placebo
L’effetto placebo consiste in un cambiamento organico o mentale in un soggetto che attribuisce un significato simbolico a un evento o a un determinato oggetto (per es., una sostanza) in ambito sanitario. L’effetto placebo dipende dal contesto psicosociale nel quale si attua la terapia, costituito da qualsiasi oggetto o persona in grado di comunicare al paziente che si sta effettuando una terapia e che quindi si prevede una riduzione nel tempo dei sintomi da lui manifestati. Quindi l’effetto placebo è un fenomeno psicobiologico che coinvolge meccanismi molto complessi a livello cerebrale, e non si deve confondere con altri fenomeni, quali la remissione spontanea di un sintomo o di una malattia. Non esiste un solo effetto placebo ma molti, con differenti meccanismi e in differenti apparati dell’organismo.p [➔ analgesia; ansia; depressione; dipendenza, tolleranza e sensibilizzazione; dolore; oppioidi; Parkinson, malattia di; PET] Un p. è una sostanza inerte o un trattamento medico privo di qualunque proprietà terapeutica; l’effetto p., o risposta p., è il risultato che segue alla sua somministrazione.
Il p. viene comunemente utilizzato nei trials clinici, i quali servono per testare e validare l’efficacia di una terapia; in tal senso, il p. viene utilizzato esclusivamente come controllo, senza studiare i suoi meccanismi o cercare di comprenderne il significato. In altre parole, in un trial clinico il p. è solo un metodo di comparazione. Tale paragone viene fatto tra un gruppo di pazienti che riceve la terapia vera e un altro gruppo che riceve una terapia finta (il p.), per es. una compressa di zucchero o un’iniezione di acqua distillata. Né lo sperimentatore né i pazienti sanno cosa viene somministrato (paradigma in doppio cieco): ogni paziente può essere soggetto alla terapia vera o a una terapia placebo. Se la terapia reale produce risultati migliori di quella p., può essere considerata efficace, perciò coloro che effettuano un trial clinico non sono interessati al perché i pazienti che ricevono un p. a volte mostrano un miglioramento clinico: questo atteggiamento è alla base dei cosiddetti trials clinici pragmatici, poiché importa che la terapia vera funzioni meglio di quella placebo. Al contrario, i trials clinici esplicativi sono mirati anche a comprendere i meccanismi sottostanti alla risposta del singolo alla terapia.
La distinzione fra meccanismi psicologici e neurobiologici dell’effetto p. è certamente da considerarsi artificiale, in quanto tale effetto è descritto da un continuum di eventi mentali e biologici. La differenziazione qui utilizzata dipende sia da ragioni descrittive sia dal fatto che l’approccio psicologico è più mirato alla descrizione degli eventi mentali e del comportamento, mentre quello neurobiologico tende a comprendere gli eventi biochimici e cellulari che avvengono nel cervello del paziente. Oggi si conoscono almeno due aspetti dell’effetto placebo. Innanzi tutto, l’aspettativa e l’anticipazione della riduzione di un sintomo inducono una reale riduzione del sintomo attraverso meccanismi cognitivi in cui i lobi frontali giocano un ruolo di primo piano; per es., aspettarsi un beneficio terapeutico, e quindi un miglioramento clinico, scatena meccanismi cerebrali di ‘ricompensa’ oppure di riduzione dell’ansia. Secondariamente, un meccanismo di condizionamento classico, detto anche condizionamento pavloviano (da Ivan P. Pavlov), può spiegare in alcune situazioni la risposta placebo. In quest’ultimo caso, la ripetuta associazione fra il contesto intorno al paziente (per es., una siringa o il personale medico) e il principio farmacologico attivo (il farmaco contenuto nella siringa) induce una risposta condizionata per cui, dopo ripetute associazioni, la sola vista della siringa o del medico è sufficiente a indurre la riduzione del sintomo. Questi due meccanismi, l’aspettativa da un lato e il condizionamento dall’altro, non si escludono a vicenda poiché possono entrare in gioco in diverse situazioni: è stato dimostrato che l’aspettativa gioca un ruolo importante nella risposta p. dei processi coscienti (dolore e performance motoria), mentre il condizionamento è responsabile della risposta p. dei processi non coscienti (secrezione di ormoni e risposte immunitarie).
