DUODO, Pietro
Nato a Venezia, il 3 maggio 1554, da Francesco di Pietro e da Chiara di Sebastiano Bernardo, adolescente si trasferi a Padova per perfezionarvi la sua istruzione sia seguendo i corsi dei docenti allora più in voga, sia frequentando le "radunanze" allora vivacizzanti la vita culturale della città col loro mescolare i rampolli più promettenti del patriziato marciano (quali i fratelli Andrea e Donato Morosini, Nicolò Contarini, Ottaviano Bon) con dotti e letterati ancora in via di formazione (come Paolo Aicardo, G.V. Pinelli, L. Lollino, Antonio Querengo, Girolamo Frachetta) sotto l'occhio benevolo di Giovanfrancesco Mussato e di Sperone Speroni. Ma è soprattutto il magistero, movimentante Aristotele con innesti e ibridazioni platonici, di Francesco Piccolomini ad impressionare, sin quasi a soggiogarla, la mente del D., che non esita a definire, senza tema d'esagerazione, il maestro "summum nostrorum temporum philosophum". Donde, ad attestare i frutti tratti dalle sue lezioni, i Peripateticarum de anima disputationum libri septem, che escono a Venezia, presso i Guerra, nel 1575, essendovi ristampati, rivisti e ampliati, nel 1587.
Intento della compilazione del D. illustrare, "una cum peripateticorum principe, cunctos animae gradus" riscontrabili "in mortaliuni orbe". Convinzione del D., di contro al deviante commento degli "Arabes" Avicenna e Averroè, purtroppo influenzante "latini plurimi", vada ribadito, "cum graecis" e, appunto, coll'autentico Aristotele, "tres solas esse sententis animae facultates, sensum communem, unaginationem et memoriam". Non c'è che la "recta definitio" per esitare nell'appagante "solutio difficultatum". E i problemi si sciolgono se posti correttamente, se "exacte possunt definiri". Scontata, perciò, l'adesione del D. alla tesi "omnem animae partem quae ad phisicum non pertinet esse sine materia et immortalem". Ciò vale, anzitutto, per la "vis intelligendi" costitutiva della "perfectio hominis".
Certo che - coll'affiancarsi, di li a poco, all'asseverativo trattatello del D. degli Academicarum contemplationum libri decem in quibus et Platonis praecipue sententiae ordinatim explicantur et peripateticorum adversus illum calumniae quamplurimae refelluntur (Venetiis 1576 e, di nuovo, Basileae 1590) del giovane patrizio Stefano Tiepolo di Benedetto nonché dei De habitibus intellectus libri sex (Venetiis 1577) del fratello del D. Andrea, a sua volta formatosi "sub felici disciplina" del Piccolomini - il pensiero del filosofo senese si dispiega ordinatamente e, a scapito dei suoi fermenti più inquieti, scolasticamente non senza il sospetto, nel caso del D. e del Tiepolo, che essi siano stati dei semplici prestanome.
Tant'è che Camillo Belloni, il quale sarà dal 1591 al 1631 docente nello Studio patavino, confida al bibliofilo ed erudito fiorentino Iacopo Gaddi che Piccolomini "edidisse aliquot libros de platonicis vel aristotelicis rebus sub nomine aliquorum nobilium nominatim libris … De anima" del D. e sui "Platonis dogmata" di Tiepolo.Ma la successiva esistenza del D. - come dimostrano le annotazioni, ad imitazione del Sanuto, diaristiche sugli eventi del secondo semestre del 1579, la Relatione d'Affrica, vale a dire sull'Abissinia, stesa nel 1578 sulla scorta di quanto appreso dalla "viva voce di tal Giovanni abissino eremita dell'ordine di s. Antonio", l'inclinazione a verseggiare, la frequentazione di letterati quali B. Guarini, Fabio Patrizi, Antonio Querengo, l'ammirazione per Galilei, l'intendimento di questioni anche scientifiche e matematiche, la competenza del collezionista incettante manoscritti greci, la passione del bibliofilo sempre a caccia di edizioni rare, il gusto per le ricche e preziose rilegature - è cosi connotata anche culturalmente da indurre, quanto meno, all'attenuazione della portata della confidenza. Ipotizzabile, invece, il testo sia stato non già dettato, ma controllato dal Piccolomini e, magari, con questo concertato, si da fornire, colla successiva uscita del trattato del Tiepolo (che col D. condivide le stesse frequentazioni), la risultante non già d'una antitesi tra Platone e Aristotele, ma d'una loro possibile "collatio".
