CRESCENZI, Pietro de' (Pier, Petrus de Crescentiis)
Agronomo, nato a Bologna verso il 1233, morto nella stessa città verso il 1320, autore dell'Opus ruralium commodorum (Liber cultus ruris), composto tra il 1304 e il 1309 e considerato il più importante trattato di agronomia medioevale.
Tradizionalmente la data di nascita del C. è fatta risalire al 1233, ma tale indicazione non trova conferma esplicita nelle fonti. Il solo dato certo al riguardo è fornito dallo stesso C. che al momento di terminare il suo trattato si dice "septuagenarius". E poiché il trattato può essere attribuito con la massima approssimazione agli anni 1304-1309, ci si deve limitare a fissare la data di nascita del C. nel decennio tra il 1230 e il 1240 e più verosimilmente al suo inizio. Il C. apparteneva con tutta probabilità ad un'antica famiglia di "popolani" di Bologna, anche se è azzardato risalire, come ha fatto il Monti, fino al Crescenzio di Giambuono, attestato a Bologna in un contratto enfiteutico del 1102. Ebbe, come egli stesso ricorda, una formazione culturale varia. Avrebbe studiato a Bologna la logica, la medicina, le scienze naturali e soprattutto il diritto. Pur senza conseguire il dottorato (contrariamente all'opinione di G. Livi), approfondì gli studi giuridici fino al punto di comparire in due documenti notarili del 1268 con il titolo di "iudex".
In qualità di giudice e assessore accompagnò parecchi podestà nel corso della loro carriera itinerante. Nel secondo semestre del 1268 fu scelto come assessore da Nerio di Rainerio de' Guezzi, nobile bolognese eletto podestà di Ravenna. Nel maggio dell'anno seguente lo ritroviamo accanto ad Alberto degli Asinelli, podestà di Senigallia. Nel corso del primo semestre del 1271 seguì Galeotto de' Lambertini, podestà in Asti. Nel 1283 fu al servizio di Guglielmo de' Lambertini (fratello o cugino del precedente), divenuto podestà di Imola. Fu ancora al seguito di Guglielmo de' Lambertini nel 1286, quando fu eletto podestà di Ferrara, e nel primo semestre del 1287, quando Guglielmo svolgeva a Pisa le funzioni di vicario del conte Ugolino della Gherardesca. Successivamente, nel 1292, fu giudice ed assessore di Rizardo de' Artenisi, eletto capitano del Popolo a Brescia. Passò, poi, il secondo semestre del 1293, per la seconda volta, a Imola come assessore del nobile bolognese Bittino Piatesi, eletto podestà di quel Comune. A Imola svolse attività consulente: numerosi e importanti consilia da lui pronunciati dal 1293 al novembre del 1295 sono conservati nell'Archivio comunale di quella città (Sighinolfi). Da un contratto notarile del 2 giugno 1298 sappiamo che, poi, egli si impegnò a seguire come assessore, durante il secondo semestre di quell'anno, il nobile Conte di Lambertino Ramponi che era stato designato come podestà di Piacenza.
Certamente questi dati biografici, per quanto precisi e relativamente numerosi, non esauriscono tutta l'attività itinerante del C. nel corso del trentennio che va dal 1268 al 1298.Egli stesso ricorda in effetti nella sua opera di aver compiuto osservazioni agronomiche nei dintorni di altre città (Ancona, Bergamo, Chioggia, Cortona, Cremona, Cesena, Forlì, Mantova, Milano, Modena, Padova, Pistoia e Verona), nelle quali si può supporre che abbia esercitato le funzioni di giudice o di assessore. Contrariamente a quanto vorrebbe una tradizione, accreditata da studiosi moderni sulla fede del Tiraboschi, si deve escludere che il C. sia stato costretto a questi trent'anni di assenza da Bologna dalla sua appartenenza alla fazione ghibellina e al partito dei Lambertazzi, cacciati dalla città e costretti all'esilio dal 1274 al 1299. Parecchie tracce della sua presenza occasionale a Bologna sono, infatti, reperibili nei Memoriali notarili locali degli anni 1270, 1273-75, 1277, 1279, 1281-83 e 1286. Inoltre, la cedola di dichiarazione della sua proprietà immobiliare, che egli compilò per l'estimo del 1296-97, rivela un patrimonio solidamente impiantato e costituito da acquisti successivi e giudiziosi di terre - e case, sia a Bologna sia nel contado, intorno alla sua villa suburbana di Villa dell'Olmo, sita nel territorio di Urbizzano (oggi Rubizzano, frazione di San Pietro in Casale, presso Bologna). In nessun momento il C. figura come "fuoruscito", anche se le frequenti assenze, dovute alla sua attività, lo obbligarono a rilasciare procura ai suoi fratelli per regolare diversi affari privati, come avvenne nel marzo del 1278 e nel giugno del 1280.
