INGRAO, Pietro
Nacque a Lenola (oggi provincia di Latina) il 30 marzo 1915 da Francesco Renato, impiegato comunale, vicino ai socialisti riformisti, e da Celestina Notarianni. Studiò al Liceo classico di Formia e cominciò ad appassionarsi di letteratura. Tra i suoi insegnanti ebbe Gioacchino Gesmundo e Pilo Albertelli, entrambi caduti nell’eccidio delle Fosse Ardeatine (24 marzo 1944), che influenzarono la sua formazione e l’avvicinamento all’antifascismo.
Trasferitosi a Roma per frequentare l’Università, dove si laureò in giurisprudenza e in lettere e filosofia, Ingrao si iscrisse al Gruppo universitario fascista (GUF) e partecipò ai Littoriali della cultura e dell’arte di Firenze (1934), dove arrivò terzo al concorso di poesia e a quello di teatro, e di Roma (1935), dove arrivò secondo al concorso di poesia e non classificato a quello di organizzazione politica. Si trattò di esperienze importanti, non solo per lui ma per molti suoi coetanei, come ricordò in seguito, poiché i Littoriali costituirono un luogo di contatto con una realtà nazionale in cui «migliaia di giovani studenti, lontani e separati gli uni dagli altri da pesanti barriere provinciali, si trovarono a discutere insieme di cultura, di politica, di questioni sociali» (Ingrao, 1990, p. 11). In quelle occasioni Ingrao (per il quale la guerra di Spagna fu determinante per il proprio impegno politico) ebbe modo di stabilire i primi rapporti con alcuni giovani con i quali avrebbe dato vita al gruppo antifascista romano e, tra questi, Antonio Amendola (terzogenito di Giovanni e fratello di Giorgio, comunista, espatriato clandestinamente), vincitore del concorso di critica letteraria a Roma, che lo spinse «energicamente verso la cospirazione antifascista e comunista» (p. 12). Attraverso di lui e il fratello minore Pietro, Ingrao conobbe alcuni giovani dediti all’attività antifascista (Paolo Bufalini, Lucio Lombardo Radice, Aldo Natoli, Bruno Sanguinetti) e, successivamente, Mario Alicata, che ai Littoriali di Napoli (1937) aveva conosciuto lo stesso Amendola e altri giovani impegnati nel campo letterario e artistico (Antonello Trombadori, Renato Guttuso, Girolamo Sotgiu). Inizialmente l’attività rimase su un terreno di discussione antifascista, ma mutò quando tra il dicembre del 1939 e il gennaio del 1940 Lombardo Radice, Natoli e Pietro Amendola furono arrestati e in aprile condannati dal Tribunale speciale in seguito ai rapporti che avevano stabilito con alcuni giovani comunisti di Avezzano. Per Ingrao e Alicata, che non erano a conoscenza di questi collegamenti, come non sapevano dei contatti dei loro amici con il centro estero del Partito comunista d’Italia, questo evento fece «precipitare la situazione, perché di fronte al fatto che loro andavano in galera, noi» – ricorda in una sua testimonianza – «ancora di più fummo portati a diventare un nuovo centro organizzatore»: in quel momento avvennero «quelle cose che si leggono nei romanzi: quelli sono andati dentro, adesso tocca a noi» (Vittoria, 1977, p. XXXII). Fu allora infatti che Ingrao compì la scelta comunista, assumendo con Alicata, Bufalini e Antonio Amendola la guida dell’organizzazione cospirativa.
