PIO V papa, santo
Antonio Ghislieri nacque a Bosco Marengo, il 17 gennaio 1504 da Paolo e Domenica Augeria. Suo padre era povero; il giovinetto poté darsi agli studî mercé l'aiuto d'un certo Bastone. A quattordici anni entrò nel convento domenicano di Voghera, dove prese il nome di fra Michele; a Bologna completò la sua cultura e a Genova, nel 1528, fu ordinato sacerdote. Dopo essere stato lettore di teologia e filosofia nel convento domenicano di Pavia, commissario dell'Inquisizione romana, il 4 settembre 1556 fu nominato vescovo di Sutri e di Nepi, il 15 marzo 1557 ebbe la porpora, il 14 dicembre 1558 fu nominato grande inquisitore della Chiesa romana. Non ebbe rapporti cordiali con Pio IV, perché ne riprovava l'indirizzo mondano, e si vide perciò limitati i suoi poteri d'inquisitore. La sua elezione al papato (7 gennaio 1566) colpì tutti, perché nessuno si sarebbe aspettato che il card. C. Borromeo, nipote di Pio IV, facesse convergere i voti del proprio partito sul Ghislieri.
Il nuovo eletto dimostrò subito di voler governare con la più rigida severità. Bandì il nepotismo: ai parenti diede appena i mezzi necessarî per vivere decorosamente ed elevò alla porpora il pronipote Michele Bonelli perché i cardinali gli consigliarono di prendersi una persona di fiducia per il disbrigo degli affari. Non aveva molta attitudine ad amministrare lo stato, ma i suoi provvedimenti íurono ispirati a migliorare le condizioni generali dei sudditi: alleggerì la pressione tributaria, abolendo dazî esosi, curò molto gli ospedali, favorì l'agricoltura e fece bonifiche. L'eccessivo rigore nell'attuazione dei decreti del concilio lo portò ad esagerazioni nella riforma della giustizia, tanto che molti rei, per timore di terribili castighi, si diedero alla macchia. Altrettanto severo fu nella riforma dei costumi, ma i provvedimenti che emanò portarono al risanamento morale della famiglia.
Tutte le sue energie dedicò all'attuazione di tre ideali: la riforma della Chiesa, l'applicazione dei decreti del concilio in tutti gli stati, la crociata.
Per la riforma chiamò presso di sé il braccio destro del card. Borromeo, Niccolò Ormaneto. P. iniziò la riforma della sua corte, esigendo la vita più severa da coloro che erano al suo servizio; il suo rigore suscitò certo malcontento fra i cardinali, ma egli volle che il Collegio fosse costituito di membri fra cui nel futuro conclave si potesse eleggere un papa degno. Perciò fece passare due anni prima di nominare cardinali; tanto nella prima nomina (24 marzo 1568) quanto nella seconda (maggio '70) la scelta cadde su elementi noti per zelo riformatore. Alla riforma del clero romano attese con energia, istituendo una commissione e prescrivendo con l'editto del 30 ottobre 1566 le norme per una vita veramente sacerdotale. Per la vigilanza sul clero nominò i visitatori, che furono rigorosissimi: molti preti indegni furono allontanati e i vescovi costretti all'osservanza dell'obbligo della residenza. Fu provveduto all'uniformità dell'insegnamento religioso con la revisione del catechismo, del breviario e del messale. Per un'edizione corretta della Volgata nominò una commissione di cardinali e chiamò, inoltre, a collaborare dotti di tutti i paesi. Con l'elevazione di Tommaso d'Aquino a dottore della Chiesa (bolla 11 aprile 1567) fece un'affermazione solenne dell'importanza della teologia medievale; creò la congregazione dell'Indice dei libri proibiti, mentre i sinodi, di cui prescrisse la convocazione regolare, dovevano servire a diffondere le deliberazioni del concilio. Per avere degni sacerdoti diede grande impulso alla fondazione di seminarî, e perché i vescovi fossero degni pastori stabilì che ogni vescovo d'Italia fosse esaminato da una commissione in Roma. S'imponeva la riforma negli ordini religiosi e P. vi attese con energia. Mandò visitatori nei conventi cisterciensi d'Italia e obbligò i commendatarî a restaurarli e a provvedere del necessario gli abati. Conventi e ordini refrattarî alle esortazioni di seguire una condotta irreprensibile furono soppressi (la congregazione di Fonte Avellana); fuse in Spagna e altrove Osservanti e Conventuali francescani. Stabilì che i voti religiosi non si potessero pronunciare prima del diciannovesimo anno d'età e che in qualsiasi ordine l'ordinazione sacerdotale fosse preceduta dai voti solenni. Contro quest'ultima disposizione si agitarono i gesuiti, ma il decreto fu mantenuto. La sua poderosa attività nel campo degli ordini religiosi P. chiuse con la concessione della conferma della congregazione dei Fatebenefratelli (bolla 1° gennaio 1572).
