CHIARI, Pietro
Nacque a Brescia, allora sotto la Repubblica di Venezia, il 25 dic. 1712. Sulla prima fase della sua vita non si conoscono altre fonti che i suoi scritti, ove peraltro le notizie biografiche sono per lo più allusive e vaghe (cfr., in part., Carattere dell'autore, in Lettere scelte..., I).Primogenito di una famiglia di antiche tradizioni militari, di modeste condizioni economiche, perdette presto la madre, morta dando alla luce il secondo figlio. Seguì per qualche tempo il padre, colonnello al servizio di Venezia, onde poté dire di sé di essere "nato, cresciuto ed educato come Caligola sotto a' padiglioni" (ibid.). Ma non tardò ad accorgersi di non avere alcuna predisposizione per la carriera militare e quindi si ritirò in solitudine con l'unica compagnia di molti libri delle più svariate discipline. "Così vissi molti anni felicemente, quasi fossi nell'ideale Repubblica di Platone" (ibid.). Con queste parole sembra che egli si riferisca al periodo di studi compiuti presso i gesuiti, forse a Modena, ove coltivò l'ambizione di acquistare un'ampia cultura enciclopedica, secondo l'orientamento del tempo, mostrando una spiccata preferenza tuttavia per la letteratura, la storia e la filosofia. Neppure questa però era la sua strada: infatti, insofferente di quella disciplina, abbandonò l'Ordine, andando ad accrescere il numero di quegli abati mondani del Settecento, ai quali la veste religiosa procurava più privilegi che limitazioni.
Del suo carattere ha scritto: "Confesso senza corda d'aver sortito dalla Natura un'indole né virtuosa estremamente, né estremamente viziosa. Essendo il mio temperamento un misto d'acqua e di zolfo, d'oglio e d'aceto, di mellone e di zucca, proporzionati al medesimo furono in me mai sempre le virtudi e i difetti. Siccome per quanto esaminato io mi sia, le migliori mie qualità in ogni tempo si furono la fedeltà, la discrezione e l'onore, così i miei vizi maggiori furono in ogni tempo la sincerità soverchia, l'inopportuna fiducia e il troppo buon cuore" (ibid.).Che, come si vede, è un modo tutt'affatto gesuitico per presentare sotto specie di difetti quelli che sono in sostanza delle virtù. E quanto all'aspetto fisico si descriveva così: "Non sono né gobbo, né zoppo, ma di alta statura, di membra proporzionate, di carnaggione né chiara, né fosca, d'aria anziché no malinconica, di poche parole, di sollecito passo, di non disobbliganti maniere, d'un'attività intraprendente, e nelle intraprese sue diligente, frettolosa, efficace" (ibid.).
Fece le sue prime prove letterarie a Modena, in un ambiente culturalmente vivace attorno all'università, alla Biblioteca Estense, alle accademie e alla corte ducale. Qui, nel collegio di S. Bartolomeo della Compagnia di Gesù, fu insegnante di eloquenza e ci restano due prelezioni in latino. La prima ("Si quid litteratorum Reipublicae...", 1736) riguarda la difficoltà dell'esercizio critico e tocca anche la nota querelle degli antichi e dei moderni; la seconda ("Prolusuro mihi ac more maiorum...", 1737) è una illustrazione delle regole per ben scrivere. Elaborò anche alcune tesi di teologia, tra cui un "Discorso accademico sulla Concezione della B. V. Maria". Tutti lavori privi di originalità, e nei quali si evidenzia un'eccessiva e mai regolata erudizione, unitamente ad una fastidiosa prolissità. Compose in questi anni anche numerose poesie, in latino e in volgare, in cui ebbe a maestro l'abate modenese G. B. Vicini: di stampo catulliano le prime, chiaramente frugoniane le altre.
