GARZONI, Pietro
Nacque a Venezia il 1° dic. 1645 da Giovanni di Marino, del ramo a S. Samuele, e da Querina Corner di Giovanni di Andrea. La famiglia era di medie fortune, ma per tradizione sensibile al mondo della cultura, e il padre, membro dell'Accademia degli Incogniti e per trent'anni avvocato, si curò di dotare il figlio di un'adeguata istruzione.
Nelle famiglie patrizie era consuetudine che i più capaci si dedicassero alla politica, lasciando ad altro fratello il compito di assicurare la continuità del casato. Ma benché il G. palesasse una spiccata propensione all'arte oratoria, fu lui a essere destinato, in luogo del primogenito Marino e degli altri fratelli, al matrimonio; le nozze avvennero quando il G. non aveva ancora vent'anni: il 21 luglio 1665 sposava Silvia Verdizzotti di Francesco di Carlo, appartenente a una famiglia "cittadina" che proprio in quegli anni giungeva al vertice della burocrazia marciana, ma che solo nel 1667 sarebbe stata ascritta al Libro d'oro del patriziato.
E proprio nei parenti della moglie il G. trovò abile guida nei primi e più difficili passi della carriera politica, che sarebbe risultata piena di soddisfazioni e riconoscimenti, ben oltre quanto fosse ragionevole presumere date le moderate risorse economiche familiari. Il G. si appoggiò al partito delle casate di medie fortune (gli Emo, i Nani, i Da Riva) e si sottopose a un lungo tirocinio nel settore delle magistrature giudiziarie, sulla scorta dell'esempio paterno.
Il 30 dic. 1667, appena ventiduenne, risultava eletto tra gli avvocati per le Corti, carica triennale che tornava a ricoprire il 15 genn. 1671, quindi nuovamente alla stessa data nel 1674, 1677, 1680, 1683; dopodiché, il 4 ott. 1683 veniva chiamato a ricoprire l'avogaria di Comun fino al 3 febbr. 1685 e poi ancora dal 1° dic. 1686 al 31 marzo 1688, esercitando nel frattempo le cariche di savio all'Eresia (10 febbr. 1685 - 9 febbr. 1686), di provveditore del Collegio della Milizia da mar (3 marzo 1685 - 2 mar. 1686), di provveditore in Zecca (4 maggio - 3 ag. 1686), di scansador delle Spese superflue dal 22 apr. 1688 al 5 marzo 1690, allorché riuscì a ottenere la prestigiosa nomina a consigliere ducale per il sestiere di S. Marco fino al 31 genn. 1691. Inquisitore sopra Dazi il 19 maggio 1691, il 1° ottobre dello stesso anno entrava a far parte degli Inquisitori di Stato.
Questo lo collocava tra gli esponenti del governo accreditati di comprovata moralità e attaccamento alle istituzioni; si spiega in tal modo la successiva nomina, il 10 giugno 1692, a pubblico storiografo in luogo dello scomparso Michele Foscarini.
Politicamente la Repubblica stava vivendo l'esaltante stagione della conquista della Morea, dell'ultima vittoriosa guerra contro il Turco, nel corso della quale quattro anni prima un fratello del G., Girolamo, era morto in battaglia. Sarebbe stato, però, il canto del cigno per Venezia, poiché le successive vicende della neutralità armata in occasione della guerra di successione spagnola e poi la bruciante e fulminea perdita dei recenti acquisti greci (1715) avrebbero reso oltremodo arduo il compito di una penna che intendesse coniugare il rispetto della verità con la rituale nobilitazione delle vicende patrie. Il G. iniziò la sua opera con intendimenti onesti: glielo consentivano i successi militari del Levante e la gloriosa morte del fratello, che riversava prestigio su tutta la famiglia; perciò dichiara di ispirarsi al modello di Tucidide (scelta in qualche modo scontata, dato il comune tema della guerra peloponnesiaca, ma caricata dal G. di una ribadita valenza scientifica e morale, benché inquinata da uno stile ricercato e alquanto oscuro); e perciò sarà lui, nella veste di savio del Consiglio, a esigere e ottenere la condanna del capitano da Mar Antonio Zeno, reo d'aver abbandonato Scio al nemico nel 1695 senza battersi.
Finché il G. ebbe a riversare i suoi strali contro i Turchi, nessuno in Senato trovò da eccepire, ma quando prese a usare espressioni che suonavano riduttive nei riguardi del potente alleato viennese, o a denunciare la rilassatezza delle truppe venete o il poco coraggio dei comandanti, allora da più parti sorsero pesanti moniti alla sua persona (è così da intendersi l'elezione, avvenuta il 23 febbr. 1697, a inquisitore in Levante, che lo costrinse ad allontanarsi dalla patria per dieci mesi), insieme con perplessità e riserve sulla ponderosa opera che andava stendendo, e che periodicamente sottoponeva al vaglio dei riformatori dello Studio di Padova. L'opera uscì a Venezia e fu divisa in due parti: la prima, Istoria della Repubblica di Venezia in tempo della Sacra Lega contra Maometto IV, e tre suoi successori, gran sultani de' Turchi, nel 1705; la seconda, Istoria della Repubblica di Venezia, ove insieme narrasi la guerra per la successione delle Spagne al re Carlo II, nel 1716. Proprio la prima parte - più facile a essere accettata, in quanto narrava eventi gloriosi per la Repubblica - fu duramente contestata dai riformatori dello Studio sin dal luglio 1703.