Comunque sia, gli spetti o meno la paternità della dissertazione, la sua pubblicazione - analogamente a quanto capita a Nicolò Contarini di cui esce, nello stesso anno, il volume De perfectione rerum - costituisce un tratto distintivo (cui s'aggiunge il suo far parte del seguito dell'ambasceria straordinaria dell'autunno-inverno del 1575 di Giovanni Michiel per le nozze d'Enrico III con Luisa di Lorena e di quella successiva dello stesso con Leonardo Donà, del giugno-agosto 1577, a Rodolfo II per felicitarsi per la successione e, nel contempo, per condolersi della scomparsa del padre) per il suo esordio del 1579 nella vita politica come savio agli Ordini (ma non va confuso col più anziano omonimo capitano a Soave nel 1574), nella quale veste stende, nel novembre del 1580, una relazione sullo statcr dell'Arsenale. Ed è di nuovo savio agli Ordini quando, il 2 nov. 1584, viene eletto membro dell'ambasceria straordinaria di sei patrizi - e tra questi figura pure suo fratello Alvise - a Carlo Emanuele I per porgergli i rallegramenti della Serenissima per le allora preannunciate nozze, dell'11 marzo 1585, con la figlia di Filippo II, Caterina.
In ottemperanza all'istruzione senatoria del 28 agosto, il D., coi colleghi, parte ai primi di settembre e, fatta sosta a Milano dove il 13 visita il governatore, passando per Alessandria e Villanova, si ferma a Chieri in attesa il duca si ristabilisca. Ricevuto a Torino ai primi d'ottobre, finalmente può dirgli quanto Venezia "si rallegrava del suo felicissimo matrimonio", caldamente ringraziato dal duca cui è "molto" cara questa "demostratione d'amore". Trattenuto da lui a "disnar seco" e "in dolci et piacevoli ragionamenti" e, quindi, invitato a partecipare alla caccia al cinghiale, solo il 10 il D. può lasciare Torino.
Savio di Terraferma, il 5 maggio 1592 il D. è nuovamente preposto a un'ambasciata straordinaria, in questo caso composta di otto nobili (e, ancora una volta, compare il fratello Alvise) e incaricata d'esprimere al re di Polonia, Sigismondo III Vasa, e le felicitazioni per il suo insediamento e le congratulazioni per le nozze prestigiose con la cugina dell'imperatore Rodolfò II Anna d'Austria, figlia del defunto duca dell'Austria Interiore, Carlo.
Messosi subito in viaggio, il 15, pur col ritardo provocato dalle "escrescentie dell'acque della Brenta et del Cismon", il D. è a Trento donde il 20 raggiunge Innsbruck e di qui, dopo una sosta, Vienna in quattro giornate e mezzo di cammino. Dopo di che, con altre sette giornate di viaggio reso difficoltoso dalle piogge continue e dalle o cattive strade", arriva attorno al 12 giugno a Cracovia, il giorno successivo alla celebrazione delle nozze. Solennemente accolto, come scrive il 20, da Sigismondo III assiso "sotto il baldacchino" e con ai lati i pricipali dignitari laici ed ecclesiastici, il D. si complimenta con lui. Partecipa, quindi, il 26, ad uno sfarzoso banchetto, sedendo "dirimpetto alla regina zia". Unica ombra durante la complimentosa missione il "travaglio" regio, comunicatogli tramite un segretario, per la recente soppressione dell'insegnamento gesuitico a Padova, proprio quando "molti nobili" rampolli polacchi "venivano in quella città per esser educati dalli suddetti … padri gesuiti", venendo cosi "costretti" ad "andar altrove". Ma il D. non può che sostenere l'irrevocabilità del decreto e ribadire come lo Studio dia tutte le garanzie per un'accurata formazione. Recando con sé il diploma di cavaliere elargitogli da Sigismondo e una tinformatione" ventilante la possibilità d'avviare, da parte polacca, una grandiosa fornitura annua tra i venti e venticinquemila "bovi", fattibile a buon prezzo, purché si provveda alla "spesa" per "condurli" in terra veneta, il D. parte il 27, è a Vienna il 7 luglio e di lì - per la via più breve della Stiria Carinzia Friuli - ritorna a Venezia, latore dei sentimenti d'"amicizia" del re e del suo desiderio di poter contare su d'una rappresentanza stabile veneziana presso la corte.Politicamente ormai collaudato, il D. è, ora, meritevole d'incombenze più impegnative. Nominato, il 14 maggio 1594, ambasciatore ordinario in Francia, parte, avuta la relativa commissione del 7 ottobre, a fine mese, cogli ambasciatori straordinari Vincenzo Gradenigo e Giovanni Dolfin, a quella volta. Passando il 1° novembre per Milano, il 6 per "Ligorno, terra del … duca di Mantova nel Monferrato", e lasciando "da parte" Torino, il 22 entra, coi compagni, a Grenoble accolto da salve d'artiglieria e da festosi scampanii e costretto a trattenervisi sino al 20 dicembre in attesa di un'adeguata scorta per fronteggiare i pericoli del proseguimento. A Lione, anche qui ricevuto con ogni onore e ospitato con ogni riguardo, il 22, solo il 13 genn. 1595 può ripartire diretto a Saint-Pierre Le-Moutier che raggiunge il 21, per poi, con "4 giorni" di "barca", spostarsi nei pressi di Parigi e farvi, all'inizio di febbraio, l'ingresso solenne "in carrozza", salutato da cannonate e suono a distesa di campane e da applausi di folla entusiasta che, festeggiando l'ospite, quasi dimentica, per un giorno, le sofferenze cui la sottopone una guerra che continua devastante e distruttiva.
