RENZI, Pietro
– Nacque il 1 dicembre 1807 a Pesaro da Antonio e Anna Lombardi.
Domiciliato fin da ragazzo a Rimini, assai frammentarie risultano le informazioni sulla famiglia d'origine e suoi suoi anni giovanili.
Stando ad alcune testimonianze coeve non doveva aver ricevuto una formazione particolarmente elevata. Censito come negoziante e piccolo possidente, nel corso dei primi anni Trenta fu incarcerato per debiti e negli anni successivi condannato al pignoramento di taluni immobili legati alle sue attività economiche. Appena scontata quella prima prigionia, agli inizi del 1834 fu colpito da un altro arresto della durata di circa sei mesi perché implicato in un vasto processo indiziario contro alcuni cospiratori sospettati del ferimento di Marco Fabbri, vicecomandante della compagnia dei volontari pontifici riminesi costituitasi pochi mesi prima con compiti dichiaratamente repressivi sul piano politico.
Renzi, che già aveva salutato con favore i moti romagnoli del 1831, era del resto fra i principali animatori di una rete cospirativa cittadina attiva in quegli anni. Queste trame si inserivano in quel complesso di attentati e tentativi insurrezionali che agitavano la Romagna, consolidandone definitivamente nei primi anni Quaranta l'immagine di regione ribelle al potere pontificio, che dall'estate del 1843 rispose con una vasta operazione repressiva affidata a un'apposita commissione militare.
In tale contesto, nell'aprile 1844 anche Renzi fu colpito da un nuovo mandato di arresto; con altri patrioti riminesi si rifugiò a San Marino per poi trasferirsi a Lucca e, con falso passaporto, nel Granducato di Toscana, dove già si trovavano diversi cospiratori di Romagna. Oltre a coltivare i rapporti con questi ultimi, nella seconda metà dell'anno si recò, come attesta il Protocollo della Giovine Italia, in Francia, dove appoggiandosi sulla rete cospirativa mazziniana tentò di ottenere contatti e risorse per un moto nell'Italia centrale. Rientrato nel 1845 in Toscana, grazie a clandestini ritorni a Rimini e in Romagna diramò circolari che invitavano all'insurrezione diverse città dello Stato e partecipò a incontri segreti per discutere di un nuovo moto. In relazione all'organizzazione di quest'ultimo, i sostenitori di un semplice movimento di protesta per richiedere incisive riforme al pontefice sul modello del Manifesto delle popolazioni dello Stato Romano ai principi e ai popoli d'Europa steso da Luigi Carlo Farini, anch'egli allora esule, si confrontavano con i fautori di una rivoluzione armata con propositi più radicali. Renzi ebbe una parte assai attiva in queste trame che dovevano culminare in una rivolta inizialmente programmata ad Ancona per estendersi poi a tutto il territorio pontificio; a questo scopo fu nuovamente inviato con il concittadino Antonio Celli in Spagna e in Francia col proposito di procurarsi fucili, poi effettivamente introdotti nello Stato pontificio, e per prendere contatti con ufficiali esperti, fra cui soprattutto il colonnello Ignazio Ribotti. Alla fine di luglio rappresentò Rimini e i fuoriusciti in un definitivo congresso a Senigallia fra i capi della cospirazione delle Romagne e di Ancona. Qui Renzi si scontrò con il rappresentante per le Marche, Carlo Faiani, contrario a un'azione immediata e al ricorso alle armi, provocando una scissione fra i rivoltosi. Malgrado la defezione dei marchigiani, i riminesi e altri romagnoli decisero di andare avanti, individuando in Rimini la città che per ragioni geografiche e militari (fra cui l'assenza di guardie svizzere) presentava le condizioni migliori per l'avvio del moto, di cui Renzi era divenuto ormai il riferimento principale. Giunto di nascosto a Rimini in settembre per avviare l'insurrezione in accordo con altre località della Romagna, le incertezze iniziali