Galante e frivolo, come del resto doveva essere un abate alla moda, il C., che si confessava sensibile alle seduzioni del gentil sesso, non fu immune dalle pene d'amore. Dalle sue varie e sfortunate esperienze di questi anni (intorno al '40), durante i periodici soggiorni a Imola, Parma, Bologna, oltre che a Modena, egli trasse ispirazione per un'abbondante serie di componimenti diversi, come quelli dedicati alla sdegnosa Mirtinda (forse la bolognese Angela Pizzi) e ai begli occhi di Crimatea (la marchesa Caterina Landi). Le poesie e la corrispondenza di questo periodo documentano anche i suoi rapporti d'amicizia, in particolare, col conte Camillo Zampieri di Imola e col gesuita vicentino Iacopo Antonio Bassani; e vi si possono cogliere gli echi dei fatti d'arme (vale a dire i riflessi italiani della guerra di successione austriaca), che erano venuti a turbare la tranquilla esistenza di quelle regioni. La morte del padre determinò un suo momentaneo ritorno a Brescia, ma la sua dimora abituale rimaneva Modena. Continuava a fare il precettore, ma era un tipo di lavoro che gradiva poco, mancandogli le necessarie qualità di un educatore. Frequentava anche la corte, ma con scarsa fortuna, tanto che, forse vittima della maldicenza e della sua permalosità, lasciò improvvisamente la città nel 1744, a quanto pare.Dopo la battaglia di Velletri, in cui gli Ispano-napoletani avevano sconfitto un esercito austriaco, ritroviamo il C., nel novembre del 1744, al servizio del cardinale Federico Marcello Lante Della Rovere, in qualità di segretario. Nella sua villa presso Viterbo, lontano dalla guerra, egli poté riprendere il suo lavoro letterario. Al seguito del cardinale viaggiò a lungo per l'Italia, spingendosi fino a Napoli. Durante una sosta a Roma ebbe l'occasione di partecipare ad un'adunanza dell'Accademia dell'Arcadia, ove recitò una composizione in terza rima di stile vagamente dantesco ("Un dì che m'avean tratto all'ultime ore / Fortuna inesorabil mia nimica, / E lo più crudo mio tiranno Amore ...").
Verso la fine del 1746, o all'inizio del 1747, il C., stanco di vagabondare e alla ricerca di un approdo sicuro, prese stabile dimora a Venezia, contando sulle amicizie del padre, che era stato sotto la protezione della casa Mocenigo. Trovò infatti aiuto presso la potente famiglia Grimani, che gli agevolò l'inserimento nell'ambiente sempre difficile dei letterati, come pure nelle accoglienti ma selezionate conversazioni dei salotti patrizi. Venezia era più che mai uno dei maggiori centri del cosmopolitismo culturale, in cui si andavano maturando i fermenti di un profondo rinnovamento. Appunto a tale rinnovamento diede il suo contributo anche l'abate C. attraverso le continue polemiche letterarie e teatrali in cui si trovò coinvolto. Sulla laguna rimase per un quindicennio e fu questo senza dubbio il periodo più fervido della sua vita e il più rilevante della sua operosità letteraria, quale che sia il giudizio di valore sulle sue numerosissime opere.
Le sue esperienze veneziane iniziarono con la poesia, cioè con versi d'occasione, con cui anch'egli prese a cantare nozze, monacazioni, ingressi di procuratori e le lodi della città con la sua solita facile vena. Diversi componimenti sono dedicati alla bella Cornelia Barbaro Gritti (sotto il nome di "Eurilla"), alla quale pagò il suo tributo di sospiri e di arcadiche celebrazioni, aumentando la fitta schiera dei suoi adoratori, tra i quali vanno annoverati Frugoni, Metastasio, Goldoni e Algarotti.
Nel 1749 si volse alla moda delle Lettere, stimolato in particolare dallo straordinario successo delle Lettere critiche di Giuseppe Antonio Costantini. Scrisse dunque le sue Lettere scelte (uscite con la data del 1750), muovendosi sulla falsariga appunto del Costantini, ma polemizzando scopertamente con lui. Toccando gli argomenti più svariati, egli infatti si proclama "pirronista" e ostenta quindi una certa spregiudicatezza d'opinioni con l'evidente scopo di criticare il conservatorismo di quello. Però nella nuova edizione della sua opera il Costantini reagì vivacemente, in particolare nella lettera, dal titolo chiaramente allusivo, La scimia [sic] col fagotto (6 ed., t VII), in cui lo accusava di essere un volgare plagiario e un pennaiolo spropositato.