Doveroso d'altronde, e, perciò, promosso dall'alto, il festeggiamento eccezionale riserbato al D. che rappresenta Venezia la quale, riconoscendo per prima la legittimità dell'insediamento del Navarra, sta dando un impulso decisivo alla soluzione della crisi. È anche merito, infatti, delle pressioni venete su Clemente VIII se il D. può scrivere, il 23 dicembre, al Senato che "arrivò finalmente … questa settimana il signor Alessandro dal Bene con la bolla dell'assolutione di Sua Santità". Una premessa per il ripristino della pace, purtroppo non ancora a portata di mano. E il D. - che informa minuzioso dell'andamento bellico sui vari teatri, della "resa di Beona" e della "cittadella di Cambray", della perdita d'Amiens e del suo recupero dopo lungo assedio, che si dilunga sulle difficili trattative col Savoia, che elenca "prosperi successi" e avvilenti insuccessi, che è attento agli acquartieramenti e agli equipaggiamenti, che non ignora gli "incomodi e le insolenze" subite dalle popolazioni, che scruta il "pensiero" del re, che cerca d'intuirne questo o quell'"occulto disegno" - ha buon gioco, in una situazione di dilagante generale stanchezza ("sono hormai … cosi stanchi - avvisa ancora il 28 ott. 1595 - delle guerre … et il paese è cosi distrutto" che persino i militari di professione bramano la fine del conflitto) e di collasso finanziario (i "ministri sudano e s'affaticano", rimarca il 1° giugno 1595, per placare le proteste delle milizie senza paga; e i "raitri", Cosi, il 28 dicembre, "ogni giorno" reclamano perché non "sodisfatti delli crediti" di loro spettanza), nell'incitare Enrico IV in tal senso. La pace, ripete più volte, è il "maggior bene" della Cristianità e "non può venir da altri" che da lui e da Filippo II.
Preso congedo alla fine d'ottobre dal re - che con diploma del 3 sett. 1597 l'autorizza ad inquartare nello stemma di famiglia lo scudo di Francia e di Navarra - il D., il 3 novembre, "incaminandosi per la via di Lione e di Turino", lascia Parigi alla volta di Venezia, dove, il 12 e 13 genn. 1598, legge la sua lunga ed elaborata relazione al Senato.
Evidente in questa e dichiarato l'intento di offrire un "ragionamento" ruotante attorno a "due termini": il "regno", ossia la nazione nella sua entità geografica e nel suo spessore storico, e il "principe", ossia l'azione direttiva sul primo esercitata, nella convinzione che Enrico IV, a mo' di "unica fenice … nato tra le ceneri" di quello, sia "quel solo" in grado, "con la forza e con il consiglio", di restituire alla Francia "la speranza … smarrita" tra gli "orribili e mostruosi successi" delle "sanguinosissime guerre civili", di riportarla al "pristino splendore". Sono, infatti, potenzialmente "eccellenti" le "condizioni" di quel "bello, nobile e grande paese". Ma per la rinascita occorre la tranquillità operosa d'un lungo periodo di "pace". Il re, comunque, il D. ne è persuaso, nella sua "grandissima prudenza", pur tra immani difficoltà, si sta muovendo nella direzione giusta: quanto meno è riuscito a ricompattare un "regno" già del tutto "disconcertato e diviso", a reintrodurre un minimo di ordine in un coacervo di "cose confuse e disordinate". Certo che si sta prodigando sino allo spasimo, in un'esistenza logorante amareggiata da continui "disgusti", insidiata da continui "pericoli". Unico sollievo, intimo, "l'amore" per "la marchesa di Monceaux, ora duchessa di Beaufort", la sola privata "debolezza" tra le "tante" sue "illustri virtù", unica ombra "d'imperfezione" nello "splendore" perentorio di quelle, quasi minuscola macchia nel candore della "luna". D'altronde, circondato com'è "da gente tanto interessata", la "duchessa" è la sola alla quale s'azzarda a "comunicare i più intimi e reconditi affetti del cuor suo". Ed essendo essa, oltre che avvenente, "savia e prudente", non si ingerisce nelle faccende di Stato, non pretende "alcun maneggio delle cose pubbliche", sicché finisce per svolgere un ruolo positivo permettendo spazi di serenante privatezza alla vita, altrimenti solo stressante, di quello che il D., senza tema d'errare, ritiene "gran capitano" e "gran re", senza "pari" nella "cristianità" tutta e non solo al presente, ma "da un pezzo". E va da sé che "l'animo" d'Enrico IV "verso" la "Repubblica" è "ottimo", se non altro per gratitudine, ché Venezia ha "sempre accompagnate e secondate le sue fortune".
