LORENZETTI, Pietro
Non si conosce la data di nascita di questo pittore senese, documentato dal 1306 al 1345, fratello di Ambrogio, come attestava la scritta apposta sotto gli affreschi con Storie della Vergine sulla facciata dello spedale di S. Maria della Scala, letta nel 1649 da Ugurgieri Azzolini, poco prima, cioè, che venissero eliminati.
Le Storie della Vergine godettero di grande fortuna: furono vero paradigma per tutta la pittura senese fin oltre la metà del XV secolo (Gallavotti Cavallero); ebbero fama letteraria perché, fra i molti, tanto Ghiberti quanto Vasari ne scrissero come di un grande capolavoro. Risulta così singolare che Ghiberti nel secondo dei Commentari non menzioni neppure il L., elogiando molto solo Ambrogio, e che Vasari, intendendo le Storie come apice artistico nella sua Vita di Pietro Laurati, non sospettò nemmeno la parentela tra questo personaggio, che egli chiamò così per aver letto male la firma apposta dall'artista sotto la Madonna una volta in S. Francesco a Pistoia, e "l'Ambruogio Lorenzetti" cui pure dedicò alcune pagine. Dall'epigrafe citata inoltre si evinceva la maggiore età del L. rispetto al fratello. Sulla base di una nuova lettura dei pagamenti di Biccherna del Comune di Siena, si può forse ipotizzare che il Petruccio di Lorenzo che il 25 febbr. 1306 ricevette il pagamento di 1 lira e 10 soldi "pro aliqua pictura quam fecit in tabula Dominorum Novem" (Bacci, p. 75) sia il L. che, potendo ricevere un pagamento in proprio, doveva aver compiuto venticinque anni, cioè aver raggiunto la maggiore età, e quindi la sua data di nascita potrebbe collocarsi intorno al 1280.
Non sono rimasti molti documenti relativi all'attività o alla vita privata del L.; dopo quello appena citato si giunge al minuziosissimo contratto di allocazione per la pala (firmata) della pieve di S. Maria di Arezzo commissionata dal vescovo della città Guido Tarlati il 17 apr. 1320. Per ricostruire l'attività del L. precedente al 1320 non resta quindi che l'esame stilistico delle opere. L'assenza di documenti a Siena ha fatto supporre che il L. avesse soggiornato altrove per un periodo piuttosto lungo. In particolare lo ritiene presente ad Assisi, già intorno al 1310, quella parte della critica che avvia la sua carriera nel transetto sinistro della basilica inferiore (Volpe, 1951 e 1989; De Benedictis, 1996), precisamente nella cappella Orsini con il finto loggiato da cui si affacciano la Madonna col Bambino tra il Battista e s. Francesco.
Solo nel 1885 Cavalcaselle restituì definitivamente al L. l'intera decorazione del transetto che Vasari aveva smembrato attribuendo a Pietro Cavallini la Crocifissione, a Giotto Le stimmate di s. Francesco, a Puccio Capanna il ciclo della Passione; tuttavia il "trittico" Orsini si direbbe proprio il frutto di una prima fase del pittore, forse qualche anno dopo il 1310 (Seidel, 1981).
Che la formazione del L. sia avvenuta nell'orbita di Duccio sembra cosa assodata, anche se è stata avanzata l'ipotesi (Freuler) che il pittore si sia formato nella bottega dell'anonimo "Maestro di Città di Castello", un importante artista formatosi parallelamente a Duccio, ma più a lungo rispettoso della lezione cimabuesca e animato da una drammaticità meno stemperata. Ostacolo a questa proposta è l'altissima qualità e autonomia dell'arte del L. quale si mostra fin dalle prime opere e che sopravanza quella dell'ipotetico maestro. Inoltre la scelta del L. di interpretare moderni suggerimenti e importanti novità attraverso una pausata e monumentale arcaicità, che già Cecchi gli aveva riconosciuto, pare potersi legare più alla lezione del ciclo della Passione da poco riscoperto sotto il duomo di Siena che sembra non esprima, neanche nella comune riflessione cimabuesca, la medesima temperie del Maestro di Città di Castello. Però, pur riaccostando il giovane L. a Duccio, è difficile identificare sue prime prove nella bottega di quello o addirittura in precisi interventi nella Maestà (Stubblebine, pp. 39-45), opera troppo compatta nell'ideazione per permettere un simile reperimento. Per cercare il magistero duccesco conviene tornare ad Assisi, premettendo che ogni artista impegnato nella basilica formulò o adattò la propria arte sulla scorta della particolarità e unicità del linguaggio che lì si era nel tempo formato. Lo notò già Carli (1956, p. 7) a proposito del trittico Orsini parlando di un artista cresciuto all'ombra di Duccio e fulminato dal Giotto assisiate. La Madonna Orsini è il ricordo vivo della Madonna della Galleria nazionale di Perugia e di quella del trittico della National Gallery di Londra di Duccio (Bellosi, 2003, p. 390); ma l'attenta meditazione che il L. compì sull'arte di Giovanni Pisano prende corpo nella conoscenza della spazialità giottesca.