A partire dal 1298 il C. sembra essersi definitivamente ritirato dalla vita pubblica. Divise allora il suo tempo tra Bologna e la sua residenza rurale di Villa dell'Olmo. Approfittò soprattutto di questo otium ben meritato per compilare la sua opera agronomica che egli dice di avere iniziato per invito insistente di un suo amico, il domenicano Aimerico Giliani da Piacenza, maestro generale dell'Ordine. Se si considera che fra' Aimerico fu eletto maestro generale nel capitolo generale di Tolosa del 1304 e che Carlo II d'Angiò, al quale il C. indirizzò l'epistola dedicatoria del suo trattato, morì nel 1309. Si può fissare con sicurezza agli anni 1304-1309 la conclusione dell'opera. Quest'ultimo periodo della sua vita è illuminato anche dalle dichiarazioni, per noi preziose, per gli estimi del 1304, 1308 e 1315-16, dichiarazioni che offrono un quadro della sua fortuna immobiliare, preciso se non proprio del tutto sincero. Nel 1288 il C. dettò un primo testamento, che ci è noto solo per una menzione indiretta. Il suo ultimo testamento, invece, datato 23 giugno 1320, si è conservato in extenso tra gli atti del diplomatico di S. Domenico di Bologna.
Il C. non sopravvisse a lungo alle sue ultime volontà. Egli appare già deceduto, quasi nonagenario, in un protocollo del notaio Francesco da Lastigano in data 25 febbr. 1321. In conformità con il desiderio espresso nel suo testamento, egli fu sepolto sicuramente nel chiostro della chiesa dei domenicani di Bologna, non lontano dal luogo dove frate Aimerico Giliani, ispiratore della sua opera, scelse di farsi seppellire nel 1327.
Le fonti notarili bolognesi offrono notizie precise sulla famiglia e la vita privata del Crescenzi. Egli sposò in prime nozze, nel gennaio del 1274, Geraldina de' Castagnoli, che gli portò una dote di 300 lire bolognesi in argento e beni mobili, come risulta dall'atto di costituzione dotale. Da lei ebbe almeno cinque figli. Vedovo poco dopo il dicembre del 1287, sposò in seconde nozze nel gennaio del 1289 Antonia, figlia del miles bolognese Tiberio de' Nascentori, dalla quale ricevette una dote considerevole attestata in tutti i dettagli. Anche da lei ebbe vari figli. Il Frati ha rinvenuto fra i registri notarili bolognesi gli atti di costituzione della dote di due delle sue figlie, Caterina (26 maggio 1289) e Mina (25 sett. 1318) e li pubblicò insieme con gli strumenti dotali delle due nuore Rustica da Mugello e Maria di Rolandino, spose rispettivamente dei suoi figli Crescenzio e Martino. I tre figli che gli sopravvissero, Crescenzio, Filippo e Martino, si divisero, secondo le disposizioni del testamento paterno, il patrimonio fondiario pazientemente accumulato dal C. in oltre trent'anni intorno alla sua proprietà di Villa dell'Olmo. Grazie all'estimo del 1308 sappiamo che questi tre figli servirono il Comune di Bologna "in exercitibus et cavalcatis"; ma nessuno dei discendenti del C. sembra avere lasciato tracce rilevabili nella storia cittadina.