Nello stesso 1749 iniziava anche l'avventura teatrale del C., che sarà proprio quella che gli darà la maggior rinomanza anche fuori di Venezia. Fu dunque assunto dai Grimani. come "poeta" del teatro di S. Samuele, andando quindi ad occupare il posto che qualche anno prima era stato del Goldoni. Poteva contare su una buona compagnia comica, diretta da Giuseppe Imer, che comprendeva alcuni eccellenti attori, quali Gaetano Casali, Antonio Vitalba e soprattutto Antonio Sacchi. Questa volta l'avversario da combattere era il Goldoni, il quale dall'anno precedente era al servizio della compagnia di Gerolamo Medebach, che aveva preso in affitto il teatro di S. Angelo. La polemica divampò immediatamente per intuibili ragioni concorrenziali, più che per effettive motivazioni culturali. Il debutto del C. avvenne nell'autunno di quell'anno con L'avventuriere alla moda, ma andò male e per di più si divulgò per la città un sonetto satirico, attribuito al Goldoni, sulla suddetta commedia. Al S. Angelo intanto veniva ripresa con successo La vedova scaltra e allora il C. ne ricavò un'indegna parodia, La scuola delle vedove, che mosse lo sdegno del Goldoni, il quale replicò prontamente con un Prologo apologetico. La contesa sollevò un gran chiasso, tanto da determinare l'intervento della magistratura, che proibì il lavoro del C., imponendo praticamente la censura teatrale (novembre 1749).
Quel che il C. contestava al Goldoni era soprattutto la qualifica di "riformatore", dal momento che il vero e l'unico riformatore si considerava lui, che si proclamava seguace di Molière e in possesso di una cultura che gli consentiva di seguire le regole prescritte "da Aristotile, da Orazio, dal Castelvetro, dal Nores; e [che] da' migliori Comici Greci, Latini, Francesi ed Italiani furono sempre mai fedelmente osservate" (come si legge nel manifesto della Scuola delle vedove). Sidiede quindi a comporre opere teatrali di ogni genere, sia rifacendo il verso al Goldoni col dichiarato intento di correggerlo (con L'erede fartunato,Il buon padre di famiglia,La moglie saggia,Pamela maritata, ecc.), sia ricavando commedie e drammi dai romanzi alla moda di Prévost, Fénelon, Marivaux, Mouhy, Richardson e Fielding (dal Tom Jones trasse addirittura una trilogia: L'orfano perseguitato,L'orfano ramingo e, L'orfano riconosciuto), sia inventando una specie di tragedia popolare, romanzando noti soggetti della tragedia classica (come in La congiura di Catilina,Marco Tullio Cicerone e Giulio Cesare).Vero è che la dimensione spettacolare della sua drammaturgia aveva qualche giustificazione nel fatto che la compagnia dell'Imer aveva dovuto, nell'autunno del 1751, trasferirsi dal S. Samuele al più vasto e più attrezzato teatro, anch'esso dei Grimani, di S. Giovanni Grisostomo, già sede primaria dei fastosi spettacoli melodrammatici veneziani tra '600 e '700.
Un anno dopo, nell'autunno del 1752, per dissensi con la compagnia, egli lasciò quell'incarico e si accinse ad invadere il campo del romanzo, per il quale appariva particolarmente dotato e dal quale si riprometteva maggiori soddisfazioni. Un tentativo l'aveva già fatto nel 1749, curando una riduzione di un anonimo pasticcio romanzesco, cioè L'ussaro italiano o sia Le avventure amorose e militari del conte N. N. Ma il suo primo vero romanzo fu La filosofessa italiana, pubblicato sul finire del 1753. Un'opera esemplare nel suo genere, che proprio nelle sue caratteristiche di sfrenata fantasia, di inverosimiglianze e di colpi di scena a getto continuo, incontrava il gusto medio dei contemporanei. Infatti le stravaganti e complicatissime avventure della marchesa N. N., la quale sul finire della sua movimentata esistenza scrive le sue memorie, riscossero tanto successo che dell'opera furono stampate ben dieci edizioni. Da allora il C. non cessò di produrre, insieme ad opere letterarie e teatrali di vario genere, uno o anche due romanzi all'anno, così che tra lavori originali e quelli tradotti o rielaborati ne scrisse più di quaranta.