Benemerito per "le fatiche … il valore et diligenza" prodigati durante l'ambasciata di Francia con grande "vantaggio" della "patria", il D. è, sul finire del secolo, un patrizio autorevole ed affermato. Savio di Terraferma, da una sua lettera dell'inizio del 1598 al generale Giovan Battista Del Monte risulta interessato all'equipaggiamento ottimale della cavalleria, tutt'altro che digiuno di questioni militari, in grado di valutare la portata dell'adozione delle armi da fuoco, capace di soppesare i vantaggi e gli svantaggi del mantenimento o meno della lancia. Nello stesso anno è incaricato, con Nicolò Sagredo, di sondare l'atteggiamento del patriarca di Venezia Lorenzo Priuli nei confronti della scomunica brandita da Clemente VIII contro Cesare d'Este e fa parte del nutrito gruppo di senatori rossovestiti scortanti, il 21 luglio, l'allora vescovo di Rennes e futuro cardinale Arnaud d'Ossat all'udienza dogale. Eletto, ancora il 31 luglio, rappresentante della Serenissima alla corte imperiale, solo dopo l'istruzione senatoria, del 26 luglio 1599, puo avviarsi, il 16 agosto, a quella volta.
Lento il viaggio, ché, giunto ad Innsbruck il 24 agosto, il 28 scrive da Linz "esser il camino" verso Praga "infetto", sicché "è impossibile il passare et alloggiare se non in luoco appestato". Donde, a scanso di rischi, il trasferimento a Vienna dalla quale parte il 3 novembre per Rokycany dove, come scrive al Senato il 13, attende l'udienza imperiale concessagli, il 18, a Pilsen, nella quale Rodolfo II, atterrito dall'attecchire dell'epidemia a Praga, è riparato ancora in settembre.
Insediatosi a Praga il 1° dicembre, al D. non resta che registrare l'impressione spettrale d'una città svuotata, intristita per l'"assenza della corte", dove tra i rimasti, per lo più "gente meccanica", l'epidemia, sia pure in fase di rientro, continua a mietere ogni giorno qualche vittima. Occorre attendere la primavera inoltrata del 1600 perché la capitale si rianimi, "consolata" dal ripresentarsi di nutti li ministri" e, soprattutto, dal rientro dell'imperatore del 10 giugno, a proposito del quale il D., piuttosto sconcertato, annota come, lasciata Pilsen il 4, abbia rallentato "nel camino per prendere con le caccie qualche poco di ricreatione".
Comunque sia, la presenza fisica non significa riassunzione, da parte di Rodolfo II, effettiva dei suoi doveri di governo. Preda della "melanconia", aveva avvertito il D. ancora il 20 marzo, s'abbandona ad escandescenze, a gesti inconsulti, violenti sicché parecchi "servitori" lo lasciano, sicché rimane "con pochissima servitù". Segue un periodo in cui "sua maestà" pare "tranquillata nell'animo", ma dura poco ché l'8 ottobre il D. avvisa che "le cose si sono tornate ad intorbidare" per la ripresa, non contrastata da alcun "medicamento", d'una "estraordinaria melanconia" che lo rende incapace di decidere, che inceppa, di conseguenza, il normale svolgimento delle disposizioni. La corte s'arresta, come paralizzata. La malinconica depressione imperiale, scrive il D., "fa che tutte le cose stiano irresolute et, se bene il consiglio risolve, non potendosi pero esseguire senza la sua volontà, tanto è quanto se non fosse consigliato". Inoltre - constata il D. in altre lettere - nel timore di suoi eccessi di furore, di sue crisi isteriche, non gli si mostrano le lettere a lui indirizzate, neanche quella dove Filippo III, preoccupato per le "cose di Canisa", gli offre il suo aiuto.