Della biografia del C. due sono i dati essenziali per la comprensione della sua opera. In primo luogo la circostanza che egli ebbe una cultura varia e aperta, oltre che al diritto, alla medicina, alla botanica e alle scienze naturali. Circostanza tanto più apprezzabile in quanto egli visse in un ambiente intellettuale particolarmente attivo, quello dell'università di Bologna, ma anche dello Studium dei domenicani. Con l'università e con lo studio domenicano il C. mantenne stretti legami tanto da chiedere loro un'approvazione, in buona e debita forma, al momento della conclusione del suo trattato: "e così veduto, letto, esaminato e approvato è per lo sapientissimo uomo fr. Amerigo, Ministro dell'ordine de' Predicatori, e per li prudentissimi frati suoi, e ancora per li savi in iscienza naturale dell'Università degli scolari della città di Bologna" scrisse nella prefazione (ediz. 1805, I, p. LXXVI). Ci si deve ricordare, in secondo luogo, della sua carriera vagabonda che gli permise di raccogliere le osservazioni, di confrontare le tecniche agricole, i sistemi di coltivazione, i paesaggi rurali di parecchie zone dell'Italia settentrionale. Stabilire il peso rispettivo che ebbe nella sua opera la cultura libresca da una parte e l'esperienza personale dall'altra è il compito più importante per lo studioso della sua opera.
Per dichiarazione stessa dell'autore, il suo trattato di agronomia si basò su tre tipi di fonti: gli autori antichi, i moderni e l'esperienza personale: "molti libri d'antichi e de' novelli savi lessi e studiai, e diverse e varie operazioni de' coltivatori delle terre vidi e conobbi" (ed. cit., p. 3). Per apprezzare l'originalità dell'opera occorre anzitutto stabilire i limiti del suo debito verso la letteratura agronomica precedente e intenderne il ruolo e la funzione nell'ambito di un discorso agronomico originale.
Gli specialisti della letteratura agronomica medioevale hanno sottolineato concordemente l'importanza del debito contratto dal C. con gli agronomi antichi. Questa osservazione non è difficile a farsi, visto che l'autore stesso cita le sue fonti, e tutto sommato è anche superficiale, dato che vuole replicare all'accusa anacronistica di plagio che pesa su di lui. Il primo studioso che ha rilevato con precisione le fonti del C. è stato L. Savastano, i cui risultati sono stati, poi, completati e affinati di recente da J.-L. Gaulin. Queste ricerche sono giunte ad una conclusione importante: l'opera del C., nonostante le frequenti citazioni e rinvii alla letteratura agronomica anteriore, si basa in realtà su un numero piuttosto ristretto di fonti scritte. Se ci si attiene alle sole citazioni esplicite, il totale apparentemente impressionante di trentaquattro autori citati e di quasi trecentonovanta citazioni esplicite merita di essere analizzato nei dettagli. La distribuzione delle auctoritates citate dal C. è in effetti rivelatrice del metodo di lavoro: Palladio con 103 citazioni sta in testa, seguito dal Canone di Avicenna (56 citazioni) e dal De re rustica di Varrone (54 citazioni). Questi tre autori forniscono dunque al C. più della metà dei suoi rimandi. Vengono in seguito, in ordine decrescente: Plinio il Vecchio e Alberto Magno (21 citazioni), Isaac Israeli e Dioscoride, Virgilio, Catone, Columella, Gargilio Marziale, Matteo Plateario e il Liber de vendemiis tradotto dalle Geoponiche da Burgundione da Pisa, tutti citati meno di venti volte. Vari autori fanno apparizioni isolate e occasionali.
La ricchezza e la varietà apparenti di questo quadro delle fonti del C. sono in effetti molto ingannevoli, se si considera che molte citazioni sono di seconda mano. Il caso che colpisce di più è quello di Columella citato dal C. dodici volte, ma la cui opera fu ritrovata solo nel sec. XV. Vale la pena di rilevare, inoltre, che tutte le citazioni di Columella sono desunte da Palladio. La stessa considerazione vale per le nove citazioni di Gargilio Marziale e per varie altre citazioni di testi rari. Le citazioni di Esiodo o Democrito derivano dalla compilazione bizantina delle Geoponiche (sec. X), tradotta parzialmente in latino nel sec. XII da Burgundione da Pisa. Allo stesso modo il C. cita da Varrone, Anassagora, Cassio e Teofrasto. Persino Aristotele arriva al C. con la mediazione di Alberto Magno. Che egli abbia avuto accesso diretto alle Georgiche di Virgilio è stato messo in dubbio da L. Savastano, e resta alquanto problematico. Queste osservazioni, che potrebbero essere moltiplicate per gli altri autori citati, inducono a restringere decisamente le fonti letterarie del C. a pochi autori: la base della sua informazione è chiarissima e rimanda per l'agricoltura propriamente detta a Palladio, per l'allevamento a Varrone, per la viticultura alle Geoponiche, per le "erbe" e le loro virtù al De vegetalibus di Alberto Magno. Le sue conoscenze mediche provengono essenzialmente dal canone di Avicenna da lui considerato come un classico. Per esaltare le virtù terapeutiche dei semplici, egli si rimise principalmente al Circa instans di Plateario e, dunque, alla tradizione della scuola di Salerno. Infine, nel campo specialistico della ippiatria, la sua scienza deriva - direttamente o indirettamente - dal Liber marescalchiae di Giordano Ruffo e dai trattati greci di ippologia tradotti in arabo e dall'arabo in latino da Mosè da Palermo (sec. XIII).