Oltre alla letteratura e alla poesia, un altro grande interesse di Ingrao divenne il cinema. Con Gianni Puccini, conosciuto ai Littoriali fiorentini, e Giuseppe De Santis, nel 1935 si iscrisse al Centro sperimentale di cinematografia, dove frequentò per un anno il corso di regia e collaborò, come altri giovani antifascisti, alla rivista Cinema, diretta da Vittorio Mussolini. Nel 1940 questo gruppo di amici conobbe il regista Luchino Visconti, con il quale ebbe inizio una significativa collaborazione per la stesura di sceneggiature, che tuttavia non si realizzarono (Ingrao lavorò alla novella di Verga Jeli il pastore). Si realizzò invece il film Ossessione (1943), tratto dal romanzo dell’americano James Cain Il postino suona sempre due volte, che fu il primo film del neorealismo cinematografico italiano. La sceneggiatura era firmata da Alicata, De Santis, Antonio Pietrangeli, Puccini, Visconti, mentre la firma di Ingrao, che pure vi aveva partecipato, non apparve per motivi cospirativi (A. Trombadori, Significato dei film del primo Visconti, in l’Unità, 26 gennaio 1976).
L’attività del gruppo dei comunisti romani proseguì dopo gli arresti del 1939-40 e si diramò in contatti con giovani di altre posizioni politiche (liberalsocialisti e cattolici comunisti), con alcuni operai della capitale e con altri ambienti intellettuali fra Pisa (la Scuola normale superiore), Perugia e Milano, venendo via via segnata da nuove retate e condanne. Alla fine del 1942, in seguito ai rapporti stabiliti con un gruppo di operai, artigiani e studenti, che stampava un foglio intitolato Scintilla, furono arrestati Alicata, Gianni e Dario Puccini, Marco Cesarini Sforza, mentre Ingrao riuscì a fuggire (furono deferiti al Tribunale speciale il 17 aprile 1943, compreso Ingrao, «irreperibile», Archivio centrale dello Stato, Ministero dell'Interno, Direzione generale di Pubblica sicurezza, Affari generali e riservati, 1903-49, b. 16, f. 198: Scintilla). Precedentemente, infatti, Alicata e Ingrao avevano stabilito che se uno dei due fosse stato arrestato, l’altro si sarebbe recato a Milano dove, in contatto con il centro interno comunista, avrebbe cercato di espatriare, un fatto nuovo e significativo che denotava il livello cospirativo raggiunto dai giovani del gruppo romano. Ingrao si recò dunque a Milano e, dopo un fallito tentativo per passare in Svizzera, andò in Calabria, continuando a svolgere attività organizzativa per il Partito comunista italiano (PCI) e poi di nuovo a Milano, dove si trovava il 25 luglio 1943, alla caduta del fascismo, e dove a Porta Venezia tenne il suo primo comizio.
Dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943 fu impegnato nella redazione milanese dell’Unità clandestina e quindi in quella romana, per poi passare a lavorare nella Federazione comunista della capitale. Nel novembre del 1944 si arruolò nel Corpo italiano di liberazione, nella Divisione Mantova, non impegnata in zone di combattimento.
In quegli anni Ingrao conobbe la sorella di Lombardo Radice, Laura, insegnante nelle scuole superiori e anche lei impegnata nell’attività antifascista, con la quale iniziò una storia d’amore – mentre si fingevano fidanzati per scambiare informazioni sull’attività cospirativa – durata tutta la vita. Si sposarono dopo la liberazione di Roma, il 24 giugno 1944 in Campidoglio e dal matrimonio nacquero cinque figli: Celeste, Bruna, Chiara, Renata, Guido.
Alla fine della guerra Ingrao riprese il proprio posto all’Unità, della quale divenne direttore nel 1947 e vi rimase per dieci anni. Alle elezioni del 1948 fu eletto deputato, venendo confermato alla Camera fino alla X legislatura. Membro del Comitato federale di Roma e dal 1948 del Comitato centrale, Ingrao – come i suoi amici del gruppo romano – fu tra i dirigenti comunisti della generazione più giovane, cresciuta sotto il fascismo e formatasi nella lotta antifascista, che il segretario del PCI Palmiro Togliatti riteneva componente fondamentale di quello che nel 1944 aveva definito 'partito nuovo'.