I romanzi hanno per lo più una struttura autobiografica, nel senso che il protagonista, più spesso la protagonista, racconta in prima persona le vicende della sua vita. Vicende, si capisce, "interessanti", perché l'attesa dell'accidente insolito, imprevisto o incredibile, è la molla dell'invenzione e deve appagare la curiosità insaziabile dei lettori. Allo scopo contribuiscono anche gli scenari fantasiosi ma piuttosto generici, in cui sono ambientate le trame: così, ad esempio, troviamo la marchesa di cui sopra all'inizio in un monastero di Avignone, poi a Lione, quindi a Parigi, successivamente da Parigi a Milano, a Roma, ancora a Parigi, poi a Napoli, ad Amsterdam e a Londra, infine di ritorno definitivamente in Francia. C'era di che soddisfare, almeno con la fantasia, il desiderio di viaggiare e di conoscere così vivo in questo secolo, anche se in sostanza trame e scenari di questi romanzi si somigliano un po' tutti. Nella Bella pellegrina o sia Memorie di una dama moscovita (1759) è da rilevare che la narrazione è suddivisa in giornate, mentre per La viaggiatrice o sia Le avventure di madamigella E. B. (1761) è stata adottata la forma epistolare. Tra i romanzi scritti nel periodo veneziano sono anche da ricordare: la trilogia di argomento teatrale, La ballerina onorata,La cantatrice per disgrazia e La commediante in fortuna (1754-55);e i seguenti di qualche interesse o per l'argomento o per la novità dello scenario: Il poeta o sia Le avventure di D. Oliviero de Vega (1756), La giuocatrice di lotto (1757), La zingana. Memorie egiziane di madama N. N. (1758), La francese in Italia (1759), L'uomo d'un altro mondo (1760). C'è ben poco di originale, anche nei tentativi di una tematica etico-sociale, che rimandano chiaramente alle opere di Voltaire, Montesquieu e Swift.
In questi romanzi si fa un gran parlare, porfino nei titoli, di filosofia e di filosofi, ma in verità con scarsa pertinenza. Si tratta per lo più di un linguaggio alla moda, di una qualificazione corrente in un'epoca in cui ogni comportamento tendeva ad atteggiarsi in un assai generico modulo "filosofico", che in sostanza era solo un richiamo all'accortezza e alla riflessione. Naturale, quindi, che anche la saggistica di argomento filosofico fosse allora alquanto diffusa e non meraviglia che pure il C., così fecondo ed eclettico, vi abbia dedicato alcune opere, come L'uomo. Lettere filosofiche (1755) da un saggio di A. Pope, e La filosofia per tutti. Lettere scientifiche sopra il buon uso della ragione (1756), entrambe in versi martelliani, in cui è da notare esclusivamente il suo impegno di una gradevole divulgazione.
Nell'autunno del 1753, passato il Goldoni al teatro dei Vendramin a S. Luca, il C. veniva ancora chiamato a sostituirlo questa volta nella compagnia del Medebach al S. Angelo. Riprendeva quindi, e con maggior virulenza, la polemica teatrale, che toccò il culmine nelle stagioni comiche 1753-54 e 1754-55 in cui le opposte fazioni dei "chiaristi" e dei "goldonisti" si affrontarono senza esclusione di colpi, facendo largo uso di scritti satirici sovente assai volgari (cfr. codice Cicogna 2395 del Museo Correr di Venezia). Da qualche anno andavano di moda i martelliani e già il C. aveva prontamente replicato al Molière del Goldoni col suo Molière marito geloso, ma fu soprattutto a partire da quell'anno che i due poeti cominciarono a contendersi il favore del pubblico puntando in particolare sul nuovo gusto degli scenari esotici e sul metro, appunto, dei rimbombanti martelliani. Al trionfo goldoniano della Sposa persiana l'abate rispose con i clamorosi successi della Schiava chinese e delle Sorelle chinesi, e così avanti, ribattendo colpo su colpo, fino ai clamori che nel carnevale del 1754 si alzarono pro e contro Il filosofo inglese del primo e Il filosofo veneziano dell'altro.