sui tempi d'avvio della sommossa e i suoi contrasti con Ribotti, diretti forse a conservare per sé il comando della rivolta, sfociarono in un precipitoso e mal coordinato passaggio all'azione. Il pomeriggio del 23 la sollevazione partì da palazzo Lettimi, dove Renzi si era nascosto, in accordo con il proprietario conte Andrea e una trentina di cospiratori armati. Messe fuori combattimento alcune guardie e sequestrate altre armi, con un altro centinaio di insorti occupò le porte cittadine liberando i detenuti politici. Nominato a capo di un governo provvisorio, avanzò richieste temperate di riforma mutuate dal Manifesto di Farini fatto da lui stampare a Rimini in migliaia di copie e divenuto la bandiera del moto. La piattaforma moderata e a carattere locale della rivolta, dovuta alla partecipazione a essa di una variegata schiera di elementi, spiacque a Mazzini che la condannò duramente, salvando tuttavia fra i cospiratori proprio il loro uomo guida, da lui ritenuto un eccellente giovane «buonissimo di core e convertito a noi oggimai» (Ed. naz. degli scritti di Giuseppe Mazzini, XXVIII, p. 237, lettera a Giovanni Battista Cuneo, 23 dicembre 1845). Ma il 26 settembre le truppe del papa erano già alle porte della città e Renzi fuggì con i suoi uomini verso San Marino, mentre il resto della regione, con l'eccezione di alcune piccole bande di cospiratori, non si mosse. Braccato dalle autorità pontificie trovò nuovamente riparo in Toscana, dove il granduca rifiutò al governo di Roma l'estradizione a patto che i reduci romagnoli prendessero la via dell'esilio. Imbarcatosi per Marsiglia il 30 ottobre, a fine novembre, probabilmente per le dure condizioni imposte agli emigrati politici dal governo francese, decise di tornare a Firenze sotto falso nome, ospite della contessa Marietta Gironi Ruffo di origini riminesi e dimorante da tempo in città; rapidamente scoperto fu arrestato dal nuovo governo di Giovanni Baldasseroni, che da poche settimane aveva sostituito lo scomparso e più moderato Neri Corsini.
L'incarcerazione ne fece per settimane il principale simbolo della causa dell'indipendenza italiana e della volontà di resistere alle pressioni austriache e gesuitiche. Fogli volanti e dimostrazioni a suo sostegno si diffusero nelle principali città toscane, mentre Vincenzo Salvagnoli, animatore di una campagna di opinione a suo favore, giunse a inviare al granduca una supplica a nome della moglie, appositamente accorsa dalla Romagna con i figli a Firenze per essere ricevuta da Leopoldo II che, per quanto commosso dall'incontro, sottoscrisse ugualmente l'ordine di estradizione. Fra lo sdegno dei patrioti, fu consegnato nella notte del 24 gennaio allo Stato della Chiesa, che lo rinchiuse prima a Urbino e poi a Castel Sant'Angelo.
Oggetto di una campagna che suscitò grande commozione in tutta la penisola non fu tanto la persona di Renzi, che, complici anche i controversi comportamenti tenuti nel corso del moto, già destava in numerosi commentatori più di una perplessità, quanto la sua vicenda, investita di una forte valenza simbolica.
Ciò affiorava in quei mesi da non pochi carteggi privati, come ad esempio quello di Massimo d'Azeglio, che pure aveva fatto del caso Renzi e del moto riminese uno degli episodi chiave del suo best-seller Degli ultimi casi di Romagna (Lugano 1846) mirante a denunciare, attraverso lo stato di sofferenza della regione, il grave malessere serpeggiante nello Stato pontificio e nell'intera penisola; scrivendo così il 24 febbraio 1846 a Domenico Promis, il nobile piemontese affermava che «la popolarità del Gran Duca se n'è andata in fumo per la consegna di Renzi, che, a dirla fra noi, non è uomo stimato, neppur in Romagna, e l'ha provato il fatto di non aver trovato seguaci» (M. d'Azeglio, Epistolario, III, p. 25).