Negli anni più duri dello scontro tra i blocchi americano e sovietico, Ingrao si schierò tra quanti avevano una posizione più aperta rispetto alla componente del PCI vicina a Pietro Secchia, ostile al moderatismo togliattiano. Quando, a metà degli anni Cinquanta, questa componente fu sconfitta, anche nell’ambito degli organismi dirigenti comunisti si verificò un cambio generazionale, a cominciare dal ruolo assunto da Giorgio Amendola come responsabile della Commissione organizzazione, prima diretta da Secchia. Ingrao entrò come membro candidato nella Direzione, di cui divenne membro effettivo all’VIII congresso del PCI (Roma, 8-14 dicembre 1956), quando fu chiamato anche nella Segreteria e alla guida della Commissione stampa e propaganda. Sempre attivo nella vita del Partito a tutti i livelli, Ingrao si distinse per la grande capacità retorica e comunicativa.
Di fronte agli eventi dell’«indimenticabile 1956» (come scrisse sull’Unità, 14 giugno 1957, e come intitolò una lezione del 1971 sulla storia del PCI: 1977, pp. 101-154), Ingrao assunse una posizione interlocutoria. Nelle riunioni della Direzione sostenne che la discussione nata tra gli iscritti al PCI dopo il XX congresso del Partito comunista dell’Unione sovietica (PCUS) (14-24 febbraio 1956) e la pubblicazione in occidente del «rapporto segreto» di Chruščëv, fosse «un fatto positivo e sano», invitando anche a riflettere sul fatto che tra i militanti vi era «stato uno choc molto forte» (20 giugno 1956, in Quel terribile 1956, 1996, p. 67). D’altra parte, ribadì che quanto era avvenuto in Unione sovietica poneva «problemi politici, non solo storici, al movimento comunista internazionale che non possiamo ignorare» (18 luglio 1956, p. 125). Quando, in ottobre, scoppiò la rivolta in Ungheria, Ingrao assunse un atteggiamento fortemente critico contro gli insorti, con due editoriali sull’Unità (25 e 27 ottobre) e negli interventi alla Direzione comunista: «Non possiamo legittimare la rivolta armata nei paesi socialisti. Una cosa è il giudizio sulle cause degli avvenimenti ungheresi, un’altra giustificare l’insurrezione. Non possiamo ammettere che dei compagni accettino che si vada a rovesciare la stella rossa», affermò il 30 ottobre, accusando «di frazionismo» gli intellettuali romani che avevano scritto una lettera di protesta (p. 229). Col senno di poi ammise che «la valutazione d’insieme che demmo della rivolta ungherese […] fu in radice sbagliata» e confidò di aver esposto in un incontro privato a Togliatti il proprio giudizio negativo sull’invasione sovietica dell’Ungheria, ricevendo dal segretario comunista la secca risposta di essere del parere opposto (Ingrao, 1990, pp. 89, 91). Riguardo all’VIII congresso del PCI, invece, come affermò nella lezione del 1971, espresse una valutazione positiva poiché da lì fu affermata «l’esigenza della piena autonomia di decisione e di scelta di ogni partito comunista e il superamento della concezione del partito-guida e dello Stato-guida» (L’indimenticabile 1956, cit., 1957, p. 148).
Da quella data si pose nel PCI la questione dell’URSS, delle sue realizzazioni e del ruolo del PCUS come 'partito guida' degli altri partiti comunisti. Ne fu esempio il modo in cui al Comitato centrale del 10-11 novembre 1961 alcuni dirigenti (ma non Togliatti) accolsero positivamente le decisioni del XXII congresso dei comunisti sovietici (17-31 ottobre 1961), nel quale Chruščëv aveva formulato pubblicamente nuove denunce delle violazioni della legalità socialista nell’epoca staliniana. Ingrao ribadì l’esigenza «di una ricostruzione storica» e la necessità di andare a fondo sugli errori politici commessi, mettendo al tempo stesso in guardia sulla «delicatezza» della questione, poiché si trattava del PCUS, la «forza che più ha dato e più dà al cammino del socialismo». Bisognava insomma appoggiare la svolta che si stava compiendo all’interno del partito sovietico, ma al tempo stesso – come affermò nella riunione di Direzione di poco successiva – salvaguardarlo (Il Pci e lo stalinismo, 2007, pp. 237, 322).