Strana capitale Praga: vi affluiscono corrieri, agenti, legati, spie, avventurieri, vi rimbombano notizie da tutte le parti, gli "avisi" vi si succedono incalzanti, ma nessuno decide, nessuno risolve, nessuno si assume responsabilità, un ministro rinvia all'altro, la corte stessa imperiale rimanda alla competenza di quelle arciducali, e da queste la questione ritorna irrisolta a Praga. Frastornato il D. dall'imperversare d'un turbine di informazioni poco attendibili, sempre suscettibili d'essere disdette. "Gli avisi … di Transilvania - constata scoraggiato - sono tra se stessi cosi poco concordi che non ardisco alcuna cosa più di certo". Non sa fino a che punto prestar fede a "persona principale" e sua "confidente". Troppo poche le volte in cui può dire d'essere "informato da assai buon luoco". Incancrenisce, nel frattempo, l'annoso "negotio di Segna", ossia la legittima richiesta veneziana di "tener gli uscocchi nelli debiti termini", nell'elusivo palleggio tra le competenze dei singoli ministri, nel continuo rimbalzare della questione tra Praga e Graz, mentre vane risultano le pressioni su entrambe le corti della pur volonterosa diplomazia pontificia. Non c'è speranza per il D. d'addivenire ad una rapida "conclusione di questo affare". Ma ciò vale in generale - si consola il 12 giugno 1600 - "al presente, dove ogni negotio cade quando non sia sostentato da qualche altro più particolare interesse…, come sanno" quanti, a Praga, "hanno havuto et tuttavia hanno negotii gravi". Il D. s'ostina a parlare pressoché ogni giorno dei tormentoso "negotio delli uscocchi", ora con qualche funzionario o ministro cesareo, ora col nunzio, ora con altri rappresentanti diplomatici; e s'incontra, pure., in proposito col vescovo di Segna Marcantonio De Dominis. Ma da tanti colloqui non ricava alcun frutto. Anche per questo l'udienza di congedo, del 7 ott. 1602, è per lui un sollievo e di buon grado parte, col titolo di conte palatino rilasciatogli, il 1° novembre, da Rodolfo II, da Praga, per Venezia, dove, ancora all'inizio del 1600, è stato eletto savio del Consiglio.
Nominato, il 21 maggio 1603, ambasciatore straordinario a Giacomo I e per complimentarsi con lui dell'assunzione al trono recente e per caldeggiare, sia pure con cautela e con rispettoso riguardo, condizioni non vessatorie per i cattolici, il D. s'accinge sollecito al viaggio coll'ambasciatore (destinato a diventare ordinario) Nicolò Molin, una volta munito della commissione del 29 agosto.
Già il 10 settembre, infatti, è a Brescia dove, separatosi dal collega che prosegue per la Germania, prende "la stradda" di "Franza". A Milano l'11, dove, nella visita di cortesia al governatore Fuentes, l'irrita la sussiegosa spocchia di questo che l'attende non sulla soglia ma nel mezzo della sala, è più riverito a Torino pranzandovi, il 21, col duca. Quindi, per la Savoia ancora "in pessimo stato" per le belliche devastazioni, a fine mese raggiunge Lione e di li, per Orléans, il 12 ottobre Parigi. A Rouen il 3 novembre, il 6 è a Le Havre, dove, fattosi il vento favorevole, salpa il 16 sbarcando, dopo "20 hore" di traversata, a Portsmouth e ricongiungedosi, il 19, a Southampton col Molin e con questo venendo poi sistemato a Salisbury.
Cordiale con entrambi il re sin dall'udienza, dei 30, a "Vithon", un "villaggio" poco discosto ove "sua maestà si trova in un palazzo del conte di Pembruck". Ed è con "sommo contento" che D. e Molin, l'8 dicembre, annunciano come egli abbia ordinato d'incarcerare quei "corsari inglesi" che di recente "hanno depredato alcuni vasselli di sudditi veneti".
Ripartito il 13, il D., il 22, è di nuovo a Le Havre e. ripassando per Parigi - qui il nunzio Innocenzo Del Bufalo s'affretta a scrivere a Roma, l'11 genn. 1604, come il D. sia entusiasta di Giacomo I: "quel re", pensa il D., "è pieno di bontà naturale et cortesia", è "spiritoso", "garbato", affabile, generoso (al D., precisa il nunzio, ha donato una "catena gioiellata" del valore di 2.000 scudi ed un'altra, di minor pregio, al suo segretario) col solo difetto dell'"anglicanesimo", non tale però da inficiare l'imminenza della "pace" colla Spagna (per la quale s'adopera, coi suoi sontuosi banchetti e coi suoi donativi l'ambasciatore spagnolo a Londra e verso la quale spinge il fatto che Giacomo I non ha "un soldo") e da fargli perseguitare i cattolici, i quali, prevede il D., sotto di lui "viveranno quietamente" - e per Orléans, il 28 gennaio è a Lione. Qui sosta sino all'inizio di febbraio, raggiungendo, poi, Torino il 17.