Subito dopo si colloca la Madonna della pieve dei Ss. Stefano e Degna a Castiglione d'Orcia.
L'attribuzione di Mason Perkins (1908) non è più stata discussa; ma la datazione non fu concorde fino al restauro del 1979 (Seidel, 1979, p. 49), che evidenziò la sua precocità in alcune caratteristiche tecniche, come le aureole incise, che il L. non avrebbe più eseguito dopo Arezzo, e il fondo in argento ingiallito a mecca, e soprattutto la marcata presenza duccesca: semplicità della composizione, largo volto della Madonna dal lungo naso affilato, trattamento pesante, "invernale", delle stoffe. Al contempo si individuano alcune caratteristiche destinate a diventare firma del L.: la leggera vacuità degli sguardi ducceschi diventa espressività severa, intensa, che avvia le figure a un colloquio, tra loro o con lo spettatore, carico di coinvolgimento; le mani elegantissime ma più agili, pronte ad afferrare oggetti e trattenere pesi.
Del 1315 circa è il polittico smembrato proveniente dalla pieve dei Ss. Leonardo e Cristoforo di Monticchiello, che comprendeva la Madonna col Bambino (Pienza, Museo diocesano), i Ss. Leonardo,Caterina d'Alessandria e Margherita (Firenze, Museo Horne) e la Santa del Musée Tessé di Le Mans.
Fu De Wald (1929, pp. 145-164) a proporre la ricostruzione di questo polittico, esemplato sulla tipologia a centina del polittico n. 28 di Duccio (Siena, Pinacoteca nazionale), rifiutata solo da Péter. Meiss (1955, pp. 119-122) e Volpe (1965, pp. 5 ss.) furono tra i primi a porlo con decisione prima del 1320; mentre, in occasione del primo restauro, esso era stato datato al 1324-25 (Carli, 1965, pp. 213 s.). Una datazione quest'ultima non molto convincente, ma che introduce un aspetto non secondario dell'arte del L. e che ha di frequente posto problemi alla critica e consigliato cautela: la ripresa da parte del pittore stesso di idee e modelli già sperimentati e riproposti spesso con varianti particolarmente significative, ma anche con elegante autocitazionismo. Nel polittico di Monticchiello la tenerezza tra madre e figlio viene indagata ancora più intensamente: alla testina tonda curiosamente gettata all'indietro del Bambino, rappresentato tutto di profilo, risponde l'accenno di sorriso della madre. Entrambi i corpi esistono sotto gli abiti e i panneggi non sono più solo graficamente composti. Le figure, rappresentate tutte con un leggero movimento di scorcio, tendono a espandersi tanto nello spazio che i nimbi, ancora incisi, finiscono "fuori campo" coperti dalla centina in aggetto, così come mostra la Santa del Musée Tessé, unica rimasta con parte della carpenteria originale. Prosegue la costante ricerca del L. sulla resa dei volumi e degli spazi che certo non può prescindere da Giotto e dai suoi allievi, ma che non divenne mai totale adesione a quei modelli, semmai ne fu, aiutato dalla profonda e continua meditazione su Giovanni Pisano, alternativa non conflittuale.
A Cortona, città sottoposta all'egemonia anche culturale di Siena fin dal 1258, Vasari (p. 474) dice che il L. fece "alcune opere".
A questo periodo fa riferimento un gruppo di opere, forse non tutte eseguite per committenze di quella città, poste però tutte dalla critica prima del polittico di Arezzo, che sembrano anche, cronologicamente e stilisticamente, intrecciarsi con le vicende di quell'opera.