Con gli sviluppi della politica italiana e il delinearsi dei governi di centrosinistra, all’interno del PCI cominciarono a maturare due posizioni divergenti tra Amendola, per il quale occorreva dichiararsi a favore del governo programmatico, e Ingrao, che invece riteneva necessario dare battaglia contro la preclusione a sinistra. Differenziazioni accresciute dopo la formazione del governo di centrosinistra organico Moro-Nenni e rese ancor più manifeste all’indomani della morte di Togliatti (21 agosto 1964). Su proposta del nuovo segretario, Luigi Longo, Ingrao fu chiamato a prendere il posto di Togliatti alla presidenza del gruppo comunista alla Camera.
Lo scontro tra la sinistra del Partito, rappresentata da Ingrao, e la destra rappresentata da Amendola e da Alicata emerse in maniera esplicita all’XI congresso (Roma, 25-31 gennaio 1966), già segnato da diverse opinioni nel corso del dibattito precongressuale, durante il quale Ingrao aveva accusato il Partito di non aver saputo indicare un progetto alternativo a quello della programmazione capitalistica e all’intervento dello Stato, e aveva altresì insistito sulla necessità di una discussione ampia.
Alla tribuna dell’XI congresso, Ingrao intervenne con una frase divenuta famosa: «Non sarei sincero se dicessi a voi che sono rimasto persuaso» dalle parole di Longo (XI Congresso del PCI. Atti e risoluzioni, Roma 1966, p. 265), rendendo per la prima volta esplicito in un’occasione pubblica il dissenso all’interno del PCI. Al di là del disaccordo su singoli aspetti della politica economica e del programma del Partito, fu proprio la rivendicazione del dissenso a determinare il contrasto. «Appena finii capii subito – ha ricordato egli stesso (1990, p. 143) –: la sala in piedi applaudiva. La presidenza e tutto il gruppo dirigente rimase fermo al suo posto, gelido: nessuno mi strinse la mano». Alicata in particolare gli rispose che «questa rivendicazione del dubbio permanente» non aiutava «né la democrazia, né l’unità del partito» (XI Congresso, cit., 1966, p. 466 ss.). Pietro Nenni, nei suoi diari, parlò di «linciaggio» di Ingrao (Gli anni del centro sinistra, Milano 1982, p. 589).
Il contrasto andò oltre il dibattito del congresso e si concretizzò nel tentativo – portato avanti da Amendola, Alicata e Giancarlo Pajetta – di estromettere Ingrao dalle cariche direttive. Longo, sostenuto da Enrico Berlinguer e da Giorgio Napolitano, si oppose: Ingrao rimase nella Direzione e nel ruolo di presidente del gruppo del PCI alla Camera, ma uscì dalla Segreteria e fu inserito in un nuovo organismo, l’Ufficio politico. Gli esponenti della sinistra del Partito più vicini a lui, come Rossana Rossanda e altri che di lì a qualche anno avrebbero dato vita al Manifesto, furono invece estromessi dai loro incarichi.
Nuove tensioni si crearono quando la rivista Il Manifesto (diretta da Rossanda e Lucio Magri), nacque sulla base del convincimento – come affermava l’editoriale del primo numero del 23 giugno 1969 – di essere entrati in una «fase nuova» della lotta del movimento operaio a livello italiano e internazionale, che avrebbe potuto prefigurare trasformazioni rivoluzionarie. Gli autori furono messi sotto accusa non solo per le posizioni contrastanti con quelle del Partito, ma soprattutto per il carattere «frazionistico» che assumeva la loro attività con la nascita del periodico. In occasione del Comitato centrale (15-17 ottobre 1969) che prese in esame la questione, Ingrao espresse la propria «divergenza» e il proprio disappunto contro il «tutto o niente», rimarcando la necessità di «rompere l’illusione nefasta […] di rinnovare “separandosi”» (La questione del «manifesto», Roma 1969, p. 106). Di conseguenza non si distinse dal resto del Comitato centrale che il 26 novembre votò la radiazione di Natoli, Rossanda e Luigi Pintor (e dal Partito di Magri, che non era membro del Comitato centrale). Successivamente, sostenendo che la radiazione fu «un brutto errore» del PCI, ammise di aver sbagliato «seriamente» con il proprio voto a favore, ma ribadì che lo aveva fatto perché convinto che qualsiasi discorso di apertura andasse portato avanti «dentro» il Partito e non fuori (Ingrao, 1990, 165-6).