Eletto, il 4 febbr. 1605, consigliere per il sestiere di S. Marco, savio del Consiglio, commissario ai confini nel Vicentino, il D. - annullata, per la morte repentina, del 27 aprile, del destinatario, l'ambasciata straordinaria, di congratulazione e, insieme, di "obbedienza" al neopapa Leone XI, alla quale è stato, con altri tre prestigiosi patrizi, preposto il 9 aprile - l'8 luglio si ritrova inserito, a sostituzione di Francesco Vendramin nel frattempo eletto patriarca, in analoga ambasciata, sempre di quattro membri, al successore del defunto, Paolo V. Donde la sua partecipazione, in novembre, alla breve missione romana che, per quanto ridondante d'espressioni di rispettosissima riverenza, non vale a rallentare la determinazione, ancora implicita, del nuovo Pontefice di fronteggiare, una volta per tutte, la prassi giurisdizionalistica veneta. Comunque il D. rientra personalmente soddisfatto, ché porta con sé un breve papale, del 12 novembre a favore suo e della sua famiglia.
Si concede, con questo, infatti, l'indulgenza perpetua alle erigende (e i lavori inizieranno nel 1606) sei cappelle intitolate ai santi delle basiliche romane e alla chiesetta votiva di S. Giorgio, le prime lungo il viale d'accesso e la seconda in cima al colle monselicense, acquistato da suo padre e dal fratello di questo Domenico, accanto alla villa padronale dei Duodo. Progettista del tutto Vincenzo Scamozzi, l'architetto già ristrutturante il palazzo domenicale a S. Maria del Giglio, già al seguito del D. nell'andata a Praga, che, cosi, asseconda il desiderio del D. di trasformare la villa da involucro per la villeggiatura e le correlate esigenze di raccoglimento studioso e devoto (a tal fine bastava una sola cappella) ad imperiosa risemantizzazione, gentilizia e sacrale insieme, del colle. Sicché, proprio in quella Monselice dove la famiglia ha il grosso delle sue proprietà - consistenti queste in vari immobili a Venezia, specie a S. Maria del Giglio e a S. Angelo, in botteghe a Rialto, in case e appezzamenti, oltre che a Monselice, presso Mestre, a Conselve, presso Cologna, a Mogliano (e il D., prosecutore della linea paterna, tende a incrementarle con ulteriori acquisti di fondi) - l'assieme, col suo suggestivo addobbo devoto, assurge a via sacra, a santuario, a "via romana", a sacro monte, a visualizzazione architettonica della "romana religio". L'autocelebrazione della famiglia patrizia si coniuga coll'assunzione d'una missione di propaganda religiosa, non senza implicita polemica col dilagare d'atteggiamenti anticurialisti tra le file della classe dirigente, specie tra i cosiddetti "giovani", rispetto ai quali il D., come già suo padre, prende le distanze. Il dominio padronale, attestato dalla villa, colle cappelle e colla chiesa garantite dall'indulgenza, si carica d'enfasi sacrale agganciata - quasi scavalcando le scelte politiche del momento - al magistero della Roma papale, ritmata da una devotio controriformista.
Comunque sia, siffatta vistosa riconfigurazione del colle di Monselice mirante a una sacralità visualizzata con sapiente eloquenza e un programma che, avviato nel 1606, concerne l'avvenire. Pel momento il D. non può sottrarsi al coinvolgiinento nell'inasprirsi dei rapporti veneto-pontifici ormai prossimi alla rottura. Ed è, forse, proprio la sua notoria propensione a una posizione morbida verso la S. Sede a farlo designare, il 18 febbr. 1606, ambasciatore straordinario a Roma, nella speranza che, proprio perché non sgradito a Paolo V, possa, a sua volta, persuadere il pontefice ad ammorbidire l'intransigenza che sta dimostrando. Ma, una volta a Roma, le udienze del 28 marzo e del 14 aprile - nell'intervallo tra le quali il D. e l'ambasciatore ordinario Agostino Nani s'affannano a contattare ben ventisei cardinali i quali suggeriscono che dev'essere Venezia la prima a fornire un concreto segnale di "qualche ragionevole accomodamento" - non servono che a ribadire l'inconciliabilità delle due posizioni, quella di Venezia e quella di Paolo V, laddove né le prima ne il secondo intendono rinunciare alla piena affennazione del rispettivo punto di vista.