Nell'estirpazione dell'eresia l'ex grande inquisitore superò per rigore Paolo IV: gli autodafé sotto il pontificato di P. superarono in Roma quelli avvenuti sotto i predecessori e furono tenuti con insolita solennità. Intensa vigilanza P. esercitò negli altri stati d'Italia, specialmente a Milano, a Venezia, a Genova: il processo di Aonio Paleario fu trasferito da Milano a Roma; Venezia fu costretta a consegnare all'inquisizione romana Guido da Fano, e Genova Bartolomeo Bartoccio. Tale intransigenza suscitò opposizione violenta in alcuni stati, come a Mantova, in Piemonte, a Ferrara. Il contrasto più grave fu quello con Filippo II e con l'Inquisizione di Spagna per il trasferimento del processo Carranza a Roma, trasferimento che rese così tesi i rapporti fra il re cattolico e il papa da far temere una rottura.
Dominato dalla dottrina medievale della superiorità della Chiesa sullo Stato, Pio V si trovò d'altronde quasi di continuo in opposizione con i sovrani, particolarmente con Filippo II, che non intendeva rinunciare all'ingerenza, o, meglio, vigilanza, negli affari ecclesiastici. Il contrasto si manifestò in forma clamorosa a Milano tra il card. Borromeo e il Senato (v. carlo borromeo, san). Un passo gravissimo compì Pio V, quando nella bolla In Coena Domini inserì la clausola con cui la bolla stessa acquistava carattere di legge permanente e fece aggiunte (come quelle relative alla scomunica contro tutti quelli che appellassero dal papa al concilio, al divieto di espulsione di ecclesiastici, al divieto fatto ai sovrani di stabilire nuovi dazî e imposte, ai diritti della Santa Sede a proposito della monarchia sicula) che approfondirono il dissidio. Il governo spagnolo si oppose alla pubblicazione della bolla e i vescovi lo imitarono; a Napoli il viceré estese il regio exequatur anche alle indulgenze, e Filippo II, alla minaccia d'un interdetto sul regno, rispose con la minaccia d'un appello al concilio generale. Pio V dovette mandare un legato a Madrid, il card. Bonelli, e così la soluzione del dissidio fu rinviata. Vivaci contrasti ebbe Pio V anche con Massimiliano II. L'imperatore, avendo bisogno dell'aiuto degli eretici nella lotta contro il Turco, non poteva seguire una politica intransigente verso gli eretici. Con la legazione di G.F. Commendone, nella dieta del 1566 il papa riportò un successo, ottenendo dagli stati cattolici l'accettazione dei decreti del concilio e l'esclusione dalla dieta di qualsiasi conferenza religiosa. Ma fu abilmente giocato da Massimiliano II con la concessione fatta dall'imperatore ai nobili della Bassa Austria di esercitare la loro religione nella forma della confessione augustana; a ciò si aggiunse che il 7 dicembre 1568 l'imperatore promise di estendere questa concessione anche all'Austria Superiore. Dopo questo scacco, Pio V conferì il titolo di granduca a Cosimo I de' Medici. In ciò Massimiliano II vide una offesa ai diritti feudali dell'impero sulla Toscana; quando seppe che, nonostante le proteste di Vienna, Pio V aveva incoronato con le sue mani Cosimo I, minacciò una discesa a Roma, alla testa di luterani. Allora Pio V si piegò: scrisse a Massimiliano II che non aveva avuto l'intenzione di offendere i diritti dell'impero e s'impegnava ad appianare la questione in modo conveniente per l'imperatore. I cattolici dell'Austria ebbero però a sentire le conseguenze dell'incoronazione di Cosimo I.