La Croce sagomata ora al locale Museo diocesano, che dovette essere un oggetto processionale innovativo nella sua tipologia, ma che mostra, nella pesantezza della figura, nella testa quasi pencolante nel vuoto, una fase ancora così intensamente tesa alla decifrazione del portato giottesco tale da farne collocare l'esecuzione intorno al primo momento assisiate o prossimo a un primo precoce soggiorno fiorentino (Boskovits, 1986). Successivamente dovrebbe porsi la Crocifissione con s. Francesco e s. Chiara del Fogg Art Museum (Harvard University, Cambridge, MA), un'opera che solo nel 1955 fu assegnata al L., seppur col probabile intervento di un aiuto, e datata a prima del polittico aretino sulla scorta di un'analisi effettuata sulle incisioni del bordo decorativo (Meiss, 1955, pp. 113-127). In questa opera il L. compie un ulteriore passo nella sua ricerca espressiva giocata sugli sguardi: quelli affissi sulla tragedia della Croce, quello della Madonna che con disperazione cerca gli occhi dello spettatore. Il pausare ampio e geometrico tra una figura e l'altra indica una diretta referenza fiorentina. Sempre a questi anni è da riferirsi anche la parte centrale di un tabernacolo destinato alla devozione privata, ora in una collezione milanese, di cui è incerta la provenienza dal convento aretino delle Ss. Flora e Lucilla (Boskovits, 1986; Bartalini, p. 54). Nella figura delle due sante l'opera mostra da un lato un ulteriore approfondimento sulla pittura giottesca, dall'altro una delle caratteristiche più marcate della cultura figurativa senese e cioè la conoscenza di tipologie devozionali tipicamente francesi (Laclotte, 2003, p. 410). Ancora a Cortona (Museo diocesano) è conservata la grande Croce con Dio Padre, Maria e Giovanni nei capicroce, databile entro il 1319, quando Segna di Bonaventura, nella Croce di Arezzo, lo cita apertamente. Anche trattandosi di un gruppo di opere eseguite in uno stretto torno di anni, lo stile di questa Croce mostra, pur nella corposità di Maria e Giovanni, un attenuarsi dell'influenza fiorentina e una ripresa di modelli più vicini alla cultura senese (Maginnis, 1984, p. 196) e traspare, più ancora che nell'opera del Fogg Art Museum, un certo procedere accanto alla pittura di Ugolino di Nerio.
Nel documento di allocazione relativo al polittico per la pieve di Arezzo, come è abituale, sono indicate modalità di pagamento, penalità per inadempienza e obbligo di non lavorare ad altra opera (Guerrini, p. 12); inusuali, invece, sono le clausole in cui si impone la volontà del vescovo per l'iconografia generale, l'ordine delle singole figure e l'approvazione di ogni singola parte; questi avrebbe fatto preparare le tavole, mentre il pittore si impegnava a usare nei modi richiesti l'oro, l'argento, l'ultramarino, i colori più puri e preziosi, a rispettare le misure richieste e a dipingere "de pulcherrimis figuris" (Mariotti; Maetzke; Guerrini).
Sicuramente il polittico era un'opera imponente, memore della complessa architettura del polittico 47 di Duccio (Siena, Pinacoteca nazionale): oggi mancano le colonne laterali in cui avrebbero dovuto esserci sei figure per parte e la predella ricordata da Vasari (p. 473), ma non citata nel contratto. Tuttavia, anche ipotizzando che il L. abbia condotto il lavoro senza aiuti, che pure non possono escludersi, in particolare nell'esecuzione delle quattro sante dei pinnacoli (Maginnis, 1984, p. 185), quattro anni non sono pochi per il completamento dell'opera. Si può allora avanzare un'ipotesi che il L. avesse mantenuto l'esclusività, come la formula di rito nel contratto prevedeva, non tanto con l'opera, quanto con il committente; che quindi egli, forse con degli aiuti, attendesse ad altri incarichi sempre legati al vescovo Tarlati. Vasari (p. 472) ricorda e magnifica le Storie di Maria secondo lui dipinte dal L. nella tribuna, nonché L'Assunzione affrescata "nella nicchia grande della cappella dell'altar maggiore". Che affreschi in queste parti della chiesa vi fossero fu appurato durante un discutibile restauro ottocentesco che però ne cancellò ogni pur labile traccia, lasciandone la memoria solo nelle pagine vasariane che peraltro datavano l'intervento del L. all'anno 1355, corretto in 1345 da Milanesi (p. 478), date certo al di fuori della biografia del pittore. Si potrebbe, allora, tornare a Cortona, poiché la città fino al giugno 1325 fece parte della diocesi di Arezzo, da cui Giovanni XXII, in una personale lotta contro il vescovo ghibellino, la separò. I documenti relativi a Tarlati riportano che, proprio nel 1320, egli si era molto adoperato per la fondazione della chiesa di S. Margherita. Secondo Vasari vi aveva lavorato nel 1335 Ambrogio; ma da lì provengono resti di affresco - un'Ascesa al Calvario e una testa di santo eremita ora al Museo diocesano - che la critica (Bellosi, 1970; Boskovits, 1991; Cannon - Vauchez), con qualche eccezione (Monciatti, p. 57), ha attribuito al L.: lo stato dei frammenti e alcuni impacci compositivi e stilistici fanno sospettare l'intervento di aiuti, ma l'alta qualità pittorica dell'ideazione riferisce l'opera al L. e proprio in un periodo prossimo al polittico aretino. Tra le opere riunite intorno al soggiorno cortonese del pittore, la piccola Maestà proveniente dalla cattedrale di S. Maria (Museo diocesano) mostra una stretta contiguità cronologica e stilistica con la pala aretina. Le due opere sono firmate allo stesso modo ("Petrus Laurenti hanc pinxit dextra Senensis") e presentano motivi decorativi sovrapponibili nelle aureole ancora incise. Stilisticamente le due Vergini sono molto somiglianti tra loro, espressione di ricerche volumetriche e spaziali che, se denotano un distacco da Duccio, non segnano mai una negazione. I corposi Bambini di Cortona e Arezzo sono entrambi più sollevati, accostati alle teste delle Madri che nell'una come nell'altra opera sono accarezzate da impalpabili veli. Gli angeli di Cortona e i santi di Arezzo discendono da Duccio, ma caricano volti e gesti di sentimenti, conquistano spazio, si aggrappano al trono o ai loro attributi con vigore. Queste due opere non sono lontane fra loro e, se viene da proporne un'esecuzione condotta quasi in parallelo, è perché escono da un medesimo attimo di ricerca.
