Pietro d'Abano
Medico, astrologo e filosofo (1250 c. - 1315 c.), interprete, fra i più rappresentativi, di una nuova cultura, elaborata soprattutto nell'ambito delle facoltà delle Arti, nutrita dell'apporto della scienza greco-araba, tendente a svincolarsi sempre più da presupposti teologici (senza tuttavia negarli), nell'indagine che ha per oggetto l'ordine naturale delle cose.
Studiò medicina all'università di Padova, che fu per secoli un centro di studi scientifici e naturali, ispirati soprattutto a una libera interpretazione dell'aristotelismo, vicina talvolta a posizioni averroiste. Come egli stesso c'informa, fece successivamente un viaggio a Costantinopoli, familiarizzandosi con lo studio del greco e con una diversa pratica della medicina, in cui l'elemento magico poteva assumere parte notevole. Si trova intorno al 1300 a Parigi, in uno dei periodi più splendidi (e ricchi di contrasti) della sua tradizione culturale: qui appunto fu oggetto di lunghe e insistenti persecuzioni da parte dei domenicani dell'inquisizione (i famosi Giacobiti, di cui era stato vittima un altro medico, Arnaldo di Villanova), persecuzioni cessate in seguito a un ordine pontificio: fondamento delle accuse era forse un'interpretazione erronea della soluzione data dall'Abanese al problema dell'anima. Si trova di nuovo a Padova nel 1307, ove tenne una cattedra di medicina alla facoltà delle Arti. Oggetto di nuove accuse, sembra sia stato difeso pubblicamente dalle autorità comunali, mentre un nuovo processo, nel corso del quale sopraggiunse la sua morte, si concluse, secondo alcuni storici, con il rogo del cadavere (notizia che il Ferrari tende ad accogliere).
Ancora una volta nessun dato preciso per quanto riguarda le accuse.
Giustamente sostiene il Nardi che non si può parlare, a proposito di P., di una " fonte " di D. " in senso empirico ", riducendo a semplici congetture, prive di una base fondata, le ipotesi avanzate dal Ferrari circa le possibili relazioni personali fra i due autori. Una volta individuate tuttavia, sulla linea del Nardi, alcune convergenze derivate da un comune contesto culturale, nel rilevare poi le differenze, si può dire che di certe posizioni culturali l'opera dell'Abanese rende più immediatamente evidenti alcune conseguenze teoriche e soprattutto pratiche, proprio perché il sapere dei due autori muove da interessi profondamente diversi. Da una parte, nell'opera di D., il destino dell'anima, inseparabile dall'azione dell'uomo nella realtà politica terrena, mirabilmente inserito in un ordine, di gran lunga più perfetto, che è l'ordine cosmico; dall'altra in P. la volontà dell'uomo d'inserirsi nella natura, in armonia con essa, per completarne o favorirne l'opera, attraverso la conoscenza delle sue leggi (cfr. Conciliator diff. 18 " Ad aliud dicendum quod multa potest facere ars, quae non potest natura, ut domum, effigiem, et econtra, seu hominem, aut plantam. Quaedam namque fiunt initialiter a natura, complentur vero per artem, velut sanitas sublevata medicina; quaedam initialiter fiunt ab arte, natura vero perficiuntur, ut proiectio seminis in terram ").
Così, ad esempio, se in entrambi gli autori è dato cogliere chiaramente una dottrina della creazione e della causalità, in cui risulta necessaria l'attività degl'intermediari fra la causa prima e gli ultimi degli effetti, si può osservare che dall'opera dantesca, soprattutto dal Paradiso, è possibile desumere un'organica visione del mondo, costruita secondo schemi neoplatonici e avicennistici, una volta stabilita la distinzione fra ciò che è creato direttamente da Dio sanza mezzo (cioè a dire l'atto puro, o pura forma, delle intelligenze separate, la pura potenza della materia informe, e il composto indissolubile di materia e forma che costituisce le sfere celesti: Pd VII 64-69, 124-138, XXIX 22-36), e ciò che invece è prodotto dalla virtù informante dei cieli (i quattro elementi, origine delle cose del mondo sublunare, soggetto a generazione e corruzione. Per questo tema, fondamentale nel pensiero di D., si rinvia comunque alla voce PLATONISMO).