Quanto era successo nell’agosto del 1968, l’invasione delle truppe del Patto di Varsavia in Cecoslovacchia che metteva fine alla 'primavera di Praga' di Alexander Dubcek, portò Ingrao a riflettere ancor più sui paesi comunisti dell’Europa orientale e sulla necessità che dovesse esservi un nesso tra il socialismo e la democrazia. Fu tra i membri della direzione del PCI presenti a Roma che approvarono la risoluzione in cui veniva espresso un «grave dissenso» nei confronti della scelta sovietica, anzi, secondo il ricordo di Napolitano, che presiedeva la riunione, propose ritocchi «in senso rafforzativo» della condanna (Napolitano, 2005, pp. 87 s.).
Mentre i suoi interessi di studio andavano concentrandosi sul tema della crisi dello Stato e delle istituzioni, nel 1975 fu nominato presidente del Centro di studi e iniziative per la riforma dello Stato (CRS), fondato dal PCI nel 1972, che di fronte ai successi nelle elezioni amministrative del 1975 e nelle politiche del 1976 diveniva un importante strumento di analisi. Dopo le elezioni del 20 giugno 1976, Ingrao lasciò quell'incarico, essendo stato eletto presidente della Camera dei deputati, primo comunista ad assumere una carica così prestigiosa.
Nel discorso di insediamento, il 5 luglio 1976, rifacendosi all’esperienza unitaria della Resistenza, Ingrao mise in luce come i grandi problemi posti dalla crisi economica, politica e sociale richiedessero «di camminare con nuovo slancio sulla strada maestra indicata dalla Costituzione, che fissa per noi tutti le regole della convivenza civile e politica e chiama le classi lavoratrici a partecipare finalmente alla direzione dello Stato». Sottolineò altresì la novità della situazione creatasi dopo il grande successo elettorale del PCI: «nella larghezza e varietà dei consensi che hanno portato alla mia elezione» (Ingrao ottenne al primo scrutinio la maggioranza dei due terzi componenti l’Assemblea necessaria per l’elezione), egli infatti coglieva «il segno che sta avanzando fra le forze politiche l’esigenza di un rapporto nuovo, che […] porti ad un rinvigorimento e ad un arricchimento delle istituzioni democratiche» (http://storia.camera.it/presidenti/ingrao-pietro#nav).
Ingrao non fu convinto dell’astensione comunista al governo monocolore democristiano guidato da Giulio Andreotti (come, in precedenza, non era rimasto convinto della formula berlingueriana del 'compromesso storico'), poiché riteneva che «bisognava costringere la DC a una scelta chiara, che mettesse veramente in crisi la sua situazione interna», ma dato il ruolo che gli era stato affidato uscì «dalla lotta politica immediata» (Ingrao, 1990, pp. 169, 171 s.).
Dallo scranno di presidente della Camera, Ingrao ebbe modo di conoscere «da vicino» gli apparati dello Stato e i problemi del funzionamento dell’assemblea rappresentativa, tuttavia – in quegli anni segnati dai crescenti atti di terrorismo e di conflittualità sociale – non riuscì ad avviare le trasformazioni che riteneva necessarie. Quando, la mattina del 16 marzo 1978, giunse la notizia del rapimento di Aldo Moro e dell’uccisione dei cinque uomini della scorta, il suo «assillo» fu di dare subito il governo al Paese, «anche perché questo dipendeva anche da me; era l’unico atto concreto che potevo fare e che contava» (p. 177). Ingrao vi riuscì e il secondo governo Andreotti fu varato quello stesso pomeriggio, con i voti favorevoli del PCI.