L’analgesia da p., cioè la riduzione del dolore (➔), si è rivelata negli ultimi anni il miglior modello per comprendere la neurofarmacologia e la neuroanatomia dell’effetto placebo. Oggi sappiamo che l’analgesia da p. è dovuta a meccanismi sia oppioidi sia non oppioidi, in relazione alla procedura utilizzata per indurre la risposta placebo. L’identificazione neuroanatomica di questi meccanismi oppioidi è stata ottenuta mediante tecniche di neuroimaging. In partic., è stata descritta l’attivazione di un sistema inibitorio in seguito alla somministrazione di un placebo. Queste regioni cerebrali sono state identificate mediante la tomografia a emissione di positroni (PET), che ha mostrato come un farmaco oppioide e un p. attivino le stesse regioni, e in partic. la parte rostrale della corteccia cingolata anteriore e la corteccia orbitofrontale. Gli oppioidi endogeni attivati da un p. possono anche produrre depressione respiratoria e modificare l’attività cardiaca. Utilizzando un’altra tecnica di neuroimaging, la risonanza magnetica nucleare funzionale, sono state descritte in dettaglio le regioni cerebrali coinvolte nell’analgesia da placebo. Si è potuto dimostrare come l’anticipazione dell’analgesia indotta dal p. attivi la corteccia prefrontale dorsolaterale, la quale inibirebbe la trasmissione del dolore a livello del talamo e dell’insula. La dimostrazione definitiva che in queste aree avviene una liberazione di oppioidi endogeni in seguito a una procedura p. è stata ottenuta utilizzando tecniche di legame recettoriale in vivo, con le quali è possibile osservare e quantificare l’attivazione dei recettori oppioidi nell’uomo. Questo approccio ha dimostrato che la somministrazione di un p. induce l’attivazione dei recettori mu degli oppioidi in diverse aree cerebrali, come la corteccia cingolata anteriore, la sostanza grigia periacqueduttale e il nucleus accumbens. Oltre all’attivazione dei recettori oppioidi, nel nucleus accumbens avviene anche un’attivazione dei recettori per la dopammina, e ciò indica l’alto grado di complessità della risposta placebo.
Con l’inizio del nuovo millennio, oltre al dolore sono stati studiati altri sistemi e altre condizioni che interessano l’effetto placebo.
Malattia di Parkinson. La malattia di Parkinson ha fornito dati importanti per quel che riguarda il placebo: utilizzando la PET, è stato dimostrato che un p. somministrato a pazienti parkinsoniani attiva la dopammina in una regione cerebrale specifica, lo striato; parallelamente a questo studio sono stati analizzati pazienti parkinsoniani, ai quali erano stati impiantati due elettrodi nei nuclei subtalamici per la stimolazione cronica terapeutica. In tali pazienti sono state indotte diverse aspettative di miglioramento della performance motoria, utilizzando diverse procedure placebo. I risultati dimostrano che un p. è in grado di modulare gli effetti terapeutici della stimolazione del nucleo subtalamico, suggerendo pertanto che una procedura p. è in grado di modulare l’eccitabilità neuronale di alcune regioni cerebrali. Inoltre, registrando nel paziente parkinsoniano, è stato dimostrato un effetto p. a livello dei singoli neuroni del nucleo subtalamico, che cambiano la loro attività in seguito a somministrazione di un p.; tali cambiamenti sono in stretta relazione con la sintomatologia clinica.
Sistema immunitario. Lo studio del sistema immunitario e del sistema endocrino ha fornito dati importanti per comprendere le risposte p. derivanti dal condizionamento classico. Per es., dopo ripetute associazioni fra una bevanda dal gusto particolarmente forte e un farmaco immunosoppressore che inibisce le risposte immunitarie, la bevanda è da sola in grado di produrre gli stessi effetti immunosoppressori del farmaco. Analogamente, la ripetuta somministrazione in un determinato contesto di un farmaco che aumenta l’ormone della crescita induce risposte p. condizionate, nelle quali il solo atto della somministrazione (in assenza di farmaco) produce un aumento dell’ormone.
