio di Apamea.
Nel corso dell’intera epoca ellenistica tutti i filosofi che gravitano intorno all’Accademia, l’istituzione fondata ad Atene da Platone, abbracciano un orientamento filosofico di tipo scettico-aporetico, che essi credono di poter ritrovare anche nei dialoghi del maestro. Ai loro occhi il pensiero di Platone si caratterizza per l’attitudine critica, per l’assenza di teoremi filosofici definiti, per un generale atteggiamento di cautela, per l’invito a sospendere il giudizio, e infine per il riconoscimento che l’unica dimensione alla quale l’uomo può accedere sia quella della “plausibilità” (pithanòn), essendo la verità irraggiungibile.
Una simile impostazione filosofica entra in crisi nella prima metà del I secolo a.C., forse anche in seguito alla chiusura dell’istituzione avente sede ad Atene (88 a.C.). Nei decenni successivi si moltiplicano le testimonianze relative a filosofi platonici ormai decisamente orientati ad attribuire al loro caposcuola un’attitudine “dogmatica”, consistente nell’assunzione di un insieme di dottrine definite, nel campo della metafisica (teologia e ontologia), della cosmologia, della psicologia e dell’etica. Si potrebbe arrivare a sostenere che la storia del platonismo tra il I secolo a.C e gli inizi del III secolo sia percorsa dallo sforzo di trasformare la filosofia platonica in un sistema, ossia in un edificio teorico coerente e compatto, che sia in grado di competere con lo stoicismo, di cui già Cicerone vantava l’“admirabilis compositio disciplinae incredibilisque rerum ordo” (De finibus, 3, 74).
La natura delle opere platoniche, che sono dialoghi e non trattati, contribuisce a rendere problematico questo sforzo di sistematizzazione, il quale non segue un percorso unitario, ma coinvolge comunque quasi tutti i filosofi platonici attivi nei primi secoli dell’età imperiale. Tra i motivi che accomunano gli autori impegnati nell’impresa di “sistematizzare” Platone due sembrano imporsi in modo prepotente: (1) una grande attenzione all’esegesi degli scritti platonici, che sono oggetto di veri e propri commentari testuali; (2) il ricorso all’apporto di concezioni provenienti da altre scuole filosofiche. Questo secondo motivo coinvolge in particolare l’aristotelismo e il pitagorismo, che rappresentano in un certo senso gli “alleati” ideali per quei platonici impegnati nel progetto di costruzione del sistema.
In realtà tra i platonici attivi in questo periodo inizia a profilarsi un atteggiamento destinato a imporsi nei secoli successivi, e consistente nella ricostruzione di una “genealogia filosofica” che avrebbe avuto in Pitagora la sua origine e in Platone e Aristotele i suoi principali punti di snodo. Non tutti gli autori platonici accettano integralmente un simile punto di vista, ma non c’è dubbio che la convinzione, affermata apertamente da Giamblico e da Proclo, secondo cui il nucleo profondo del pensiero platonico risalirebbe a Pitagora, accomuna molti platonici dei primi secoli dell’epoca imperiale, a cominciare da Eudoro di Alessandria, il quale sembra essere stato il primo ad attribuire ai filosofi “pitagorici” una teoria dei principi e un sistema di derivazione di matrice platonico-accademica. Del resto, per gli autori platonici impegnati a costruire un sistema filosofico era naturale, e perfino inevitabile, rivolgersi a una genealogia diversa da quella di cui si erano serviti nei secoli precedenti gli scettici: a Socrate, funzionale a veicolare l’immagine di un Platone scettico e aporetico, essi sostituiscono Pitagora, che ben si presta a promuovere l’immagine di un Platone propositivo e sistematico.
Tra il I e il II secolo si affacciano numerosi autori per i quali Platone e Pitagora appartengono a un’unica tradizione. A Eudoro, si possono aggiungere i nomi di Trasillo, astronomo dell’imperatore Tiberio e responsabile dell’ordinamento del corpus in tetralogie, ossia in gruppi di quattro dialoghi; Moderato di Gadara, che compone uno scritto in 10 libri dal titolo Letture pitagoriche in cui sostiene tra l’altro che l’unico modo per comunicare le forme e i principi primi della realtà consista nel ricorrere ai numeri, e arriva a formulare una concezione gerarchica della realtà incentrata intorno a tre livelli (il primo Uno, che trascende l’essere, il secondo Uno, che è identico all’essere e all’intelligibile, cioè alle idee platoniche, e il terzo Uno, che corrisponde all’anima); e Nicomaco di Gerasa, autore dell’Introduzione aritmetica e della Teologia aritmetica, in cui, dopo avere attribuito a Pitagora il merito di avere per primo concepito la sapienza (sophia) come “conoscenza della verità che si trova negli enti”, ripropone la classica distinzione platonica tra gli “enti in senso proprio”, cioè le idee, che sono eterne, autoidentiche e immutabili, e gli “enti omonimi”, cioè i fenomeni sensibili, che risultano invece sottoposti a ogni forma di mutamento.