Questa messa a punto dei riferimenti del C. ci dà un'immagine più modesta, ma certo anche più esatta, della cultura di un giudice bolognese della seconda metà del sec. XIII, per quanto aperto e curioso di scienze naturali lo si voglia considerare. Alcune opere di base vennero messe costantemente a frutto, il che lascia supporre che esse facessero parte della biblioteca personale che il C. lamentò di avere dovuto vendere per fronteggiare le richieste del fisco comunale nella sua dichiarazione d'estimo del 1307-1308. Con la mediazione di alcune opere fondamentali, si vede circolare nell'opera del C. una conoscenza diffusa e, per così dire, "in briciole" di una moltitudine di autori e di citazioni di seconda mano a scopo essenzialmente decorativo.
Due osservazioni s'impongono per concludere l'esame delle sue fonti letterarie. È chiaro in primo luogo che l'utilizzazione diretta di certe fonti fu puntuale e venne imposta dalla struttura stessa del trattato. Le reminescenze del Liber marescalchiae di Giordano Ruffo compaiono solo nel libro IX e le citazioni del Circa instans di Plateario, massicce nel VI libro consacrato al giardinaggio, diventano trascurabili (solo quattro) nel resto del trattato. La stessa cosa vale, in una proporzione più modesta, per il De re rustica di Varrone, citato in tutto 54 volte, ma 33 nel solo libro IX dedicato all'allevamento, dove funziona da punto di riferimento principale. Seconda considerazione, non meno importante: il controllo delle citazioni dichiarate, per quanto utile, è ben lontano dal risolvere il problema dell'esatta estensione del debito contratto dal C. con i suoi predecessori. Conviene, invece, osservare che, secondo un'attitudine mentale caratteristica del suo tempo e del suo ambiente, il C. si serviva spesso di una citazione di un autore classico per confortare con una auctoritas indiscussa un'osservazione personale. Con un procedimento inverso, gli capitò di ricorrere largamente alle sue fonti senza sentire alcun bisogno di citarle e contentandosi talvolta di un rinvio anodino. Per illustrare questo doppio procedimento, si noterà che in una delle parti più originali della sua opera, quella che concerne le tecniche di innesto degli alberi da frutta, egli cita con compiacimento Palladio e Varrone, senza usarli però effettivamente. Inversamente, nel capitolo 8 del I libro sui pozzi e le fontane, egli cita lo stesso Palladio una sola volta e quasi di sfuggita, mentre in realtà il suo testo ne deriva per l'essenziale.
Queste considerazioni inducono dunque a liberarci dal problema, assolutamente anacronistico, di sapere se il C. debba essere accusato di plagio. Il piano dell'opera anzitutto e l'organizzazione del trattato in secondo luogo rivelano molta originalità in rapporto alle opere antiche e alla base la scelta veramente "moderna" di approntare un'enciclopedia pratica destinata ad un pubblico socialmente ben definito nell'Italia intorno al 1300: quello dei "borghesi" che avevano costituito un patrimonio nel contado. In questo progetto i riferimenti occulti agli agronomi classici assolvevano due funzioni. Permisero al C. di riempire certe caselle precostituite dal suo stesso progetto enciclopedico e che sfuggivano alla sua competenza personale (per esempio l'ippiatria e la cinegetica). Lo aiutarono, inoltre, ad esporre meglio la sua materia nei campi tradizionali della produzione mediterranea in cui gli agronomi antichi offrivano soluzioni sperimentate e sempre valide (tecniche di irrigazione, ad esempio, o di vinificazione, cerealicultura estensiva, ecc.). Per quel che riguarda la funzione stessa della citazione nel discorso del C., essa differisce sensibilmente quando si tratta di autori antichi o moderni. Come ha osservato J.-L. Gaulin, gli antichi intervengono sovente in modo formale a titolo di auctoritates, mentre i "novelli savi", sia che si tratti di Paleario, di Alberto Magno o di Burgundione da Pisa, sono utilizzati più di frequente di quanto non siano citati. E inoltre, quando sono invocati, la loro testimonianza è discussa volentieri, cioè è opposta alla realtà agricola, più di quanto non accada con gli antichi. Non si deve dimenticare, infine - e questa osservazione non è stata mai fatta -, che la funzione complessiva delle auctoritates nel discorso del C. ricorda quella della pratica universitaria nella quale egli si era formato, nell'età d'oro dei glossatori. Spesso, infatti, dal gioco dialettico delle opinioni divergenti espresse dai maestri di agronomia scaturisce nel C. un insegnamento positivo che si aggiunge al ricorso originale all'esperienza vissuta e all'osservazione. Frutto per certi aspetti di una cultura universitaria, il trattato del C. acquista, tuttavia, un valore essenziale per via dell'esperienza personale dell'autore. Sotto questo profilo occupa un posto unico, a grande distanza dalle summae naturales fondate sulle stesse fonti, ma concepite secondo un modello speculativo, come il De vegetalibus di Alberto Magno, lo Speculum naturale di Vincenzo di Beauvais, il De natura rerum di Tommaso di Cantimpré o il De proprietatibus rerum di Bartolomeo Anglico.