Ansia, depressione e tossicodipendenza. Vi sono altre condizioni patologiche che sono state oggetto di studi recenti, tuttavia i meccanismi sono molto meno conosciuti. Per es., un trattamento p. nella depressione e nell’ansia influenza l’attività di diverse regioni cerebrali, come la corteccia cingolata e la corteccia orbitofrontale, tuttavia non è del tutto chiaro quali meccanismi siano implicati. Analogamente, la tossicodipendenza è stata studiata con tecniche di bioimaging. Anche se ancora esistono pochi studi in questo ambito, vale la pena ricordare che l’aspettativa gioca un ruolo importante nell’assunzione delle droghe. Per es., se un tossicodipendente assume una sostanza che gli è stata descritta come un’anfetamina, gli effetti sul suo comportamento e le risposte cerebrali sono maggiori rispetto a quando sa di assumere un placebo. In altre parole, mentre nel primo caso il tossicodipendente si aspetta un effetto, nel secondo caso non si aspetta nulla, quindi l’effetto farmacologico di una droga è rafforzato dall’aspettativa.
Varianti genetiche e sensibilità all’effetto placebo. Alcune varianti genetiche sono correlate con la risposta p., sebbene le ricerche in questa direzione siano ancora scarse a causa della complessità dell’approccio metodologico e del disegno sperimentale da effettuare. Nell’ansia sociale, i portatori dell’allele l (long) di un gene del trasportatore della serotonina (5-HTTLPR) e i portatori dell’allele G della triptofano-idrossilasi-2 (TPH2) rispondono bene a un p., il quale induce anche una riduzione dell’attività nell’amigdala, una regione cerebrale responsabile dell’ansia sociale. Al contrario, i portatori dell’allele s (short) del 5-HTTLPR e dell’allele T della TPH2 non mostrano queste risposte. Appare quindi evidente che alcune varianti genetiche di determinati neurotrasmettitori cerebrali, come la serotonina, influenzano le risposte p. attraverso la differente modulazione di regioni cerebrali specifiche.
L’approccio sperimentale fin qui esaminato (terapia ‘finta’) può avvenire in senso diametralmente opposto, ossia fingendo una ‘non-terapia’. Per far ciò, una terapia, per es. farmacologica, è somministrata all’insaputa del paziente, cioè in maniera inaspettata. Se si paragona l’effetto del farmaco somministrato di nascosto con l’effetto ottenuto mediante la somministrazione in piena vista del paziente, l’efficacia del farmaco somministrato di nascosto è minore. Ciò è stato dettagliatamente descritto per diversi antidolorifici di uso comune, come morfina, buprenorfina, tramadolo, ketorolac, metamizolo. La differenza fra la somministrazione di nascosto, in cui il paziente non ha alcuna aspettativa di beneficio terapeutico, e quella a vista, in cui il paziente si aspetta un effetto terapeutico, rappresenta la componente p. (psicologica) della terapia, anche se nessun p. è stato somministrato. Ovviamente, maggiore è la differenza, maggiore è la componente p., e minore è l’effetto reale del farmaco. Per es., un farmaco può essere efficace quando somministrato in piena vista del paziente, ma del tutto inefficace quando somministrato di nascosto. Ne consegue, in questo caso, che il farmaco di per sé è del tutto inefficace; al contrario, se non vi è alcuna differenza fra somministrazione in piena vista e quella di nascosto, il farmaco risulta essere efficace. La somministrazione di nascosto di una terapia per prima cosa evidenzia come la componente p. sia presente anche in assenza di somministrazione di un placebo. In secondo luogo appare chiaro che la componente p. non è nient’altro che la componente psicosociale intorno al paziente. In terzo luogo l’effetto di un farmaco somministrato di nascosto rappresenta il reale effetto farmacodinamico della sostanza iniettata, al netto della ‘contaminazione’ della componente psicologica.
Un’importante implicazione clinica dei meccanismi dell’effetto p. riguarda la possibilità di sfruttare l’aspettativa e il condizionamento a vantaggio del paziente. Una delle applicazioni più promettenti è rappresentata dall’uso alternato di un p. e di un farmaco al fine di ridurre l’assunzione del farmaco stesso. Questo approccio è particolarmente utile per ridurre l’assunzione di farmaci il cui sovradosaggio può essere dannoso, come i narcotici. Una seconda implicazione clinica riguarda i pazienti con deficit cognitivo, come avviene, per es., nella malattia di Alzheimer. È stato dimostrato che in questi pazienti i meccanismi di aspettativa presenti nei lobi frontali sono ridotti o del tutto assenti. Infatti la misurazione della componente p. in pazienti Alzheimer ha mostrato che l’effetto p. può essere del tutto assente, con la conseguente riduzione dell’efficacia di un trattamento analgesico. Nei pazienti dementi, dunque, bisogna considerare la possibilità di rivedere le terapie analgesiche al fine di compensare la perdita dell’effetto psicologico di una terapia. Lo studio dell’effetto p. è anche fondamentale per meglio comprendere quei meccanismi che stanno alla base della relazione medico-paziente. L’approccio medico moderno si basa su una medicina centrata sul paziente in cui, accanto ai fattori biochimici e molecolari della malattia, vengono considerate le importanti influenze psicologiche sia sulla fisiopatologia delle malattie sia sul loro trattamento.