A nulla serve il D. esibisca, con la sua presenza, "nuovo testimonio d'ossequio", se non è latore d'un preannuncio d'attenuazione, se non di revoca, dei provvedimenti giudicati dal papa indebiti, delle leggi da lui ritenute lesive dei diritti ecclesiastici. Il D. al papa, desideroso di "fatti" tangibili e non di "parole", non può, con suo intimo cruccio, venire incontro, contenendosi "nei limiti prefissi" dalla "commissione" senatoria, la quale "non contiene alcuna cosa di nuovo, ma solo parole più volte dette da … Nani", l'ambasciatore ordinario. Prigioniero d'un rigido mandato il D., senza spazio di manovra, senza margine di trattativa e, per di più, stando a suoi sfoghi confidenziali, sabotato dall'ambasciatore ordinario (che, militante nel campo a lui avverso dei "giovani", anche nel piglio è ben diverso) il quale, a suo dire, avrebbe "si mal condotto il negotio", prima del suo arrivo, "che a ridurlo in miglior conditone fora stato anzi suscitar morti che guarir infermi". E al D. - che, per quanto si reputi buon medico, si sente incapace di miracoli - non resta, alla fine d'aprile, che congedarsi, mentre a Roma si sta addirittura ventilando l'ipotesi d'una guerra, tramite, soprattutto, le armi spagnole, contro la Repubblica ribelle al papa, quando già Paolo V ha annunciato in concistoro la pubblicazione dell'interdetto, e questo è già stato affisso a S. Pietro.
Rientrato a Venezia, ove risulta nuovamente savio del Consiglio, è coi patrizi più preoccupati dello scontro in atto con Roma, più ansiosi d'una riconciliazione a tutti i costi, a qualsiasi prezzo. E il D. è, pure, tra quelli che con maggiore sollievo salutano la fine della contesa e il conseguente ripristino dei normali rapporti diplomatici. Solo se in sintonia con Roma - nella sua concezione antitetica a quella espressa dai patrizi più segnati dall'influenza sarpiana - la Serenissima è fedele alla sua più autentica essenza, è ancora suscettibile di compiti storicamente fecondi, altrimenti tradisce la sua vocazione, altrimenti si discosta dal solco della sua più positiva tradizione. Snaturante e, anche, delegittimante l'antitesi colla S. Sede, dunque, per il Duodo.
Eletto, il 4 febbr. 1607, capitano di Padova, dopo l'"ingresso" del 15 luglio, dà prova di buona conoscenza di leggi e statuti, emana tempestive disposizioni e "terminationi", sovrintende "ogni giorno in persona" all'"opera dell'escavatione delle fosse et della costruttione delli spalti e parapetti sopra la muraglia", rassegna le "bande di gente d'arme", rinnova l'antico costume della corsa dei cavalli, fa infoltire l'alberatura intorno alla città, si preoccupa di migliorarne la viabilità interna ed esterna.
Ma la dimora patavina del D. non si risolve esclusivamente nell'esercizio scrupoloso della carica, ché gli dà anche modo d'un più stretto rapporto con G. Fabrici d'Acquapendente - questi, "affetionato alla … casa" dei Duodo, "diede" al D., come confiderà un suo nipote al Galilei nel 1637, "il vero segreto delle sue pillolle, che perciò ogn'anno ne facciamo fabricare in casa con l'aloe lavato in suco di rose" - e col Galilei, insegnante privato di due suoi "nepoti", figli del fratello Alvise. è preoccupazione del D. che essi si applichino con costanza su di un ben preciso programma: "credo sia bene", scrive al Galilei, "proseguir l'opera fino alli sei libri d'Euclide, per spalancar loro le porte a tutte le sorte delle matematiche". All'affettuosa sollecitudine per l'istruzione dei nipoti, che il D. - celibe e senza figli - segue come un padre, s'accompagna in lui la preoccupazione dell'uomo pubblico per la qualificazione della nobiltà padovana si che anch'essa possa, virtualmente, essere utile alla Serenissima. Questo lo scopo dichiarato dell'Accademia Delia da lui fondata, ché i sessanta gentiluomini della miglior nobiltà locale radunatisi, per sua volontà, il 7 febbr. 