L'originalità reale, al di là del problema delle fonti, è rilevabile sin dall'inizio nel piano stesso dell'opera. Il C. respinse, infatti, i due soli modelli possibili, Varrone con il suo piano tematico a trittico e Palladio che aveva diviso la materia agronomica secondo un piano a calendario non privo di artifici. Egli optò per una formula originale in dodici libri, della quale occorre ricordare il contenuto prima di pronunciarsi sulla sua funzionalità.
Dopo un breve indice delle materie che segue immediatamente l'epistola dedicatoria a Carlo II, il I libro predispone la scena: evoca i criteri che debbono presiedere alla scelta dei siti abitati, secondo il regime dei venti e delle piogge, ecc. La disposizione ideale dei fabbricati, i lavori per trattenere e guidare le acque fanno parte di questa scena. Il libro II è consacrato ai principi generali dell'agronomia: richiami di botanica pratica, finalità delle principali operazioni agricole (concimazione, irrigazione, aratura, semina, innesti, rese), rudimenti di pedologia e di tipologia dei territori, ecc. Con il III libro il C. passa dall'agronomia all'agricoltura e comincia con le culture "campestri": cereali, graminacee diverse, leguminose e piante tessili. Il libro IV, che dipende largamente dalla parte delle Geoponiche tradotte da Burgundione da Pisa, è consacrato interamente alla viticultura, alla vinificazione e, per i suoi elementi più originali, all'enologia. Il libro V è dedicato agli alberi da frutta e all'arboricultura in generale. Il libro VI ci introduce nel mondo delle "erbe", dell'orticultura e dei semplici. È il più esteso e più conforme alla tradizione ricapitolata dal Circa instans di Plateario e dal De vegetalibus di Alberto Magno. Il libro VII tratta, molto brevemente, della praticultura e della silvicultura. Il libro VIII passa allo studio dei giardini di piacere, all'architettura dei complessi paesaggi dei giardini fondati sull'associazione delle culture arbustive ed erbacee. Il libro IX, il più lungo di tutto il trattato, esamina tutti i problemi dell'allevamento, dal bestiame grosso fino ai volatili da cortile e ai piccioni. Da solo forma un vero manuale di zootecnica, di atte veterinaria (e, in particolare, di ippiatria), di economia pastorale, di piscicultura e di apicultura. Il libro X è consacrato alla caccia e alla pesca. Si deve notare che senza privare il lettore di un richiamo piacevole ai principi generali della falconeria, l'accento cade sulle tecniche della caccia e della pesca. Desideroso di dare maggiore coesione ad una esposizione frammentata dalla scelta iniziale di una trattazione di temi, il C. riunì nel libro XI "le regole delle operazion della villa, repetendo in brevità le materie trattate ne' libri precedenti" (ediz. 1805, 111, p. 256). Qui non si tratta di un abbozzo, ma di un vero e proprio sommario articolato in vari indici, i quali permettono di stabilire che la redazione fu successiva a quella dei libri precedenti. La stessa scelta di chiarezza e di utilità didattica indusse infine il C. a comporre un dodicesimo libro in forma di calendario, dove, in modo più efficace che in Palladio, i lavori campestri sono ricapitolati di nuovo, mese dopo mese. Semplice memento pratico ad uso del padrone della villa, questo dodicesimo libro non pretende riprodurre il modello palladiano, né ritornare in dettaglio sulle operazioni descritte nei primi dieci libri.