Nell'opera di P., la dipendenza del mondo contingente dai movimenti dei pianeti (cfr. Conciliator diff. 10, 3 " Omnis mundanae geniturae conditio ex planetis eorumque signis tamquam ferrum ex lapide magnete dependent ") costituisce soprattutto una conseguenza del principio aristotelico del ‛ simile a simili ', in contrasto con la dottrina avicennistica del ‛ dator formarum ' (cfr. diff. 101): aristotelica è quindi la struttura di questo universo (cfr. diff. 113), che ignora le complesse articolazioni platonico-avicennistiche e in cui resta incerto se gl'intermediari siano prodotti immediatamente dalla causa prima, o se siano derivati invece l'uno dall'altro secondo uno schema emanatistico. In questa prospettiva, come del resto in D., la necessità della mediazione causale discende logicamente dalla nozione stessa di perfezione immutabile, ‛ perfecta ratio ', dell'atto creatore, che non può contraddirsi e negarsi agendo direttamente in un mondo soggetto a un processo di movimento e di trasformazione continua: " Ad aliud dicendum secundum Aristotelem et Commentatorem, quod Deus nihil potest in haec (inferiora) operari absque medio (cum eius omnis actio hic mediante motu et transmutatione perficiatur), ita ut periodum a supernis corporibus in hac inferiori materia inducta non habeat permutare, cum ad id sequatur quaedam inordinatio ac defectus, et mutabilitas in Primo, tamquam ut sapienti primitus omnia producenti denotetur inesse; quae enim perfecta ratione firmata sunt, permutari non possunt, iuxta Timaeum [cfr. Tim. 29e-30a]... Non enim effectus virtutem suae causae continet et repraesentat perfecte; propter quod varietas paulatim occurrit, ut et in toto apparet ordine universi, a Primo per media in infima descendendo. Primus etenim simplex et immobilis manens, ac incorruptibilis omnino; reliquis autem adsunt compositio, mobilitas et corruptio " (Conciliator diff. 113, nella lezione corretta dal Nardi).
Più immediatamente evidenti che non in D. sono piuttosto, nell'opera dell'Abanese, le conseguenze di una simile concezione della creazione e della causalità divina (il Nardi ha ben dimostrato quanto sia infondata l'accusa di aver negato la creazione, mossa a P. sulla base di un'interpretazione inesatta della diff. 101 del Conciliator). La necessaria continuità fra il movimento degli astri e il mondo sublunare (cfr. diff. 10, 3 " quia ex necessitate iste mundus, et inferior continuus est superioribus lationibus ") implica in realtà una nozione rigorosa di ordine naturale, che sfiora talvolta il determinismo, come nell'affermare la corrispondenza di ogni granello di sabbia al proprio influsso astrale: " Cum enim secundum Hermetem Enoch, seu Mercurium, quaelibet arenarum maris suum obtinet sydus incitans ad incrementum eiusdem, multo amplius in perfectioribus " (diff. 101). Il fatto che l'influenza degli astri non sia soltanto genericamente diffusa sull'insieme del nostro mondo (secondo le concezioni comuni, accolte senza difficoltà dai teologi), esercitandosi invece in maniera puntuale sopra ogni cosa esistente, nella sua individualità, determina conseguentemente un interesse particolare, da parte di P., per il problema dell'individualizzazione e dell'unicità dell'individuo (cfr. diff. 23, 3 " sciendum quod duo individua numquam possunt punctualiter eandem complexionem possidere "). Riferendosi a una nozione generalmente connessa con il problema della determinazione individuale, la nozione cioè di ‛ luogo proprio ', di origine aristotelico-neoplatonica (nel testo è citato Porfirio: cfr. Isag. 1a), P. sostiene infatti l'unicità della forma e delle proprietà individuali: " Et quantum natura dat de loco, tantundem et de forma... Sed unumquodque habet locum proprium: cum enim dimensiones dimensionibus resistant, plura corpora non possunt eundem locum obtinere, itaque formam et proprietates habebit proprias: quae in alio non poterunt individuo reperiri " (diff. 23). Sotto questo aspetto, particolarmente interessante, si può dire che le concezioni astrologiche dell'Abanese s'inquadrano in una prospettiva che sarà quella dominante nel pensiero del sec. XIV.