La somministrazione di un p. può indurre anche un aumento della performance fisica, con conseguenze interessanti sullo sport. Per es., è possibile effettuare un condizionamento farmacologico con morfina nella fase di allenamento di una competizione, e poi sostituire alla morfina un p. il giorno della competizione (con l’atleta convinto di assumere ancora morfina); con tale procedura un p. mima gli effetti della morfina somministrata nei giorni precedenti, e aumenta la tolleranza al dolore. È evidente che in tal caso il problema etico è cruciale poiché un p. non è rilevabile a un test antidoping. Tale problema non è stato ancora risolto, poiché queste procedure di condizionamento farmacologico nello sport sono molto recenti. Oltre che in queste procedure, l’effetto p. nello sport sembra avere un’importanza fondamentale, perché la componente psicologica gioca un ruolo essenziale nella performance fisica. Molte sostanze credute ergogeniche inducono in realtà unicamente un effetto p., in cui il solo credere nell’incremento della performance mentale e fisica ha effetti reali sul cervello e sullo stesso sistema motorio.
Sebbene il concetto di p. rimanga strettamente legato all’ambito della medicina, i concetti di base possono essere estesi alla vita di tutti i giorni, durante la quale si è sottoposti a continui ‘inganni’ e condizionamenti che possono modulare non un sintomo, bensì le nostre percezioni e i nostri comportamenti. In altre parole, spesso i nostri giudizi sul mondo che ci circonda rappresentano unicamente il frutto di suggestioni, convinzioni, credenze e aspettative. Ciò è vero nell’arte, nella moda, nella comunicazione di massa, nella politica, nella giustizia, nella religione. Un esempio nell’ambito della moda aiuta a comprendere meglio il concetto. Se analizzassimo la moda con metodo scientifico, scopriremmo che molto spesso un abito piace solo in base all’etichetta. Se è di un noto stilista piace, se è di un banco di mercato non piace. In questo caso è l’etichetta a svolgere un ‘effetto’ p.: se quella di un noto stilista è posta su un abito da bancarella, l’apprezzamento spesso sale. Fabrizio Benedetti
L’effetto nocebo
Se un soggetto si aspetta un incremento di un sintomo, e solo per tale aspettativa si ha un reale incremento del sintomo, si è in presenza del cosiddetto effetto nocebo; esso si evidenzia in numerose condizioni, come il dolore e la performance motoria. I meccanismi alla base di tale fenomeno sono praticamente gli stessi dell’effetto placebo, anche se si realizzano in direzione opposta; per es., possono essere coinvolti meccanismi di aspettativa o di condizionamento. Poco si sa sulle basi neurobiologiche dell’effetto nocebo, per il fatto che la sua sperimentazione è ovviamente limitata da problemi etici: al fine di studiare l’effetto nocebo è infatti necessario indurre aspettative negative, per es. effettuare una procedura che il soggetto crede sia in grado di produrre un aumento del dolore. Una procedura nocebo induce quindi stress nei soggetti che vi si sottopongono ed è eticamente possibile indurre una risposta nocebo solo in condizioni particolari, per es. in soggetti volontari sani e non in pazienti.