Per molti mesi Federico Marcello, Girolamo Venier e Marino Zorzi tennero nei loro cassetti, lessero, cribrarono le pagine del G. senza consentirne la stampa. In uno scritto apologetico il G. avrebbe poi denunciato tale iniquo comportamento: "Io posso dire", scrisse, "d'aver provato le condizioni de' parti umani, poiché ho conceputo ed organizzata quest'Istoria con piacere, ma nel partorirla non mi sono mancati i dolori. È uso del magistrato di lasciare al segretario l'incomodo di vederle. Hanno SS.EE. non solo voluto decorare la mia con la lettura, ma ripeterla con l'esame diligentissimo di appunto nove mesi. Non era possibile che alla loro gran virtù non paresse d'aver trovato alcun difetto nelle mie imperfette fatiche, quando co' cannocchiali scuoprono le macchie fin nella faccia luminosa del sole". Dopodiché, però, il G. forniva un'accorta spiegazione della censura subita: non affermava che le riserve nascevano dalle critiche rivolte al ceto dirigente, alle strutture, alle istituzioni della Repubblica (censure che avrebbero potuto trovare spazio nei predecessori del G., ma che dovevano essere accuratamente evitate ora che la patria manifestava un'irreversibile decadenza); non accusava insomma la generalità dello Stato, ma prudentemente puntava l'indice contro i singoli, contro privati personali nemici come quel Francesco Foscari fautore dell'impresa di Morea, epperò, a suo dire, invidioso dell'incarico di pubblico storiografo al quale egli pure ambiva.
Per venire a capo della controversia il G. dovette rivolgersi al Consiglio dei dieci, per sua fortuna guidato, nella primavera del 1705, dagli ottimi Alvise Zusto, Pietro Gradenigo e Federico Venier; il 18 maggio di quell'anno costoro emanavano un decreto liberatorio, per consentire finalmente, previo qualche ritocco, la pubblicazione dell'opera, che avrebbe conosciuto un notevole successo editoriale e più edizioni di stampa.
La seconda parte uscì circa un decennio più tardi, e riguardava gli eventi collegati alla guerra di successione spagnola. Non più pagine di gloria per la Repubblica, ora prudentemente al riparo di una neutralità armata che di fatto consentiva ai contrapposti eserciti il passaggio nelle province della Terraferma, con tutti i guasti conseguenti. Questa ricostruzione del G. non suscitò alcuna riserva; non c'era più spazio per scelte ideologiche, contrapposizioni, entusiasmi: di fatto, il patriziato era unanime e lo stesso G. fu tra i primi a caldeggiare la scelta neutralistica. Nella prefazione egli poté ben ribadire i criteri ai quali attenersi: "esatta investigazione de' fatti", espressa con "gravità di stile" e "purità di lingua", anche se poi sarà costretto ad aggiungere fatica a fatica arrancando tra funambolismi lessicali e virtuosismi retorici, tra reticenze e limature per mettere assieme una parvenza di giustificazione per l'inazione veneziana che, alla fine, potrà ascrivere a suo unico merito quello della sopravvivenza dello Stato. Si fermerà qui il lavoro del G., che rifiuterà di proseguire l'impresa oltre il 1714 - le colonne d'Ercole degli storici veneziani -, dal momento che gli avvenimenti da narrare sarebbero stati incentrati sulla perdita della Morea, sentita dai Veneziani come evento dolorosissimo.
Il G. avrebbe scritto ancora, ma privatamente, senza più il desiderio o la speranza di rivolgersi a un pubblico: fra il 1725 e il 1727 stese un saggio, grecamente denominato ΒάσανοϚ (paragone), consistente in una serie di meditazioni sulla struttura costituzionale e sulle peculiarità sociali della Repubblica: considerazioni di un misoneista sfiduciato che lamenta la corruzione del patriziato, l'estinzione delle casate, l'indiscriminata apertura del Libro d'oro a "persone doviziose, ma uscite ancora dall'infima plebe" (la nobiltà "nuova", in palese contrasto con la sua stessa vicenda personale), l'eccessivo divario, infine, tra famiglie troppo ricche o troppo povere nell'ambito della classe politica (perciò nel 1723 aveva vanamente proposto una legge per devolvere allo Stato un terzo del patrimonio delle casate estinte). Finiva per concludere piamente affidando a Dio le sorti della Repubblica: la politica sublimava in morale.
Protrattosi per venticinque anni, l'impegno storiografico del G. fu accompagnato da un'attività politica così intensa e incalzante da renderne faticosa la puntuale descrizione.