A difesa del C. si mosse Giorgio Baffo, poeta vernacolo ben noto, mentre a favore del Goldoni si schierava Gasparo Gozzi, a testimonianza di un interesse che al di là della cronaca e dei fanatismi di parte coinvolgeva esponenti qualificati della cultura veneziana e non. Da rilevare che le donne nella maggioranza parteggiavano per l'abate bresciano, il quale invero nelle sue opere, romanzi e commedie, aveva saputo accortamente sollecitarne il favore.
Fu questo forse il momento della sua maggior fortuna, e non solo a Venezia. Così è noto che a Modena le sue commedie erano preferite rispetto a quelle del "modenese" Goldoni, (cfr. Lettera di risposta ad un amico di Venezia in proposito delle commedie del Sig. Dott. Carlo Goldoni,in competenza di quelle del Sig. Abate Pietro Chiari,rappresentate... l'estate del 1754..., dal ms. Misc. 5 della Bibl. universitaria di Bologna). A Modena egli contava molti autorevoli amici e qui infatti in quel 1754 videro la luce alcune epistole in martelliani in suo onore raccolte sotto il titolo Della vera poesia teatrale. Ne erano autori i letterati modenesi G. B. Vicini, Francesco Renzi, Camillo Tori e Gioseffo Tragni, i quali in versi ridondanti celebravano la rinascita della commedia italiana che, prima per merito del Goldoni ma poi soprattutto del C., s'era elevata ad altezze mai raggiunte. Non che tutti la pensassero in questo modo, ma la spiegazione della sua supposta superiorità sta nel fatto che egli appariva, ed era, più colto ed erudito del suo competitore e questo bastava per proclamarlo "gran letterato e gran poeta" (cfr. Lettera di risposta, cit.). Comunque della fama raggiunta dal C. fanno fede i riconoscimenti ottenuti: già accolto in Arcadia, nella colonia Parmense, col nome di Egerindo Criptonide, nel 1752 era diventato socio dell'Accademia degli Agiati di Rovereto col nome di Archito e nel 1755 il duca Francesco III di Modena lo nominava poeta di corte.
Nel 1756 il C. pubblicava a Venezia le sue Commedie in versi e premetteva al primo tomo una Dissertazione storica e critica sopra il teatro antico e moderno, in cui esponeva la sua ars poetica. Questi i punti essenziali: i teatri furono istituiti per giovare alla società; le opere sceniche devono avere per fine non il divertimento, ma "la riformazion de' costumi"; i precetti degli autori antichi sono importanti, ma quel che conta maggiormente è il consenso del popolo; le unità aristoteliche vanno comunque rispettate per poter "rendere universale il carattere d'una buona commedia"; le opere teatrali vanno scritte in versi e il martelliano è il verso più adatto per la commedia; lo stile deve essere facile e piano, mai triviale. Queste e altre riflessioni, che del resto nella pratica sovente non seguiva, sono esposte in una forma un po' confusa e contraddittoria, come i suoi critici non mancarono di rilevare (cfr., per es., Memorie per servire all'istoria letteraria per l'a. 1756, VIII, p. V).
Quanto alla questione principalissima delle maschere qui non se ne parla, ma il C. ne aveva accennato nella commedia Il poeta comico (1754), ove, esaltando la sua "riforma", aveva affermato, in contrasto col Goldoni, che le maschere non andavano eliminate, ma soltanto meglio regolate. In effetti, nella prima fase della sua attività teatrale (1749-52) le sue commedie sono in prosa e con le maschere, e in alcune il dialetto veneziano assume un particolare rilievo (Il buon padre di famiglia,La madre di famiglia,I nemici del pane che mangiano,La conciateste moglie di Truffaldino marito tre volte buono). Nel periodo successivo delle commedie in versi, invece, malgrado l'affermazione succitata, le maschere appaiono irrimediabilmente confinate a un ruolo del tutto secondario, fino a scomparire, anche se le commedie in veneziano compaiono ancora (La serva senza patron,Gli amanti in collera,El marìo cortesan,La donnadi spirito,L'uomo di buon cuore,La famiglia stravagante,Le vicende della fortuna).