Questo rapido riassunto basta a mettere in luce i tratti più originali e più felici dell'opera del Crescenzi. Sia il sommario introduttivo sia i due ultimi libri gli conferiscono il valore evidente di una enciclopedia pratica e distinguono chiaramente l'opera dagli specula naturalia, allora in circolazione.
Questo carattere risalta in maggiore evidenza se si analizza da vicino la struttura dei libri da I a X; in essi le diverse attività rurali non sono mai separate dal quadro concreto nel quale devono svolgersi. Il significato più originale dell'opera sta in questo legame intimo, realizzato per ogni cultura, tra le tecniche agricole, i sistemi di cultura e i tipi di territorio privilegiati. Così avviene in modo particolarmente evidente per la cerealicultura (libro III), per la viticultura (libro IV), per l'orticultura (libri VI e VIII) e per i sistemi di allevamento (libro IX). C'è ugualmente da rilevare che l'insieme delle attività culturali è concepito ed esposto in funzione di un sistema globale di produzione: quello della villa. Con la sua architettura ideale e il complesso dei suoi fabbricati, essa appare come il centro dell'insieme che dirige e ordina le terre che gravitano intorno alla residenza del padrone o del suo fattore. P. J. Jones ha osservato giustamente che il sistema descritto dal C. implicava l'esistenza di una struttura agraria e di paesaggio rurale in cui le diverse parcelle erano appoderate intorno ad un abitato rurale disperso nel contado. Esso rivela, con la massima evidenza, quali modalità seguiva la borghesia urbana del Trecento per controllare le campagne circostanti. Su questo punto il C. si distacca ancora una volta dai suoi predecessori antichi e "novelli", il cui discorso agronomico (salvo forse il caso di Varrone) non era strutturato dal riferimento costante ad un modello economico di produzione agricola e di profitto. Paradossalmente il C. appare per questo aspetto più vicino a Columella, del quale pure non ebbe conoscenza diretta, che agli altri autori utilizzati. In rapporto a questa concezione nuova della funzione stessa del trattato di agronomia, è chiaro che il debito del C. rispetto ai suoi predecessori perde molto del suo rilievo.
L'intenzione didattica, già manifesta nel piano d'insieme, si precisa nei capitoli più nutriti dove il C., per ogni cultura, resta fedele ad uno schema di esposizione singolarmente efficace. Per ogni pianta egli segue un ordine logico che gli fa evocare successivamente le diverse varietà botaniche, il loro optimum ecologico, le tecniche adatte alla loro cultura, alla loro raccolta e alla conservazione del prodotto, per finire con gli usi possibili (alimentari, terapeutici, ecc.). Nei campi principali dell'agronomia (cerealicultura, arboricultura, viticultura e orticultura), il C. manifesta, molto più dei suoi predecessori, una preoccupazione veramente moderna di definire modi di cultura e sistema di produzione in perfetto accordo con un ecosistema che tenga conto dei fattori di differenziazione introdotti dai microclimi, dalla pedologia e dagli interessi economici del padrone della villa.