A questo processo d'individuazione concorre ugualmente la materia, che alle influenze stellari oppone una sua forza di resistenza, secondo una dottrina di origine platonica, comune a D. e a P. (cfr. Pd XIII 67-78; I 127-129 Vero è che, come forma non s'accorda / molte fïate a l'intenzion de l'arte, / perch'a risponder la materia è sorda; cfr. Conciliator diff. 48, 3 " Forma, iuxta Platonem, non imprimit nisi secundum dispositionem et meritum materiae "; Problemata Arist. XXX 4 " A Deo et per Deum constant omnia... de se enim omnia largitur tribuitque; sed multotiens, propter indispositionem non suscipiuntur materiae "). A questa ‛ indisposizione ' della materia, nel caso specifico del seme umano, sono da ascriversi per i due autori la diversa complexio degli uomini e il grado diverso di purezza e nobiltà delle anime (Cv IV XXI 7-8, Pd I 130-133, VIII 112-135, XIII 67-72; Conciliator diff. 10, 3; 23, 3; Problemata Arist. XXX 4). In questa prospettiva la nozione di fortuna (v.) viene a coincidere con la nozione di ordine provvidenziale, mantenuto dal volere divino con la mediazione delle sfere celesti (If VII 67-96, Pd VIII 97-111; Conciliator diff. 12, 2 " non solum corpora superiora motu operantur, et luce, sed fortunio et infortunio, et virtutibus quibusdam specificis appropriatis "); in contrasto, sottolinea il Nardi, con l'opinione espressa da Tommaso d'Aquino che definisce invece la fortuna come " causa inferior quae de se non habet ordinem ad eventum fortuitum " (Comm. in Phys. II 7, ad t.c. 47).
Per P. tuttavia quest'ordine rigoroso dell'universo, anche se non esclude completamente un intervento diretto della volontà divina, in quanto " agens supernaturale per voluntatem " (Conciliator diff. 156, 3), si traduce pur sempre in un'attitudine critica di fronte ai miracoli, ai prodigi, alla credulità dei " theologizantes " (cfr. diff. 64), attitudine critica che D., da parte sua, è ben lontano dal condividere (si può dire del resto che il prodigio appartenga anche alla convenzione letteraria e poetica): per il medico padovano il carattere straordinario (" extraneitas idest monstruositas ", diff. 182, pr. 3) di un avvenimento è piuttosto da ascriversi all'impossibilità, per l'intelletto umano, di cogliere in un punto, nella realtà dell'individuo, il convergere di una serie di cause provenienti dal mondo della materia e dalle influenze celesti. Questa stessa convergenza di cause, oltre a essere determinante negli avvenimenti naturali e negli stessi eventi storici, assolve la funzione di predisporre e favorire il compiersi di avvenimenti chiaramente soprannaturali, come la nascita dei profeti e la nascita stessa del Cristo (Conciliator diff. 9, 3; 18, 3). Questa dottrina, per la quale P. fu considerato a torto un precursore dell'oroscopo delle religioni, si trova a coincidere con il pensiero di D., secondo il quale il Cristo, in quanto uomo, risulta come pochi altri (fra cui Platone) ottimamente naturato (Cv IV XXIII 10), proprio perché l'ottima disposizione del cielo e della terra presiedé alla sua nascita (V 7).