Dopo l’uscita del PCI dalla maggioranza di governo alla fine del 1978 e l’arretramento subito alle elezioni del giugno 1979, Ingrao non accettò, nonostante le pressioni del suo Partito, di mantenere la propria carica e tornò al CRS, dove rimase presidente fino al 1993. Fu in linea con le scelte di Berlinguer in merito alla condanna dell’invasione sovietica dell’Afghanistan (dicembre 1979) e al mutamento della linea politica a favore dell’alternativa, anche se si oppose all’ipotesi di «governi intermedi», ritenendo necessaria una «radicalità» della proposta, che mettesse la Democrazia cristiana del tutto fuori dal governo, come affermò a una riunione del febbraio 1983 (Barbagallo, 2006, pp. 432 s.). A un convegno organizzato dal CRS e dalla Fondazione Istituto Gramsci nell’ottobre del 1985, Ingrao lanciò infatti la proposta di un «governo costituente» da contrattare con tutte le forze che avevano dato vita alla Costituzione per la «riforma dello Stato» (Benadusi, 2006, p. 34). Ritenendo necessario che il CRS si aprisse anche a studiosi non comunisti, Ingrao si impegnò per la sua trasformazione in associazione autonoma dal PCI, avvenuta nella primavera del 1985: come affermò nella relazione alla prima assemblea dell’associazione (20 gennaio 1986), se da un lato le forze che sostenevano il Centro erano di sinistra, dall’altro era infatti necessaria «la larghezza di un confronto che scavalca frontiere ideologiche e culturali» (p. 28).
Il contesto era cambiato all’interno del PCI, fortemente provato dalla morte di Berlinguer (11 giugno 1984), mentre nuove trasformazioni si profilarono durante la segreteria di Achille Occhetto (che proveniva dalla sinistra ingraiana). Ingrao le approvò e anzi proprio per favorire il rinnovamento, dopo il XVIII congresso (Roma, 18-22 marzo 1989), come altri leader di vecchia generazione, si dimise dalla Direzione. Dissentì invece dalle dichiarazioni di Occhetto all’indomani della caduta del muro di Berlino (9 novembre 1989), che prefiguravano il cambiamento del nome del PCI.
Ingrao si schierò contro la proposta del segretario di avviare una fase costituente per una nuova formazione politica perché – come scriveva nel dicembre del 1989 nella bozza della mozione per il congresso straordinario – tale proposta rappresentava «un arretramento ideale e pratico rispetto ai nuovi compiti che stanno dinnanzi al nostro paese e ai popoli del mondo», mentre si rendeva necessario «sviluppare il patrimonio del nostro partito» sostenendo che, anche di fronte al crollo dei regimi comunisti dell’Europa orientale (nei confronti dei quali aveva maturato posizioni sempre più critiche), parlare ancora di comunismo aveva senso. Piuttosto, riteneva che grande attenzione dovesse essere posta sulla questione del disarmo e della pace. In maniera ferma, infine, Ingrao rivendicava il ruolo svolto dal PCI nel corso del Novecento, alla guida delle lotte «per la redenzione degli oppressi, per la tutela degli sfruttati, per l’emancipazione del mondo del lavoro», e per questo dichiarava che esso doveva mantenere viva la propria tradizione (Ingrao, 2015, pp. 77, 79, 95).
La mozione Per un vero rinnovamento del PCI e della sinistra, promossa da Ingrao (assieme ad Aldo Tortorella, Alessandro Natta, Giorgio Chiarante, Gavino Angius, Luciano Barca, tra gli altri), ottenne al XIX congresso del PCI (Bologna, 7-11 marzo 1990) il 29,7% dei voti dei delegati, contro il 66,9% della mozione presentata da Occhetto e il 3,4% della mozione di Armando Cossutta.