I punti specifici in cui questa preoccupazione didattica si accorda meglio con uno spirito novatore meritano di essere segnalati. Diversamente dai suoi predecessori, il C. insiste sulla virtù del concime verde e, più generalmente, sulle pratiche destinate a rigenerare il suolo dei terreni a cultura intensiva. In materia di rotazione delle culture cerealicole, egli loda la pratica della cultura intercalata da leguminose su una parte delle terre lasciate a maggese. È stato osservato con ragione che su questi punti i consigli del C. si accordano con le clausole dei contratti agrari contemporanei e che non sono affatto consigli astratti. Anche se in materia di viticultura segue molto Palladio e la tradizione veicolata dalle Geoponiche, il C. è più originale in materia di innesti e più attento a descrivere i migliori vitigni, osservati nel corso delle sue peregrinazioni professionali in Italia. Se d'altra parte egli segue per lo più gli autori classici per ciò che riguarda la vinificazione, su alcuni punti - come ha giustamente osservato L. Savastano - egli dipende da osservazioni personali (fabbricazione dell'agresto, dell'aceto, ecc.). Allo stesso modo per le tecniche di potatura e di innesto degli alberi egli non esita, al riparo dell'autorità di Palladio, a tenere conto delle pratiche nuove come quella dell'innesto "a bucciuolo". Anche nei settori più legati alla tradizione tecnologica il C. è attento a perfezionare le tecniche antiche (sarchiatura, erpicatura, concimazione, quarta aratura sulle migliori terre arabili, ecc.). La stessa cosa vale per la potatura degli alberi da frutta di cui vanta gli effetti sui rendimenti. Su questioni precise, come la potatura a verde dei peschi, egli non esita ad opporsi alla tradizione palladiana. In conclusione, la qualità della sintesi agronomica del C. deriva dalla preoccupazione di collegare l'insegnamento delle auctoritates con le lezioni dell'esperienza attuale. Sarebbe facile e ozioso lamentare le lacune che un lettore moderno può rilevare nel suo trattato, dove non si fa, ad esempio, parola dei rendimenti cerealicoli, di quasi tutti gli attrezzi agricoli, ecc. È facile anche constatare che il progetto enciclopedico dell'opera ha costretto l'autore a sviluppi fittizi o superflui (sulla falconeria, ad esempio, o sul paesaggio dei giardini di lusso). Conviene rilevare, invece, non senza meraviglia, il carattere limitato di queste digressioni, più ornamentali che funzionali, nell'insieme dominato dalla finalità pratica e dalla qualità didattica. Distaccandosi dalle finalità, dal tono e spesso dalla materia degli specula del suo tempo, il C. fece vera opera di agronomo. Il pubblico al quale si rivolgeva non era l'élite aristocratica, né quella dei lettori di specula. Il suo trattato s'indirizzava anzitutto al ceto sociale dei borghesi, che avevano investito allora largamente nel contado i guadagni della mercatura o dell'esercizio del notariato e degli uffici comunali; si rivolgeva, insomma, al ceto sociale al quale egli stesso apparteneva.
Il carattere di enciclopedia pratica del trattato del C. spiega in larga misura il successo considerevole che ebbe tra la prima metà del XIV e la fine del XVI secolo.
Ancor prima dell'introduzione della stampa, questo successo si manifestò con le traduzioni nelle lingue volgari che ne furono fatte e con l'ampiezza della tradizione manoscritta. Già Apostolo Zeno (cfr. Fontanini, p. 367) rilevò che il C. scrisse il suo trattato in latino e che dobbiamo datare alla metà del sec. XIV la traduzione in toscano, dovuta ad un anonimo, che servì di base all'edizione di Bastiano de' Rossi per conto dell'Accademia della Crusca nel 1784. Se il Tesoro dei rustici composto nel 1360 dal bolognese Paganino Bonafede non rivela alcuna influenza particolare dell'opera del suo compatriota, il successo di quest'ultima non doveva però tardare a manifestarsi fuori dei confini dell'Italia. È attestato dalla traduzione francese, che fu eseguita per il re Carlo V nel 1373 da un autore che non può essere identificato con Jean Corbechon. Eseguita su commissione del re, questa traduzione, del resto mediocre, s'inserisce in un complesso coerente concepito in vista di un corpus agronomico in volgare che doveva comprendere, oltre alla volgarizzazione del trattato del C., una traduzione ad opera di Jean Corbechon del De proprietatibus rerum di Bartolomeo Angelico e l'edizione del Traité de bergerie di Jean de Brie. Una seconda traduzione francese, eseguita nel 103 da un domenicano del convento di Digione, non ebbe fortuna. Tutta la famiglia dei manoscritti francesi del trattato del C. deriva, infatti, dal manoscritto della libreria di Carlo V. Alcuni di questi manoscritti sono da considerare, per l'alta qualità delle loro miniature, fra i migliori prodotti del mecenatismo dei principi e in particolare dei duchi di Borgogna. La diffusione dell'opera del C. nel mondo germanico è attestata ugualmente da una traduzione in volgare del 1474, data alle stampe nel 1490. L. Frati ha fatto il censimento della tradizione manoscritta, sia in latino sia nelle lingue volgari: è arrivato al totale impressionante di 132 manoscritti presenti in numerose biblioteche italiane, francesi, inglesi, tedesche, austriache, olandesi, polacche, spagnole e svizzere. Occorre notare che si tratta di un censimento provvisorio, non privo di errori ed omissioni. Ricerche regionali compiute più recentemente, come quella di H. Nais, permettono di completare il lavoro del Frati.