Nel transetto sinistro della basilica inferiore di Assisi c'è il grande ciclo di affreschi in cui il L. dispiegò una pittura densa di invenzioni e innovazioni continue, un'officina dove esibì l'altissima qualità dei suoi strumenti; ben chiari emergono gli artisti e le opere su cui esercitò una personale e calibrata interpretazione. Qui si coglie un aspetto non tralasciabile dell'arte del L., la sua severa spiritualità (Seidel, 1981, p. 149).
Proprio questa severità lo portò, con tutta probabilità, a guardare con interesse al movimento degli spirituali, le cui vicende si intrecciarono alla rivolta ghibellina scoppiata ad Assisi nel settembre 1319 e, come notò Volpe (1965, 1982), ad avere una notevole consonanza di idee proprio con il suo committente Guido Tarlati che di quella rivolta fu una delle menti.
I temi del ciclo assisiate sono i sei quadri della Passione nella volta; sull'arcone di fondo trovano posto le quattro scene post mortem; tutta la parete di sinistra è occupata dalla grande Crocifissione, la cui parte bassa fu danneggiata dall'installazione di un altare nel 1607; al di sotto di questa si trova l'altro finto trittico con la Madonna, il Bambino, s. Giovanni Evangelista e s. Francesco; più sotto ancora un piccolo Crocifisso tra scudi dall'arme illeggibile e il ritratto di un devoto in preghiera: forse colui che fu l'ormai misterioso committente. Sulla parete destra si trova il piccolo riquadro con il Giuda impiccato e, in colloquio iconografico diretto con la Crocifissione, le Stimmate di s. Francesco. L'intero ciclo è spartito e sottolineato da fasce decorative ornate da clipei con angeli e profeti. Relativamente ad esso, come per gran parte della decorazione della basilica di Assisi, non è rimasto alcun documento che possa facilitarne la ricostruzione storica, cronologica e dell'eventuale committenza. Gli stemmi sotto la Crocifissione letti da Vasari e da Ludovico da Pietralunga come l'arme di Gualtieri di Brienne duca di Atene hanno fornito solo indizi finora senza esito. Molte sono state le datazioni e le letture proposte per gli affreschi, tanto che è impossibile ripercorrerne l'intera vicenda critica, ma è opportuno focalizzare i nodi attorno a cui si è più discusso. Innanzitutto la paternità dell'intero ciclo proposta da Cavalcaselle (1885, pp. 193 ss.) fu respinta già da Venturi (1907, pp. 686 ss.) che, con severo giudizio, assegnò la volta, l'arco della cappella Orsini e parte della Crocifissione alla bottega. A pensare alla volta come opera di aiuti furono gli studi più antichi di Mason Perkins, Cecchi, De Wald, Weigelt, Péter e, in maniera più articolata, Brandi. Molti degli studiosi che toglievano dal catalogo del L. le scene della Passione capovolsero i tempi relativi di esecuzione pensandole successive alle scene post mortem dell'arcone, con il maestro già lontano da Assisi. Quando in occasione dei restauri si è potuto procedere all'esame degli attacchi degli intonaci è emerso che l'ordine di sequenza fu quello normale dall'alto verso il basso e da sinistra verso destra (Maginnis, 1976). Non si voleva riconoscere in L. l'autore di tutto il transetto per una presunta differenza di qualità tra le storie della volta e quelle delle pareti. Nella critica più recente si è posto il problema, invece, di una diversità di registro: nella volta la Passione fu narrata come un romanzo, fulgente nella descrizione dei molti personaggi, puntuale nel racconto non solo del fatto principale, ma anche di tutti gli avvenimenti a lato che formavano l'imprescindibile tessuto di ogni storia che veniva raccontata in una realtà fisica fatta di veri cieli stellati, veri edifici "all'antica", vere ombre di vere figure. Tutto ciò veniva dipinto con una gamma di colori smaglianti, lucidi, puri come quelli della oreficeria senese che il L. ben conosceva. Le folle, il loro ondeggiare, molti dei tipi rappresentati, le architetture chiamano Duccio come diretto antecedente; ma molte altre figure sparse in ogni scena, per la potenza espressiva