Alla fine del settembre 1990 gli esponenti dell’opposizione alla svolta di Occhetto si incontrarono in un seminario ad Arco di Trento, dove Ingrao si dichiarò contrario a una scissione, perché «non ci credo che così salviamo il nome ed una identità»: come già aveva sostenuto in passato nel caso del Manifesto, ribadì che si dovesse rimanere dentro il Partito e «costruire nel gorgo» (2015, pp. 257, 259).
Quando, al XX e ultimo congresso del PCI (Rimini, 30 gennaio - 3 febbraio 1991), nacque il Partito democratico della sinistra (PDS), Ingrao vi aderì e continuò a mantenere un proprio ruolo come coordinatore dell’area dei comunisti democratici.
Al Congresso Ingrao concentrò il suo intervento sulla situazione internazionale, esprimendo il proprio allarme per la svolta segnata dalla guerra del Golfo da poco iniziata (17 gennaio) e la preoccupazione che l’Italia non scegliesse la via della pace come prioritaria per la soluzione del conflitto in Iraq. Il tema della pace divenne ancor più centrale nella sua riflessione e nell’impegno politico. Su sollecitazione di Lombardo Radice, egli aveva peraltro partecipato alla prima marcia per la pace Perugia - Assisi (24 settembre 1961) organizzata da Aldo Capitini (conosciuto da Ingrao ai tempi della cospirazione antifascista), assieme alla moglie Laura e alle figlie adolescenti, «debitamente adorne di cartelli che condannavano la guerra» (Ingrao, 2006, p. 295).
Nel 1992, tuttavia, rinunciò alla propria candidatura alle elezioni e l’anno successivo prese la sofferta decisione di uscire dal PDS, dimettendosi anche da presidente del CRS.
Motivò la propria decisione – maturata all’indomani della vittoria dello schieramento in favore del sistema maggioritario e uninominale al referendum del 18 aprile 1993, essendosi egli dichiarato contrario – a un convegno dell’area dei comunisti democratici (15 maggio 1993). Il suo era ormai divenuto un dissenso di fondo nei confronti del PDS, a partire dall’analisi sulla crisi in atto nel Paese, fino all’appoggio al governo guidato da Carlo Azeglio Ciampi (28 aprile), che egli riteneva invece espressione di un’«operazione trasformistica di ricambio». Il PDS aveva perso il contatto con le lotte dei lavoratori ed era «sempre più strutturato con un centro leaderistico che fa capo alla persona del segretario»: «Vedo solo buio. Ed esco dal mio partito», annunciò, perché con il PDS non c’era più «un linguaggio comune» ed esso non costituiva più per lui il luogo della «socialità politica». Tuttavia Ingrao non intendeva ritirarsi dalla politica, ma si proponeva di «sperimentare altri luoghi dove costruire un rapporto tra immediatezza della condizione sociale e azione politica generale» e «cimentarsi con le forme nuove del linguaggio politico, cioè con i media», nella convinzione che si potesse ricostituire un nuovo polo, che punti «a ricostruire una cultura critica dell’esistente e ad aiutare il rifiorire di una sinistra alternativa» (2015, pp. 595-605).
Più avanti si avvicinò al Partito della rifondazione comunista, al quale aderì il 3 marzo 2005. Nel marzo del 2010 si dichiarò per Sinistra ecologia e libertà.
In quegli anni riprese la sua iniziale (e mai cessata) passione per la poesia e pubblicò alcune raccolte (Il dubbio dei vincitori, Milano 1986; L’alta febbre del fare, Milano 1997; Variazioni serali, Milano 2000). Continuò a portare avanti la riflessione sugli eventi che aveva vissuto e scrisse l’autobiografia Volevo la luna (Torino 2006). Il 23 marzo 2003, da tempo malata, morì la moglie Laura.
Morì a Roma il 27 settembre 2015, avendo da poco varcato la soglia dei cento anni.