Un’ulteriore prova del legame che unisce nei primi secoli dell’età imperiale platonismo e pitagorismo è fornita dall’esistenza di una ricca produzione di falsi attribuiti ad antichi pitagorici, in particolare ad Archita di Taranto, nei quali si trovano esposte dottrine di impronta platonica, di cui gli autori di questi falsi reclamano l’origine pitagorica. Il più noto degli pseudoepigrafi pitagorici è costituito dallo scritto Sulla natura del cosmo e dell’anima, attribuito a Timeo di Locri, lo stesso personaggio che compare nel dialogo omonimo di Platone, il quale di Timeo avrebbe addirittura plagiato le dottrine.
Che il pitagorismo di questo periodo sia parte integrante del platonismo viene infine provato dal fatto che l’insegnamento di questo orientamento non viene contemplato nell’ambito dell’istituzione ad Atene, per merito di Marco Aurelio, di quattro “cattedre” di filosofia finanziate dall’impero nell’anno 176, corrispondenti alle principali scuole del tempo: platonismo, aristotelismo, epicureismo e stoicismo. Evidentemente il pitagorismo non viene percepito come una corrente autonoma, ma è considerato come parte integrante della tradizione platonica.
Non c’è dubbio che i due autori platonici nei quali è più significativa la presenza di temi e motivi pitagorici sono Plutarco di Cheronea e Numenio di Apamea, che rappresentano, per ragioni diverse, le figure più interessanti che la tradizione platonica ha proposto prima di Plotino: il primo è autore straordinariamente prolifico e dai molteplici interessi (scrive anche le celebri Vite parallele), il secondo rappresenta la personalità filosoficamente più profonda tra i platonici che precedono Plotino.
Se, come vedremo, questi due autori presentano numerosi punti di contatto sul piano teorico, molto differente risulta lo stato di conservazione delle loro opere: di Plutarco ci restano un’ottantina di Moralia (che è il titolo con cui sono stati tramandati i suoi scritti di argomento filosofico), su una produzione che doveva ammontare a oltre 200 titoli, mentre di Numenio, al quale si deve la composizione di almeno due opere di notevole interesse filosofico (Il distacco degli Accademici da Platone e Sul bene), sono tramandati solamente una sessantina di testimonianze e frammenti, di varia estensione, conservati nelle opere di autori più tardi.
L’appartenenza di Plutarco e Numenio al platonismo (o al “medioplatonismo”, che è il termine con cui si è soliti designare questo periodo) emerge con tutta evidenza nella riproposizione da parte di entrambi della classica distinzione tra “essere” e “divenire”. Essa trova la formulazione più significativa in un dialogo plutarcheo, dal titolo La E di Delfi, nel quale viene rappresentata una conversazione finalizzata a scoprire il significato del misterioso simbolo, simile a una E, che si trova nel tempio di Apollo a Delfi. Le due ultime risposte fornite all’enigma della E sono le più interessanti, perché nella finzione scenica vengono attribuite a Plutarco stesso, nei panni di un giovane allievo, e al filosofo platonico Ammonio, maestro di Plutarco e suo portavoce. Il giovane Plutarco sostiene che il simbolo delfico indica la epsilon, quinta lettera dell’alfabeto greco, e intende richiamare l’attenzione sull’importanza del numero 5, che secondo i pitagorici riveste un significato eccezionale, essendo la somma di 2, primo numero pari, e 3, primo numero dispari (per i pitagorici l’1 non è un numero ma il principio dei numeri), nonché, tra le altre cose, il termine della sequenza dimensionale (punto-linea-superficie-solido-solido animato, ossia in movimento), in cui trova espressione la struttura della realtà. Si tratta di una soluzione che attribuisce al numero una posizione preminente nella gerarchia ontologica e che dunque presenta una chiara impronta pitagorica. Ad essa si contrappone la risposta di Ammonio, che esprime anche il punto di vista dell’autore maturo.