e il solido rapporto con lo spazio, sono il frutto dell'adesione all'arte di Giovanni Pisano. Ovunque poi si accolgono idee giottesche, tolte in particolare dalla basilica superiore. Le scene post mortem, ma anche la Crocifissione, abbandonano la narrazione e diventano canonica rappresentazione, anche nell'essenzialità dello spazio, di una tragedia. Ogni personaggio si fa personificazione di un sentimento. Nell'affollatissima Crocifissione non c'è più la gente dell'Entrata in Gerusalemme, pur nell'inesauribile gamma di tipi e abbigliamenti: ogni personaggio è costernazione, curiosità, riflessione, malinconia, strazio. Tale scelta stilistica in tempi più recenti ha fatto abbandonare la sfibrante ricerca di una pennellata "di bottega" (che pure c'è) e ipotizzare, invece, almeno due diverse campagne decorative. Dopo Cavalcaselle fu Volpe (1951) a restituire al L. la piena paternità del ciclo, sostanzialmente non più rimessa in discussione, dividendo in tre fasi l'intervento del pittore: il "trittico" Orsini (1310-15), le Storie della Passione (tra il 1315 e il 1320), da ultimo la Crocifissione, il finto trittico sotto questa e le scene post mortem (tra il 1320 e il 1330). Volpe (1965 e 1989) ha poi modificato la proposta di datazione: lasciando fermo l'avvio dei lavori nella cappella Orsini, poneva il resto della decorazione entro il 1320, a esclusione delle scene sull'arcone retrodatate entro il 1322. Maginnis (1984), con l'identificazione della sequenza delle giornate, ha rifiutato l'ipotesi di fasi diverse, non riscontrando sui muri segni di lunghe interruzioni e sostenendo un'unica campagna composta da circa 330 giornate e terminata entro il settembre 1319 allo scoppio della rivolta capeggiata da Muzio di ser Francesco. All'idea dell'unico intervento si associa Bellosi (1982), mentre Carli (1981) supponeva fasi successive e distinte terminate non prima del 1327-28. Seidel (1981) avanza qualche dubbio sul fatto che 330 giornate più i tempi necessari per una prima asciugatura avrebbero allungato il lavoro a circa 600 giornate: un tempo difficile da pensare passato tutto nella basilica anche ammettendo la possibilità di fare affreschi nei mesi invernali. Pensando alla difficoltà di continuare a lavorare nella chiesa durante la rivolta ghibellina ispirata da Tarlati, Seidel ipotizza una interruzione dei lavori tra il 1319 e il 1322 e il completamento dei lavori intorno al 1324.
A complicare ulteriormente il problema della cronologia assisiate, oppure a rinforzo dell'ipotesi relativa a diversi soggiorni del L. nella città umbra, ci sono alcune opere che stilisticamente dovrebbero porsi tutte poco dopo Arezzo e in un momento in cui forse egli aveva già fatto ritorno a Siena. Prima fra queste è la Madonna col Bambino e donatore firmata "Petrus Laurentii de Senis me pinxit" della collezione Johnson di Filadelfia (Strehlke), che inaugura l'iconografia del Bambino in colloquio con il donante. Nella tavola i piani sono più slargati, ulteriore pienezza acquistano le figure, ma il legame con la Madonna di Arezzo è ancora molto forte. C'è poi il S. Leonardo (Riggisberg, Abeggstiftung) forse proveniente dall'eremo agostiniano di S. Leonardo al Lago presso Siena (De Benedictis, 1996, p. 886) che mostra una fase stilistica di passaggio verso i successivi lavori senesi. Dopo il completamento dei lavori di Assisi che datava al 1322, Volpe (1951, p. 13) poneva la tavola cuspidata (Siena, Pinacoteca nazionale) con la Crocifissione, Maria, Giovanni e la Maddalena le cui figure tragicamente monumentali certamente riecheggiano Assisi, ma si collocano qualche anno dopo il 1322, seppur prima della Pala del Carmine.
Il 27 giugno 1326 il L. ricevette un pagamento per alcuni affreschi (perduti) nel duomo di Siena; si può così datare poco più tardi l'avvio dei lavori per l'enorme pala d'altare eseguita per la chiesa del Carmine di Siena che è firmata e datata "Petrus Laurentii de Senis me pinxit A.D. MCCCXXVIII[I]" (Romagnoli, pp. 359-364; Bacci, pp. 83-89).