Fu infatti provveditore del Collegio della Milizia da mar dall'8 ott. 1692 al 7 ott. 1693; correttore della Promissione ducale nel 1694 e poi a ogni nuova elezione, nel 1700, 1709, 1722, 1732, 1735. Savio del Consiglio per ben 33 volte (nel 1695 e 1696, poi ininterrottamente dal 1700 al 1714, ancora nel 1716 e 1717, quindi tra il 1720 e il 1733), sommando nel corso dell'anno la prestigiosa carica ad altre per lo più di natura economica o finanziaria (provveditore agli Ori e Monete nel 1695 e 1708; revisore e regolatore dei Dazi nel 1696; provveditore in Zecca nel 1702; savio alla Mercanzia nel 1703 e 1704; deputato al Banco giro nel 1709; deputato alla Provvision del danaro nel 1718, 1723 e 1724; deputato al Commercio per molti anni, nel 1709, 1716, 1717, dal 1719 al 1722 e ancora dal 1725 al 1730). Fu inoltre inquisitore di Stato dall'ottobre 1699 al settembre successivo e commissario straordinario in Terraferma nel 1706.
Il testamento, redatto il 14 febbr. 1729, sembra quasi mostrarlo sollevato dalla repentina, recente, scomparsa del primogenito Giovanni, che gli consente di lasciare erede universale l'altro figlio, Francesco, continuatore della casata. Morì nonagenario nel suo palazzo sul Canal Grande, il 24 febbr. 1735.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, M. Barbaro - A.M. Tasca, Arbori de' patritii…, IV, p. 20; Ibid., Avogaria di Comun, Indice dei matrimoni con figli, subGarzoni Giovanni e Pietro; Ibid., Segretario alle Voci, Elez. del Maggior Consiglio, regg. 22, cc. 56 s., 181; 23, cc. 6, 63 s., 229; 24, cc. 2, 6, 118; 25, c. 124; 26, c. 125; 27, c. 124; Elez. Pregadi, regg. 20, cc. 73, 96, 113, 116, 124, 126 s.; 21, cc. 1 s., 4-11, 36, 38, 46 s., 49, 51, 80, 82 s., 86, 88, 97, 102 s., 107, 110, 112, 121, 138-140, 146, 148, 170, 175; 22, cc. 1-7, 47, 55 s., 100, 121 s., 134 s., 154 s., 167; Ibid., Consiglio dei dieci, Miscell. codici, regg. 64, 65, passim; Ibid., Dieci savi alle decime, Redecima del 1712, b. 280/415; Ibid., Notarile, Testamenti, b. 151/96; Ibid., Avogaria di Comun, Miscell. penale, b. 325/26; lettere del G. a diversi, in Venezia, Bibl. del Civico Museo Correr, Mss. Morosini Grimani 546/30 e 468/XXVI; Mss. P.D. 594 C/VII; Cod. Cicogna 3165/41; l'apologia della sua opera e carteggi a essa relativi, in Venezia, Bibl. naz. Marciana, Mss. It., cl. VII, 349 (= 8233): P.G., Lettera… in difesa della Storia da lui scritta…; cod. 2393 (= 11724): Carte relative allo Studio di Padova, cc. 376r-387v; riferimenti biografici anche nella prima parte della sua opera storiografica: Istoria della Repubblica… in tempo della Sacra Lega…, in particolare nella dedica proemiale e alle pp. 634 ss., 638, 696; [P. Garzoni], Dell'acquisto e del ritiro de' Veneti dall'isola di Scio…, Francfort 1710 (silloge di documenti a favore e contro la conduzione dell'impresa); G. Emo, Quindici lettere a P. G.…, Venezia 1883; G. Moschini, Della letteratura veneziana del secolo XVIII…, II, Venezia 1806, pp. 162-166; G. Bellomo, Elogio di P. G.…, Venezia 1817; E.A. Cicogna, Saggio di bibliografia veneziana, Venezia 1847, pp. 77 s.; G. Natali, Il Settecento, I, Milano 1944, p. 386; G. Benzoni, Introduzione, in Storici e politici veneti del Cinquecento e del Seicento, a cura di G. Benzoni - T. Zanato, Milano-Napoli 1982, pp. XLIV-XLVI; Id., Pensiero storico e storiografia civile, in Storia della cultura veneta, 5, Il Settecento, a cura di G. Arnaldi - M. Pastore Stocchi, Vicenza 1986, II, pp. 74 s.; P. Del Negro, Proposte illuminate e conservazione nel dibattito sulla teoria e la prassi dello Stato, ibid., pp. 129 ss.; Collezioni di antichità a Venezia…, a cura di M. Zorzi, Roma 1988, p. 106; R. Sabbadini, L'acquisto della tradizione. Tradizione aristocratica e nuova nobiltà a Venezia (sec. XVII-XVIII), Udine 1995, pp. 89, 93, 97 s., 123, 134, 164, 167; V. Hunecke, Il patriziato veneziano alla fine della Repubblica. 1646-1797. Demografia, famiglia, ménage, Roma 1997, pp. 15, 45, 51, 71, 124, 204 s.