Per Ammonio la matematica rappresenta certamente un “aspetto non trascurabile della filosofia”, ma i suoi oggetti, cioè i numeri, non si identificano con l’essere. La E del tempio delfico, perciò, non evoca un numero, ma esprime la seconda persona del presente indicativo del verbo essere, ei, cioè “tu sei”, che rappresenta la formula con cui i fedeli si rivolgono al Dio entrando nel tempio. Così facendo essi riconoscono la pienezza ontologica della divinità, che si identifica infatti con l’essere perfetto, eterno e immutabile, “concentrato nell’ora”, cioè in un presente atemporale. La condizione dell’essere si oppone a quella degli uomini, che sono costantemente soggetti alla nascita e alla morte, vale a dire alla condizione del “divenire” (La E di Delfi, 391e-393c).
Plutarco riprende dunque la contrapposizione platonica tra essere e divenire, ma lo fa attraverso un’operazione di personalizzazione delle due sfere: l’essere corrisponde a dio, il divenire agli uomini. Nello scritto sulla E egli prende posizione anche nei confronti del pitagorismo, con il quale dichiara di avere simpatizzato in gioventù, per poi distanziarsene in direzione di una chiara adesione alla metafisica platonica, interpretata in senso teologico. Nei confronti di Pitagora e del pitagorismo egli appare comunque ben disposto, dimostrandosi pronto ad abbracciarne quelle posizioni che possono venire integrate nell’ambito di una prospettiva inequivocabilmente platonica.
Anche Numenio, nel suo scritto Intorno al Bene, espone una concezione di stampo platonico. Alla domanda su “che cosa è l’ente?” egli risponde che esso si identifica con l’essere intelligibile, il quale è immutabile, eterno e “concentrato nel presente”. Anche Numenio, come Plutarco, personalizza questa realtà, identificandola con la divinità, ma a differenza di Plutarco egli sviluppa una complessa gerarchia teologica, che anticipa le dottrine neoplatoniche. Se Plutarco aveva ipotizzato un unico Dio, identico al Bene della Repubblica, al demiurgo del Timeo e all’Uno dei pitagorici, Numenio articola la sfera teologica in due livelli, occupati rispettivamente dal “primo Dio”, cioè il Bene-Uno, il quale condensa in se stesso il mondo delle idee, e dal “secondo Dio”, cioè il demiurgo, al quale spetta il compito di generare il mondo sensibile sulla base del modello contenuto nel primo Dio. Numenio, inoltre, sembra avere ulteriormente articolato questo secondo Dio, dando luogo a un terzo livello, forse occupato dall’anima del mondo. Si comprende come Numenio venga spesso considerato un anticipatore del neoplatonismo di Plotino, al quale gli antichi rivolgono l’accusa di avere plagiato Numenio (Porfirio, Vita di Plotino, 17, 1-2).
Esiste una concezione alla quale sia Plutarco che Numenio aderiscono in modo convinto e che entrambi riconducono al pitagorismo: si tratta del dualismo, ossia della convinzione che l’intera realtà, in tutti i suoi aspetti, sia riconducibile a due principi contrapposti, l’uno causa e fonte del bene, l’altro del male. A differenza di autori pitagorizzanti come Eudoro e Moderato, Plutarco e Numenio negano che la realtà derivi da un unico principio (l’Uno-Dio supremo), e optano per un dualismo, che ai loro occhi accomuna Pitagora e Platone. Il principio positivo è rappresentato dal Dio-Bene-Uno, cioè dal mondo intelligibile, mentre quello negativo, da cui dipendono il disordine (fisico-cosmologico) e il male (morale), si sostanzia in un’anima precosmica, causa del movimento disordinato e irrazionale presente nell’universo.
Sia Plutarco che Numenio riconducono poi l’intera serie delle cause positive (Dio, Bene, intelletto, anima del mondo, provvidenza) e negative (anima precosmica malvagia, necessità, desiderio irrazionale, materia) a due principi assoluti, rispettivamente l’Uno e la Diade indeterminata. Si tratta di una concezione che i due autori attribuiscono a Pitagora, e che sarebbe poi stata ripresa e approfondita da Platone. Calcidio riferisce che Numenio, per respingere il monismo degli stoici, si rifà all’insegnamento di Pitagora (ex Pythagorae magisterio), ripreso poi da Platone, ossia alla concezione secondo cui Dio è l’Uno (singularitas), mentre la materia, cioè il male, è la Diade indeterminata (indeterminata duitas).