La tavola rimase nella chiesa dell'Ordine fino alla seconda metà del Cinquecento quando fu smembrata e la parte centrale (Madonna col Figlio, angeli e i ss. Nicola ed Elia) con lo scomparto di predella corrispondente (Consegna della regola, ora a Siena, Pinacoteca nazionale) finirono nella chiesa di S. Ansano a Dofana dove furono pesantemente ridipinti. Le altre parti rimasero nel convento senese finché alcuni pezzi furono venduti nel 1818 in Inghilterra; altri, tra cui le Ss. Agnese e Caterina d'Alessandria, dopo ulteriori spostamenti giunsero alla Pinacoteca nazionale di Siena (Torriti, pp. 97-103). Soltanto nel 1920 De Wald riconobbe nell'imbratto di Dofana la parte centrale della pala a cui associò le cuspidi con i Ss. Taddeo, Bartolomeo e Tommaso, Giacomo Minore già in Pinacoteca; una terza cuspide rinvenuta da L. Venturi nel 1945 a New York si trova presso l'Art Gallery della Yale University, a New Haven, CT; nel 1970 arrivarono alla Norton Simon Foundation (Los Angeles) due tavole con il Profeta Eliseo e il Battista sempre pertinenti alla pala (Meiss, 1973; Zeri, 1974). Ancora dispersa risulta una cuspide. Se certo non fu il L. a ideare la complessa iconografia legata alla mitica origine dei carmelitani (Bacci; Zeri, 1974; Frugoni, 1988), l'opera segna uno degli apici della sua arte in cui sono evidenti il compimento di una fase iniziata ad Arezzo, gli esiti della riflessione sul Giotto della cappella Bardi e sugli inizi di Maso (Longhi, 1951, p. 27), sulle forme di Tino di Camaino e un rapporto che da qui tornò a farsi molto stretto con il fratello Ambrogio.
Sempre nel 1329 il L., secondo Tizio, avrebbe eseguito una tavola per la chiesa degli Umiliati a Siena: a quest'opera, perduta, sono stati accostati due scomparti di predella uno con Cristo in Pietà (La Spezia, Museo Lia) e l'altro con S. Antonio Abate in collezione privata.
Datato 1332 è il polittico proveniente dalla chiesa di S. Cecilia a Crevole presso Murlo di Siena di cui rimangono gli scomparti con i Ss. Bartolomeo, Cecilia e il Battista (Siena, Pinacoteca nazionale) che non da tutta la critica, però, sono riconosciuti come del L. (Péter, p. 164; Becherucci, col. 688), ma che, specie nel Battista, mostrano l'indubbia mano del pittore in ulteriore avvicinamento al fratello.
Il quarto decennio del secolo dovette vedere il L. pressoché stabile a Siena, molto probabilmente con una bottega gestita insieme con il fratello nella quale veniva condotta una produzione alternata fra opere monumentali e piccoli dipinti per lo più destinati a devozione privata e in cui è spesso riscontrabile la mano di aiuti. Tutto però sembra essere sostenuto dalla medesima ricerca in uno stile che vede amalgamarsi le diverse esperienze che i due fratelli avevano fatto fino a quel momento e che nelle piccole opere si concentra su un'eccellente raffinatezza, su una vena narrativa particolarmente elegante; mentre nelle grandi tavole e negli affreschi maggiore importanza viene data allo studio di spazi e volumi. Su tutto, infine, si stende un rafforzato controllo cromatico leggero e pastoso, sfavillante e delicato al tempo. Poco dopo la metà del decennio si data quello che dovette essere un prestigioso polittico a sette sportelli cuspidati su cui la critica ha molto lavorato e discusso.
Nella parziale ricostruzione, al centro avrebbe dovuto esserci la Madonna col Bambino della collezione Loeser (Firenze, palazzo Vecchio); ai lati subito a sinistra S. Caterina d'Alessandria (New York, Metropolitan Museum) e a destra S. Margherita della collezione Mason Perkins (Assisi, Sacro Convento), già messe in stretta relazione tra loro da De Wald (1929, p. 148); e inoltre il S. Giovanni Evangelista (o S. Giacomo) del museo Lia a La Spezia (Zeri, 1968) e un Santo vescovo in collezione privata a Fontainebleau (Laclotte, 1976). A queste tavole vanno associati due pinnacoli con un Santo martire e un S. Antonio Abate ora alla Galleria nazionale di Praga (Maginnis, 1974). Accanto a questo polittico stilisticamente si trovano la piccola Maestà del Museo Poldi Pezzoli di Milano, quella della Walters Art Gallery di Baltimora, il dittico reliquiario della collezione Berenson a Settignano, la Madonna col Bambino, angeli e santi (Berlino, Gemäldegalerie) che Zeri (1971) riteneva anta di un dittico dipinto a metà con Ambrogio e una Crocifissione di recente riapparsa al Metropolitan Museum di New York (Laclotte, 2003, p. 405). Relativamente al polittico principale, però, Maginnis (1974 e 1984) ha espresso il convincimento che l'opera non sarebbe di mano del L. bensì di un artista a lui molto prossimo, attivo tra gli anni Trenta e Cinquanta del secolo, che ha chiamato "Maestro della Madonna Loeser" e che sarebbe anche l'autore delle opere satelliti citate. Altrettanto ipotetica è la figura del cosiddetto "Maestro di Digione", dal trittico del locale Musée des beaux-arts (De Wald, 1929), il cui corpus va riconsiderato all'interno della bottega del Lorenzetti.