Del resto, nei rivolgimenti che avvennero in Europa, Pio V giudicava la situazione dei sovrani cattolici unicamente dal punto di vista degl'interessi della religione. Così, nella rivolta dei Paesi Bassi non ammetteva che il re avesse il diritto di spegnere la rivoluzione mediante una politica di tolleranza: per Pio V non v'era che o la conversione o la distruzione dei ribelli. Il re stesso avrebbe dovuto, alla testa d'un esercito, ridurre i rivoltosi all'obbedienza verso la Chiesa e verso il sovrano.
Pio V s'illuse che il duca d'Alba combattesse in prima linea contro i nemici della Chiesa e in seconda linea contro i ribelli del suo re, e si stupì quando vide che l'Alba non si allontanava d'un punto dalla politica ecclesiastica di Filippo II.
Anche in Francia Pio V avrebbe voluto una politica d'intransigenza verso gli ugonotti e d'intesa con la Spagna, specialmente contro i ribelli olandesi. Perciò deplorò che il governo francese, d'intesa con gli ugonotti, desiderasse il trionfo degli Olandesi e ancor più deplorò la politica di riconciliazione con gli ugonotti seguita da Carlo IX e da Caterina de' Medici dal 1570 al 1572.
Pio V seguì attentamente la situazione nella Scozia, aiutò Maria Stuart. Ma quando, col matrimonio della regina col Bothwell, i protestanti ottennero il libero esercizio della loro religione, Pio V ruppe i rapporti con Maria. Le prove di costanza nella fede cattolica date dalla regina durante la sua oppressione in Inghilterra le guadagnarono di nuovo il favore di Pio V, che pensò di elevare Maria sul trono inglese. Il duca d'Alba avrebbe dovuto sbarcare sulle coste inglesi, appogaare il Norfolk che avrebbe potuto sposare Maria e ricevere l'Inghilterra in feudo dal papa. Agli autori della rivolta del 1569 diede ogni incoraggiamento e, per sciogliere ogni scrupolo nei ribelli verso Elisabetta, il 25 febbraio 1570, emanò la bolla di scomunica contro la "pretesa" regina d'Inghilterra. Ma l'effetto politico della bolla fu disastroso. Filippo II, non vedendo il proprio nome nel documento, credette che l'omissione fosse avvenuta per riguardo alla Francia e protestò; Elisabetta infierì con nuove leggi contro i cattolici.
La lotta contro l'eresia avrebbe dovuto preparare il mondo cattolico contro la crociata. L'appello lanciato nel febbraio 1566 a Filippo II perché desse un contributo per la ricostruzione delle fortificazioni di Malta, i frequenti soccorsi dati ai giovanniti, le esortazioni rivolte ai principi perché aiutassero l'ordine così benemerito della cristianità, dimostrano la costante preoccupazione di Pio V per il pericolo turco. Rimasto senza successo il tentativo di formare una lega antiturca dopo la caduta di Szigetvár, due anni dopo il papa riprese il generoso disegno, quando Venezia respinse l'ultimatum turco per la cessione di Cipro; e dopo lunghe e difficili trattative riuscì a far concludere, nel 1571, la Lega sacra, o Lega di Lepanto (v. lepanto).
Dopo la vittoria di Lepanto, concepì più vasto disegno: anche lo scià di Persia, il re d'Etiopia, il signore dell'Arabia Felice dovevano entrare nella grande lega, la cui meta finale, nella mente del papa, doveva essere la cacciata del Turco dall'Europa e la liberazione del Santo Sepolcro. Con bolla del 10 marzo 1572 concesse le indulgenze che i papi avevano elargite nel Medioevo per le crociate. La morte avvenuta il 1° maggio 1572 gli risparmiò il dolore di vedere la dissoluzione della lega.
Di P. Carlo Borromeo aveva detto che da lungo tempo la Chiesa non aveva avuto un capo migliore e più santo. Certo, con la sua grandiosa attività di riformatore, lasciò profonde tracce in alcuni campi e in altri aprì la strada ai suoi successori; ma il difetto della preparazione politica non gli fece scorgere la inattualità di taluni disegni che erano frutto della sua mentalità medievale. Sisto V, che ne fece trasportare il corpo dalla cappella di Sant'Andrea in S. Pietro a quella del Presepio in Santa Maria Maggiore, aprì il processo di canonizzazione di P.; Clemente X ne proclamò la beatificazione; il 22 maggio 1712 Clemente XI annoverò P. fra i santi.
Bibl.: L. Pastor, Storia dei papi, trad. it., VIII, Roma 1924, con ampia bibliografia.