Questa e altre affinità fra i due autori possono mettersi in rilievo, espressione di un comune contesto culturale (il Nardi sottolinea ancora, fra i punti di contatto, la teoria dantesca del sogno divinatorio, la cui efficacia dipende dall'azione degli astri o delle intelligenze celesti, teoria comune, del resto, ad Avicenna, Algazel e Alberto Magno: cfr. Pg XVII 13-18, Cv II VIII 13; Conciliator diff. 157, 1. Per quanto riguarda il problema delle macchie lunari [v. LUNA; Platonismo] l'opinione dei due autori coincide solo parzialmente, nel senso che anche P. riconosce l'esistenza di principi formali diversi nelle diverse parti del cielo: v. Conciliator diff. 29 e i testi del Lucidator citati dal Nardi). Resta tuttavia una differenza fondamentale: per il medico padovano la resistenza stessa della materia postula l'esigenza di un sapere teorico e pratico rivolto soprattutto a favorire il perfetto attuarsi dell'ordine naturale, rendendo la materia disposta a ricevere il suggello celeste; una volta infatti che l'astrologia, contro le obiezioni tradizionali (già affrontate da Tolomeo e dall'astrologo arabo Albumasar), abbia definito i suoi compiti e i suoi limiti, in connessione necessaria con le altre scienze (cfr. soprattutto Conciliator diff. 10),. la funzione dell'astrologo risulterà, secondo un'antica similitudine, analoga a quella dell'agricoltore che predispone la terra ad accogliere il seme: " sic opus adiuvat naturae, seu seminator fortitudines naturales " (ibid.; lo stesso paragone nel Centiloquium attribuito a Tolomeo, sent. VIII). Diversamente D., che condanna l'opera degli astrologi più famosi, pur utilizzando egli stesso cognizioni astrologiche, rivolge piuttosto agli uomini, per bocca di Beatrice, l'esortazione a non contrariare l'opera della natura, della fortuna provvidenziale, i cui disegni non possono in tal caso perfettamente attuarsi, come quando il seme cade in una terra non adatta (è il diverso risvolto di una similitudine analoga): Sempre natura, se fortuna trova / discorde a sé, com'ogne altra semente / fuor di sua regïon, fa mala prova. / E se 'l mondo là giù ponesse mente / al fondamento che natura pone, / seguendo lui, avria buona la gente (Pd VIII 139-144).
Si tratta forse soltanto di una diversa sfumatura, che definisce però sufficientemente la diversa posizione della scienza pratica e attiva, in cui la fiducia nell'opera della natura è contemperata dalla fiducia nelle possibilità dell'arte.
Bibl. - Rari gli studi dedicati specificamente a P. d'Abano: S. Ferrari, I tempi, la vita, le dottrine di P. d'A., Genova 1900; ID., Per la biografia e per gli scritti di P. d'A., in " Atti R. Accademia dei Lincei " CCCXV (1918) s. 5, XV 631-725; A. Dyroff, D. und P. d'A., in " Philosophische Jahrbuch der Görres Gesellschaft " XXXIII (1920) 253 ss.; B. Nardi, Intorno alle dottrine filosofiche di P. d'A., in Saggi sull'aristotelismo padovano dal sec. XIV al XVI, Firenze 1958, 19-74 (le interpretazioni dottrinali del primo autore sono soggette a una scoraggiante revisione critica); ID., D. e P. d'A., in Saggi di filosofia dantesca, Firenze 1967, 40-62; cfr. inoltre ID., Studi di Filosofia medievale, Roma 1960, passim; L. Thorndike, History of magic and experimental Science, II, Nuova York 1929, 874-947; P. Duhem, Le système du monde, Parigi 1954, IV 229 ss.