Al 1335 risalgono i citati affreschi eseguiti col fratello per lo spedale di S. Maria della Scala. Del novembre dello stesso anno (Milanesi, 1854, p. 194; Bacci, pp. 90 ss.) è il primo cospicuo pagamento per la "dipegnitura dela tavola di Sancto Savino". La tavola, come ricostruì Bacci in base a un inventario del 1429, era per l'altare di S. Savino nel duomo di Siena e aveva nella parte mediana la Natività della Vergine (Siena, Museo dell'Opera del duomo), ai lati S. Savino e S. Bartolomeo (perduti), sotto una predella di cui oggi rimane solo lo scomparto con S. Savino davanti al governatore (Londra, National Gallery).
Era posta di fronte all'altare di S. Crescenzio con la Presentazione al tempio di Ambrogio. Non è chiaro il motivo che fece ritardare la consegna di sette anni quando il L. la firmò e datò "Petrus Laurentii de Senis me pinxit A. MCCCXLII". Nella Natività della Vergine il L. raggiunse il culmine di tutte le sue ricerche spaziali: trasformò definitivamente la carpenteria, che tripartiva la tavola, in architettura e il pannello centrale con quello di destra si trasformarono in un'unica ampia stanza dove giace Anna - fortemente memore della Vergine di Arnolfo di Cambio sulla facciata del duomo di Firenze - circondata dalle amiche e dalle ancelle che lavano Maria. Nella camera "la concorrenza delle ortogonali (mattonelle, dadi della coperta) è sufficiente a imporre allo spettatore un luogo nello spazio: un punto di stazione e uno di distanza" (Brandi, 1931, p. 342); in questo spazio si pongono le monumentali figure la cui saldezza plastica sembra favorire anziché interrompere la percezione spaziale. Sul pannello di sinistra è rappresentato Gioacchino a cui viene annunciato il fausto evento. La stanza dove l'anziano aspetta è ben più lunga di quella in cui si trova la moglie; e l'osservatore ne immagina senza difficoltà la piena praticabilità.
Nei sette anni che furono necessari alla consegna della Pala di S. Savino, il L. dovette ricevere varie altre commissioni forse non sempre eseguite. Parte della critica situa intorno al 1336 gli affreschi realizzati per la sala capitolare del convento di S. Francesco a Siena di cui rimangono la Crocifissione e il Cristo Risorto.
Nel 1857 la Crocifissione fu staccata e trasferita, danneggiata nella parte inferiore, all'interno della chiesa; nel 1970 anche il Cristo Risorto fu staccato e trasferito al Museo dell'Opera del duomo. La critica è unanime nell'accettare l'attribuzione al L. fatta da Cavalcaselle così come a riconoscervi una fase di stretta collaborazione tra il L. e Ambrogio. Ma la datazione segna uno degli altri punti controversi del lavoro del pittore. Volpe (1989, pp. 128-134) pensava la Crocifissione come l'inizio dell'attività del L. nella chiesa a cui avrebbe fatto seguito quella di Ambrogio nel chiostro e nella stessa sala capitolare e poneva da ultimo il Cristo Risorto; l'insieme dei lavori lo datava intorno agli anni Venti, datazione accolta da Maginnis (1984, pp. 199 s.), De Benedictis (1996, p. 886), Laclotte (2003, p. 404). Intorno al 1335-36 avrebbero dovuto datarsi gli affreschi per Seidel (1979), che ha però in seguito manifestato dubbi, Carli (1981, pp. 154 s.), Monciatti (pp. 97-100); per Boskovits (1986, pp. 8 s.) invece il ciclo è da porsi tra il 1326 e il 1330. Il dato certo per tutti è il potente influsso di Giotto che viene espresso nella stupefacente e monumentale frontalità del Cristo risorto.
Alla seconda metà del quarto decennio vanno ricondotti alcuni lavori spesso eseguiti con aiuti: la Madonna col Bambino già in collezione Serristori a Firenze (Milano, collezione privata); la Madonna col Bambino sciupata tanto da essere letta anche come opera di bottega (Assisi, Sacro Convento, collezione Mason Perkins); il dittico firmato composto dalla Madonna col Bambino in fasce e il Cristo in Pietà (Altenburg, Lindenau Museum); una tavola eseguita nel 1337 per la chiesa di S. Martino a Siena di cui rimane solo il ricordo documentario (Romagnoli, p. 362; Bacci, p. 93); la Madonna proveniente dalla parrocchiale di Castelnuovo Tancredi (Buonconvento, Museo d'arte sacra); lo splendido polittico proveniente dalla chiesa di S. Giusto a Siena (Siena, Pinacoteca nazionale), in cui Volpe (1951, p. 13) rinvenì "il supremo risultato dei propositi dell'artista", frase che sarebbe giustificata già dal riuscitissimo effetto da sotto in su della piccola Annunciazione (Torriti, pp. 105 s.). Ultimo lavoro che conclude il decennio è il trittico firmato e datato: "Petrus Laurentii de Senis me pinxit. Anno Domini MCCCXL" (Washington, National Gallery of art). Tra il 1335 e il 1340 G. Chelazzi Dini pone un gruppo di miniature che illustrano la Divina Commedia commentata da Iacopo Della Lana (Perugia, Biblioteca comunale Augusta, Mss. L 70), incentrando intorno a quest'opera una sicura attività miniatoria del Lorenzetti.