Opere principali. Oltre ai testi citati, Masse e potere, Roma 1977; Crisi e terza via, intervista di R. Ledda, Roma 1978 (nuova ed. dei due volumi, a cura di G. Liguori, Roma 2015); Tradizione e progetto, Bari 1982; Le cose impossibili. Un’autobiografia raccontata e discussa con Nicola Tranfaglia, Roma 1990 (Roma 2011); Interventi sul campo, Napoli 1990; Appuntamenti di fine secolo, Roma 1995 (con R. Rossanda); La guerra sospesa. I nuovi connubi tra politica e armi, Bari 2003; Mi sono molto divertito. Scritti sul cinema (1936-2003), a cura di S. Toffetti, Roma 2006 (con L. Benadusi e L. Pallanch); La Tipo e la notte. Scritti sul lavoro, a cura di F. Marchianò, Roma 2013; Crisi e riforma del Parlamento, Roma 2014; Coniugare al presente. L’Ottantanove e la fine del Pci. Scritti (1989-1993), a cura di M.L. Boccia - A. Olivetti, Roma 2015.
L’archivio di Pietro Ingrao è conservato a Roma presso il Centro per la riforma dello Stato, cfr. L’Archivio di Pietro Ingrao. Guida alle carte del Centro studi per la Riforma dello Stato, a cura di L. Benadusi - G. Cerchia, Roma 2006. Sul sito http://www.pietroingrao.it/ si possono consultare materiali, documenti, video. Per gli interventi negli organismi dirigenti del PCI si veda l’Archivio del PCI conservato presso la Fondazione Gramsci di Roma. Per l’attività parlamentare e la presidenza della Camera si veda il portale storico della Camera dei deputati, http://storia.camera.it/presidenti/ingrao-pietro#nav; http://storia.camera.it/deputato/pietro-ingrao-19150330#nav.; necrologi e ricordi sono apparsi su tutti i quotidiani italiani.
P. Spriano, Storia del Partito comunista italiano, IV, Torino 1973, ad ind.; A. Vittoria, Introduzione a M. Alicata, Lettere e taccuini di Regina Coeli, Torino 1977, ad ind.; Ead., Intellettuali e politica alla fine degli anni Trenta: Antonio Amendola e la formazione del gruppo comunista romano, Milano 1985, ad ind.; L. Paolozzi, Voci dal quotidiano: l’Unità da I. a Veltroni, Milano 1994; Quel terribile 1956. I verbali della Direzione comunista tra il XX Congresso del PCUS e l’VIII Congresso del PCI, a cura di M.L. Righi, Roma 1996, ad ind.; G. Napolitano, Dal Pci al socialismo europeo. Un’autobiografia politica, Roma-Bari 2005, ad ind.; F. Barbagallo, Enrico Berlinguer, Roma 2006, ad ind.; A. Vittoria, Storia del PCI 1921-1991, Roma 2006, ad ind.; Il Pci e lo stalinismo. Un dibattito del 1961, a cura di M.L. Righi, Roma 2007, ad ind.; L. Barca, Cronache dall’interno del vertice del PCI, 3 voll., Soveria Mannelli 2005, ad ind.; L. Benadusi, «Le riforme sono belle ma quando vengono?». Ingrao e la storia del CRS, in L’Archivio di Pietro Ingrao (2006), cit., pp. 13-40; G. Cerchia, I., dal CRS alla Presidenza della Camera dei Deputati, andata e ritorno, ibid., pp. 41-57; A. Höbel, Il PCI di Luigi Longo (1964-1919), Napoli 2010, ad ind.; A.G. Paolino, I. e gli 'ingraiani' nel PCI da Budapest a Praga (1956-1958), Alessandria 2012, ad ind.; C. Natoli, La sinistra del PCI negli anni Sessanta, in Studi Storici, LV (2014), 2, pp. 449-480; L. Lombardo Radice - C. Ingrao, Soltanto una vita, Milano 2016, passim.
Foto: Archivio Pietro Ingrao