L’effetto nocebo riveste un’importanza particolare nella vita sociale: esso è infatti presente nella routine quotidiana, senza tuttavia che ce ne rendiamo conto. Un esempio è rappresentato dai messaggi inviati dai mezzi di comunicazione di massa (televisore, radio e giornali), riguardo i pericoli e i danni per la salute. Spesso questi messaggi sono falsi o esagerati, eppure inducono aspettative negative in coloro che li ricevono. All’inizio del nuovo millennio, alcuni studi hanno dimostrato che disturbi come la cefalea, spesso imputati alle radiofrequenze dei telefoni cellulari, non sono altro che effetti psicologici, cioè effetti nocebo: il solo credere che un telefono cellulare possa produrre danni alla salute spesso può provocare l’insorgenza di sintomi di diversa natura. Analogamente, gli effetti collaterali dei farmaci spesso sono solo effetti nocebo: leggere che un farmaco può indurre nausea può provocare realmente nausea in alcuni soggetti. Una diagnosi negativa può sortire lo stesso effetto, e il paziente può presentare una sintomatologia più severa solo aspettandosi un peggioramento della sua situazione. L’effetto nocebo è stato studiato dal punto di vista antropologico in quelle società in cui vengono effettuate pratiche magico-religiose. Un esempio eclatante è la magia voodoo, in cui un estremo stress psicologico può portare a situazioni di una certa gravità, come l’arresto cardiaco. Alcune procedure, come il puntare un oggetto contro una persona facendole supporre un suo effetto negativo, possono provocare situazioni di stress estremo.
Aspettative negative specifiche possono produrre sintomi specifici. Per es., è stato osservato che gli effetti collaterali, comparsi in seguito alla somministrazione di una sostanza inerte, dipendono dal tipo di informazioni date al paziente. Infatti, pazienti sottoposti a placebo e che credono di assumere un farmaco antiemicranico in grado di dare perdita di appetito e calo ponderale, mostrano effettivamente una perdita di appetito. Ugualmente, se informati della possibile comparsa di formicolio alla punta delle dita, molti sentiranno realmente le dita formicolare. Questa specificità delle risposte nocebo riveste un’importanza particolare nei trials clinici, in quanto molto spesso gli effetti collaterali che compaiono sono esclusivamente psicologici e non dovuti al principio farmacologico somministrato.
Quello che conosciamo oggi sui meccanismi dell’effetto nocebo si basa essenzialmente su studi farmacologici e di bioimaging. Un meccanismo importante è sicuramente l’ansia (➔) anticipatoria, quella forma di ansia che precede l’arrivo di una situazione di stress. Una tipica situazione di questo tipo è l’aspettarsi la comparsa di un dolore intenso. In alcune situazioni, è possibile prevenire una risposta nocebo mediante l’uso di ansiolitici, come le benzodiazepine, il che dimostra il coinvolgimento dell’ansia anticipatoria. Negli ultimi dieci anni si è osservato che l’ansia anticipatoria induce l’attivazione nel cervello di una sostanza, la colecistochinina (CCK), la quale produce a sua volta un effetto amplificante sul dolore. Questo effetto va sotto il nome di iperalgesia (➔) da nocebo. Il risultato è la comparsa di dolore, anche se non è presente alcuno stimolo dolorifico. Durante la fase di ansia anticipatoria vengono attivate diverse regioni cerebrali, e ciò ha permesso di comprendere meglio i meccanismi dell’ansia. Inoltre, durante l’iperalgesia da nocebo, le aree cerebrali di percezione del dolore si attivano con maggiore intensità. Perciò l’effetto nocebo rappresenta un ottimo modello per comprendere sia i meccanismi dell’ansia sia la sua influenza sulla percezione di diversi sintomi, per es. il dolore. Il coinvolgimento di un altro neurotrasmettitore nell’iperalgesia da nocebo, la dopammina, è stato individuato nel nucleo accumbens. È stato infatti dimostrato che, mentre si ha un’attivazione della dopammina nel nucleo accumbens durante l’analgesia da placebo, si ha invece una deattivazione della dopammina durante l’iperalgesia da nocebo. La partecipazione di più neurotrasmettitori, ossia la CCK e la dopammina, nell’effetto nocebo dimostra l’alta complessità del fenomeno.
Mentre le conoscenze sui meccanismi del nocebo derivano principalmente dallo studio del dolore, è bene sottolineare che tale fenomeno è presente anche in altre condizioni. Per es., nella malattia di Parkinson è possibile osservare un peggioramento clinico della performance motoria se il paziente si aspetta difficoltà e rallentamento dei movimenti. Tuttavia, come già descritto, lo studio dei meccanismi è limitato da problemi etici, in quanto sarebbe necessario indurre intenzionalmente un peggioramento dei sintomi in un paziente parkinsoniano.