Certamente tra queste notevoli miniature e la predella della Pala del Carmine esistono forti affinità; ma è difficile accettare un'attribuzione priva di incertezza, senza per questo escludere la possibilità che il L. avrebbe potuto essere anche un valente miniatore. Di certo egli esercitò un'influenza decisiva sulla formazione di alcuni grandi miniatori senesi (De Benedictis, 1994), tra cui è bene ricordare Niccolò di ser Sozzo.
Compresi tra il 1337 e il 1340 sono pervenuti dei documenti che mostrano il livello di agiatezza e autorevolezza civica raggiunti dal L.: infatti egli pagava in quegli anni per avere e rinnovare il porto d'armi concesso solo a uomini di rango; ricevette da un privato in acconto per due tavole ben 40 fiorini d'oro; versava con la moglie la "presta", tassa imposta ai cittadini abbienti (Bacci, pp. 93-96). Inoltre nel 1342 e nel 1344 comprava e vendeva terra presso Bibbiano per Cola e Martino rispettivamente fratello e figlio del defunto Tino di Camaino. Dai due documenti si apprende che il L. era stato di certo buon amico - e non solo attento estimatore - dello scultore e che sua moglie era Giovanna, sorella di Niccolò di Mino Cicerchia, tesoriere generale della Gabella, e che, quindi, il L. era legato da parentela con personaggi di spicco dell'amministrazione comunale.
Al 1343 dovrebbe risalire la Madonna in trono col Bambino e otto angeli dipinta per i francescani di Pistoia. Vasari la descrisse con una predella che nel 1799, anno di entrata agli Uffizi, risultava scomparsa. In questa, tra le opere estreme del pittore, si nota il venire meno della sua veemenza espressiva e lo studio si concentra tutto sull'ordinamento e la semplificazione dei volumi, così come nell'affresco staccato di S. Domenico a Siena - Madonna col Bambino in atto di benedire un guerriero presentato dal Battista - che fu poi in gran parte affidato all'esecuzione di un valido allievo.
Dopo la Maestà di Pistoia si situa la controversa pala della Beata Umiltà (Firenze, Galleria degli Uffizi) per la quale il L. riprese l'arcaica tipologia della rappresentazione frontale del santo al centro e la storia della sua vita narrata in piccoli scomparti posti a lato.
L'opera nel 1841 fu sottoposta a un restauro che la scompose e che inserì un'iscrizione con una data, letta in seguito come 1316 oppure 1341. Un disegno del Settecento, allegato agli atti di canonizzazione della beata, aiutò Cohn (1959) a ritenere pertinenti alla pala tre cuspidi e la predella, ma soprattutto L. Marcucci (1961) a verificare l'originaria disposizione delle storiette laterali condotte secondo la sequenza della leggenda ufficiale definita solo nel 1332, data che segnò un definitivo terminus post quem. In più la riassuntiva, ma accurata, veduta di Firenze presente in una delle scene (L'arrivo di Umiltà a Firenze) raffigura edifici terminati non prima del 1339.
Nell'esecuzione della vita di una santa mai fin lì rappresentata, il L. si fece vero e proprio cronachista narrando realtà, persone, modi del tutto contemporanei a lui e tutto sistemò dentro perfette partiture spaziali ben consapevoli di ciò che a Firenze l'ultimo Giotto e i suoi allievi avevano eseguito; tuttavia le figure non dimenticarono né i lavori di Ambrogio né il Simone Martini del Beato Novello.
Della pala due storiette sono a Berlino (Staatliche Museen) e una cuspide col Cristo benedicente è in collezione privata.
A Castiglione del Bosco il L. dipinse quella che, recando la data del 1345, dovette essere una delle sue ultime opere: un affresco con sei santi e un'Annunciazione, molto sciupato, ritoccato e con frammenti di una scritta che Brandi (1931) attribuì al pittore. L'affresco, per quel che la sua difficile lettura permette di valutare, nella fisicità e monumentalità dei personaggi, nonché nella ponderata spazialità dell'aula ove si svolge l'Annunciazione, chiude con la migliore coerenza la carriera del L., di cui dopo questa data non si sa più nulla, tanto da far supporre con una certa sicurezza che anche per lui, come per Ambrogio, la morte giunse durante la peste del 1348.
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