Tali ombre furono suffragate da una condotta in carcere non del tutto irreprensibile verso il movimento patriottico. Voci che alcune sue rivelazioni sui moti del 1845 e su altre congiure in preparazione negli ambienti della cospirazione avessero messo in difficoltà alcuni suoi compagni gli attirarono crescenti accuse di tradimento. Liberato con l'editto per i detenuti politici emanato da Pio IX nel luglio 1846, il più famoso fra i perdonati partecipò al clima di euforia che andava edificando il mito del papa neoguelfo, che lo ricevette in un'udienza in cui lodò le cose buone del manifesto riminese del 1845, pur non nascondendogli le difficoltà di secolarizzare il suo governo. Tornato in agosto a Rimini fu accolto da trionfatore, per quanto il suo mancato invito ai banchetti dati dai liberali romani in onore dei prigionieri politici prosciolti testimoniasse una diffidenza serpeggiante che alla fine dell'anno lo costrinse a tornare a Roma per tentare di contrastare le voci sempre più insistenti e diffamatorie sui risvolti della sua prigionia. Costretto a confrontarsi con una manifesta freddezza che tramutò rapidamente la popolarità dell'anno precedente nel disprezzo dei vecchi compagni, cercò invano di rivendicare la sua innocenza a fronte di presunte delazioni ottenute in cambio di una promessa impunità precedente l'editto di perdono. Malgrado si trattasse con ogni probabilità di rivelazioni modeste e di scarsa utilità per gli inquirenti romani, l'opinione pubblica risorgimentale aveva dato il suo giudizio. Ciò lo costrinse a vivere a Roma nascosto e in solitudine fino alla fine di suoi giorni.
Pare che negli anni seguenti rimanesse implicato anche in un processo per falsificazione di biglietti di banca che certo non ne favorì la riabilitazione e ne causò l'ulteriore oblio.
Morì a Roma, abbandonato da tutti, il 22 settembre 1882.
Fonti e Bibl.: Ed. naz. degli scritti di Giuseppe Mazzini, Indici, II, 2, p. 608; ibid., Protocollo della Giovine Italia, III, ibid., IV, ad ind.; M. d'Azeglio, Epistolario, III, (1846-1847), a cura di G. Virlogeux, Torino 1992, ad ind. Inoltre: G. D. Leoni, P. R., in Dizionario del Risorgimento nazionale, a cura di M. Rosi, IV, Milano 1937, p. 45; Cospirazioni di Romagna e Bologna nelle memorie di Federico Comandini e di altri patriotti del tempo (1831-1857), per cura di A. Comandini, Bologna 1899, ad ind.; I. Grassi, La capitolazione delle bande di Rimini, il governo toscano e l'estradizione di P. R. (1846-1847), in La Romagna, V (1908), 6-7, pp. 347-374; M. Menghini, Rinaldo Andreini e i moti di Romagna nel 1845, in Rassegna storica del Risorgimento, III (1916), 3, pp. 445-516; O. Montenovesi, I casi di Romagna (23-30 settembre 1845), ibid., VIII (1921), 3, pp. 307-426; L. Tosi, Cospiratori e reazionari in Rimini dopo la rivoluzione del '31, in ibid., XXIII (1936), 12, pp. 1672-1694; P. Zama, Il “Manifesto” di L. C. Farini e i moti romagnoli del 1845, in Studi Romagnoli, II (1951), pp. 363-387; G. Maioli, Lo scontro alle Balze di Scavignano (23-28 settembre 1845), ibid., VIII (1957), pp. 111-146; F. Della Peruta, Mazzini e i rivoluzionari italiani. Il «Partito d'azione» (1830-1845), Milano 1974, pp. 426-432; P. Zama, La rivolta in Romagna fra il 1831 e il 1845. I giudizi dell'Azeglio, Mazzini, Farini, Capponi, Montanelli e altri, Faenza 1978.