1608 per costituirla, intendono, appunto, "rendersi habili a servire" la Repubblica addestrandosi "negli essercitii cavallereschi" tramite l'insegnamento stabile "di un cavallerizzo et d'un maestro d'armi", nonché d'un "matematico", ché, come il D. raccomanda, le "scienze matematiche" fanno parte integrante delle "cognitioni" richieste al "perfetto cavaliere et soldato". E specifica perché: l'"aritmetica" serve "per l'uso delle ordinanze"; la "geometria e la stereometria" valgono per le misurazioni; la meccanica è indispensabile ad un uso consapevole di "machine et instrumenti". Né, a suo avviso, l'insegnamento dev'essere solo teorico, ma aprirsi alla "prattica delle artiglierie", alla "cognitione della bussola", all'"uso" della strumentazione per misurare, al disegno e alla prospettiva, all'"architettura militare", a questioni di tattica e strategia. Sua ambizione quella di fare dell'Accademia, come ricorderà Ingolfo Conti, primo lettore di matematica in quella, un autentico "seminario di capitani". Donde il suo preoccuparsi perché sia strutturata da "leggi", disponga d'una "fabrica" per le esercitazioni - e già il 4 aprile affida a un "muraro", per l'esecuzione, appositi "disegni" di Scamozzi - sia garantita da "entrate". E, a quest'ultimo proposito oltre a sovvenire generosamente col "proprio denaro", ottiene dal Senato il contributo duraturo del 10% delle "condanne" pecuniarie "che si facevano in Padova et nel territorio padovano". Certo, a suo dire, il "buon frutto"; ma le spese non sono di lieve entità, se non altro per stipendiare il "cancelliere", il "trombetta" ed altri "ministri", nonché, soprattutto, il maestro d'equitazione che pretende 700 ducati all'anno mentre il matematico s'accontenta di 400 ducati. Né basta la quota d'iscrizione, che non può essere molto elevata dal momento che la maggioranza degli accademici è di "stretta fortuna".
Lasciata Padova il 1° genn. 1609 "con non poco dispiacere della città", cosi in una lettera del 16 di Pignoria a Paolo Gualdo, "che amava" il suo "splendore e 'l trattat alla grande", è eletto, il 4 settembre, riformatore allo Studio della stessa. Dolorosa per lui la partenza del Galilei: "sappia", gli scrive commosso, che s'è "portato via il nostro" cuore. sicché a Firenze "ci siamo anche noi". E di li a non molto muore, nel palazzo veneziano di famiglia, il 4 nov. 1610, "de febre" durata diciotto giorni.
"è morto" il D., scrive dispiaciuto il nunzio Gessi il 6, "persona honoratissima". Una definizione che dice quanto, da parte romana, si sia contato su di lui, appena reduce dalla vittoriosa opposizione capeggiata, nell'estate dello stesso anno, contro l'allargamento della cittadinanza veneziana, auspicato soprattuto da Nicolò Contarini, anche agli "esteri" di "diversa religione e costumi", permettendo, in tal modo, l'inserimento - per il Contarini economicamente riattivante - d'operatori e mercanti olandesi. E si temono gli immediati riflessi della sua scomparsa, ché il posto vacante di riformatore allo Studio potrebbe toccare "a qualcuno - cosi sempre il nunzio - che, in compagnia" d'Agostino Nani e Nicolò Contarini, entrambi su posizioni anticuriali, fosse "disposto a dare lettura" a Giovanni Marsilio, già "teologo" per la Repubblica all'epoca dell'interdetto e, per questo, scomunicato. Evidente che, sinché vivo, il D. a ciò s'è opposto. Ed è addolorato della sua morte anche Paolo Gualdo che, il 29 dicembre, informa il Galilei come "qui", a Padova, "abbiamo quest'anno uno studio assai sgangherato", anche perché "certa riforma lasciata" da D. "intorno al leggere", è, lui scomparso, "affatto svanita". Pure i Delii piangono, orfani del loro "fondatore et padre", come recita l'orazione funebre del matematico I. Conti. Gli sopravvive, comunque, l'accademia, la cui vita duratura, anche se non sempre brillante, renderà costante il ricordo del suo nome, come del pari ne ravviverà costantemente la memoria la "religiosa metamorfosi" dei "montuoso recinto" monselicense "in un theatro di divotione", che, ricco "del pretioso tesoro d'indulgenze", col suo percorso scandito dalle cappelle e concluso dalla chiesetta, funge da "guida" per "infiniti fedeli" ricalcanti le "orme" della "pietà" del Duodo. Cosi, alla fine dei Seicento, il francese C. Freschot, impressionato dalle "benedittioni" e dalle "preghiere" dei fedeli risalenti il colle, sacralizzando il quale, in effetti, il D. s'è, in certo qual modo, stralciato dal vivo delle tensioni veneto-pontificie e immesso in una dimensione diversa.
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G. Benzoni