Con la stampa il trattato del C. conobbe una diffusione ancora più larga a partire dall'editio princeps del testo latino per i tipi di Johannes Schlusser (Augusta 1471). Per meglio valutare l'importanza del successo dell'opera del C. va detto che la seconda edizione, uscita nel 1474 per i tipi del celebre Giovanni di Vestfalia, fu il primo libro stampato a Lovanio e segno un progresso nell'arte tipografica con la messa a punto di un nuovo corpo tipografico detto "gotico riformato". Sarebbe fastidioso seguire la fortuna editoriale del trattato, tracciata accuratamente nel 1933 da A. Sorbelli. Dalle ricerche di questo studioso risulta che l'opera ebbe non meno di ventotto edizioni italiane delle quali 23 anteriori al 1600; 15 edizioni francesi scaglionate dal 1486 al 1540; 12 edizioni tedesche tra il 1490 e il 1602 e persino due edizioni polacche nel 1549 e nel 1571. In totale per i soli incunaboli sono state registrate ben 15 edizioni. Non ci si deve meravigliare che l'ultima edizione francese dati del 1540. Il trattato fu sostituito allora, in effetti, dal Théâtre d'agriculture di Olivier de Serres, che lo conobbe e ne assimilò tutto ciò che era compatibile con il clima e i sistemi di cultura dell'Europa nordoccidentale. Anche se non si conosce alcuna traduzione spagnola, l'Obra de agricultura di Gabriele Alonzo de Herrera (prima edizione nel 1513) ne riconobbe ampiamente i meriti e lo cita in 153 dei suoi 211 capitoli. Ancora più sorprendente appare il successo che il C. ebbe in Polonia, collegato dal Sorbelli con il matrimonio di Bona Sforza con Sigismondo I. Il carattere duraturo della fortuna tedesca fu assicurato da una nuova traduzione stampata a Strasburgo nel 1602. Gli studi recenti di G. Schröder Lembke, W. Abel e R. Wedler hanno messo in luce il ruolo di pioniere che il trattato del C. svolse in Germania negli studi di agronomia. Va infine ricordato che l'Inghilterra, il solo paese che si era dotato già nel sec. XIII di una propria cultura agronomica, restò impermeabile all'influenza dell'opera del C., evidentemente centrata sulle pratiche adatte al mondo mediterraneo.
È solo per un'approssimazione grossolana che si data alla seconda metà del sec. XVI la fine dell'influenza generale dell'opera del C. in Europa. La nascita di una nuova letteratura agronomica, di tipo ancora più pratico e più adatto alle differenze regionali, non la fece certo cadere nell'oblio. Come avevano fatto i loro predecessori francesi O. de Serres e C. Estienne, i primi agronomi tedeschi originali, K. Heresbach, M.Grosser e all'inizio del XVII sec., Abraliani von Thumbshirn, seppero desumere discretamente dall'opera del C. i principi che si potevano adattare al loro campo. Ancora in pieno secolo dei lumi J. M. Gesner pubblicò un corpus di testi agronomici antichi che ebbe grande successo e si preoccupò nelle dissertazioni allegate di sottolineare i meriti eccezionali che il C. si era conquistato nella trasmissione di questa letteratura. Nella stessa Francia, del resto, contrariamente a quanto si afferma di solito, la fortuna del C. non si estinse di certo con l'ultima edizione francese del suo trattato nel 1540. Nel 1813, infatti, il grande botanico Aubert Dupetit-Thouars, erede della tradizione fisiocratica del sec. XVIII e padre misconosciuto della teoria degli ecosistemi, dette del C. un giudizio che merita di essere riferito per la sua esattezza: il C. "réunit à une théorie lumineuse les résultats certains d'une longue pratique, exempte de beaucoup de préjugés qui étaient encore en faveur plus de trois cents ans aprés. L'auteur était bien supérieur à son Siècle" (p. 233).Non esiste un'edizione critica del trattato nel suo testo originale latino, né nella sua versione toscana della metà del sec. XIV, con la sola eccezione dei passi della fine del libro IX pubblicati da A. Röding nel 1927. Di uso abituale sono l'edizione di Bastiano de' Rossi (Firenze 1805, ristampa di quella del 1784) e quella di B. Sorio (Verona 1851) entrambe in tre volumi.
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