Platonismo e pitagorismo convergono, per Plutarco e Numenio, nell’affermazione di un dualismo metafisico che immagina la realtà in tutti i suoi aspetti (cosmologico, psicologico, etico) come un campo di battaglia in cui si scontrano Bene e Male, i quali non sono tuttavia equipotenti, dal momento che il principio positivo sembra esercitare un certo dominio (kratos), che in Plutarco si fonda sul richiamo alla concezione platonica secondo la quale “la necessità viene persuasa dall’intelletto”.
Plutarco e Numenio aderiscono anche ad altre concezioni di matrice pitagorica, o come tali percepite. Degno di menzione è il caso della celebre dottrina della trasmigrazione delle anime e del conseguente divieto di cibarsi di carne. Plutarco dedica uno scritto a combattere la sarcofagia e tra gli argomenti che menziona compare anche il richiamo all’antica concezione pitagorica (e di Empedocle) secondo la quale nel corpo di un animale potrebbe celarsi l’anima “del padre, della madre, di un amico o del proprio figlio”. Nei frammenti di Numenio si trovano tracce della dottrina secondo la quale il corpo rappresenta per l’anima un “carcere”, che già Platone nel Fedone aveva attribuito ai pitagorici.
Plutarco e Numenio sembrano dunque avere immaginato una sorta di genealogia che fa di Pitagora la fonte di Platone. Si tratta di un’impostazione che ha però esiti diversi nei due autori: per Plutarco le tesi pitagoriche vanno riprese laddove si integrano con il platonismo (dualismo metafisico-cosmologico e trasmigrazione delle anime), ma corrette laddove se ne distaccano (primato del numero nella scala ontologica); per Numenio, invece, il pensiero di Pitagora è identico a quello di Platone, il cui merito consiste nell’avere formulato in maniera più chiara ed esplicita tesi che sono in tutto e per tutto pitagoriche. Nello scritto su Il distacco degli Accademici da Platone Numenio equipara l’intera storia del pensiero a un “distacco” dalla verità formulata da Pitagora, ripresa da Socrate e compresa pienamente solo da Platone, il quale fu in grado di cogliere l’enigma che si nascondeva dietro le parole di Socrate perché “pitagorizzava”, cioè conosceva la concezione di Pitagora. Dopo Platone la storia della filosofia è una sequenza di errori, che coinvolge anche Aristotele e che raggiunge il culmine nell’adesione allo scetticismo da parte dei platonici del periodo ellenistico.
Platone dunque riprende la teoria di Pitagora, ma ciò non significa che gli sia inferiore: i due grandi maestri della filosofia greca si collocano sullo stesso piano. Tuttavia né all’uno né all’altro spetta il merito di avere scoperto la verità, perché essa ha radici antichissime e risale a una sapienza poetico-religiosa che coinvolge anche popoli diversi da quello greco: essa si trova in Omero, Esiodo, Eraclito, Parmenide, ma anche nei bramani, negli Egiziani e negli ebrei, e dunque presso Mosè, al quale Platone viene accostato da Numenio per mezzo della celebre definizione che lo indica come un “Mosè che parla attico”. Questa antichissima sapienza è espressa in maniera enigmatica e può venire messa in luce solo per mezzo di un’esegesi allegorica di questi testi.
La convinzione che la verità sia un patrimonio antico che coinvolge sia la riflessione filosofica che la tradizione religiosa si trova anche in Plutarco, il quale nello scritto Iside e Osiride si propone di dimostrare la convergenza tra la filosofia platonico-pitagorica e la mitologia egiziana, nei cui racconti sarebbe celata la medesima concezione dualistica che attraversa il pensiero greco. Del resto, l’esigenza di collegare speculazione filosofica e pratica religiosa emerge in Plutarco anche nello sforzo di conciliare la teologia platonica con la religiosità apollinea, di cui egli è rappresentante, in quanto sacerdote a Delfi.
Plutarco e Numenio sembrano dunque accomunati da un’analoga strategia culturale, consistente nell’integrazione della filosofia alla quale si sentono di appartenere in una tradizione più ampia e più antica, che coinvolge altri popoli e altre forme di sapere. Nell’ambito di un simile progetto non deve sorprendere il ricorso, accanto a Platone, anche a Pitagora, un autore nel quale riflessione filosofica e adesione a una sapienza mitica e religiosa trovano un primo significativo punto di convergenza.