Il C. rimase al S. Angelo fino al carnevale del 1760. In questi anni la rivalità col Goldoni andò gradatamente scemando, tanto che praticamente dopo essersi punzecchiati rispettivamente con I malcontenti (l'abate veniva ridicolizzato nel personaggio di Grisologo) e con Marco Accio Plauto (contenente alcuni spunti antigoldoniani), che sono del 1755, non ci sono da registrare altri episodi di rilievo. Dello stesso anno sono anche gli opuscoli antichiaristi dello scrittore raguseo Stefano Sciugliaga (Censure miscellanee sopra la commedia ...), che avevano alimentato la polemica.
Contro l'abate bresciano aveva scritto violente satire anche Giacomo Casanova in quel 1755, probabilmente per vendicarsi di essere stato ritratto nel personaggio del signor Vanesio nel romanzo La commediante in fortuna. Qualche anno dopo l'avventuriero genovese Giacomo Passano, sotto lo pseudonimo di Antonio Pogomas, diffondeva una raccolta satirica di trecento sonetti, intitolata Chiareide (ancora inedita presso la Bibl. Estense di Modena).
Il fatto nuovo fu l'inizio di una nuova e ben più grave polemica, suscitata da Carlo Gozzi e dagli accademici granelleschi, che veniva a coinvolgere insieme il C. e il Goldoni.
Si trattava di una polemica con esplicite motivazioni d'ordine letterario, ma fin dall'inizio, con la pubblicazione nel 1757 dell'almanacco La tartana degl'influssi per l'anno bisestile 1756, apparve evidente che le ragioni erano più profonde e generali, in quanto le critiche rivolte ai due poeti erano soprattutto di natura morale e ideologica. Cioè l'Accademia dei Granelleschi, in quanto roccaforte del conservatorismo veneziano, non poteva che opporsi alle nuove idee che, pur nei loro rispettivi e differenti limiti, il Goldoni e il C. andavano diffondendo. Proprio la virulenza delle polemica viene ad evidenziare l'effettiva importanza che ad essa veniva attribuita. Per quanto riguarda specificatamente il C., le critiche del Gozzi e dei consoci prendevano di mira soprattutto quelle "rappresentazioni meravigliose ed eroiche", che il pubblico invero mostrava di prediligere, dal Kouli-kan re di Persia alla Madre tradita, a L'amore di libertà, a L'amore della patriao sia Cordova liberata da' Mori, fino alle prime due opere sceniche ricavate dall'Eneide, e cioè Elena rapita e La rovina di Troia (in cui è da notare che il verso martelliano era ormai stato definitivamente sostituito dall'endecasillabo sciolto). Lo misero in ridicolo ribattezzandolo col nome di "saccheggio" ma per il momento l'abate decise di non replicare.
Con l'autunno del 1760 egli ritornò al S. Giovanni Grisostomo, ancora al seguito della compagnia Medebach, e quindi nuovamente al servizio dei Grimani. Il debutto avvenne con la commedia La notte critica, e un prologo d'occasione, che diedero motivo alla ripresa della polemica sulle pagine della Gazzetta veneta di Gasparo Gozzi. Quindi fece rappresentare le rimanenti due opere della tetralogia virgiliana, La navigazione d'Enea ed Enea nel Lazio. IGranelleschi intensificarono le loro critiche e Carlo Gozzi non gli diede tregua, continuando a ridicolizzare le sue opere in particolare negli Atti degl'Accademici Granelleschi (1760-61), nel poema satirico Marfisa bizzarra del 1761 (nel personaggio di Marco) e nelle fiabe teatrali dello stesso anno, L'amore delle tre melarance (nelle vesti della fata Morgana) e nel Corvo. Il C. uscì dal suo silenzio, prima facendo stampare, a cura di un suo fedele discepolo, Placido Bordoni, un'ampia silloge in tre tomi di Poesie e prose italiane e latine, quasi una sfida ai suoi detrattori, e poi, sempre nel 1761, affirontandoli direttamente e aspramente ribattendo le loro critiche con l'operetta Riflessioni sul genio e i costumi del secolo. Il Gozzi non tardò a rispondere con l'opuscolo Fogli sopra alcune massime del genio e costumi del secolo dell'abate P. C. e contro a' poeti Nugnez de' nostri tempi, ove tuttavia la satira appare assai più contenuta del solito, come a voler concludere una polemica protrattasi troppo a lungo.
Ma gli ultimi anni del C. sulla laguna sono da ricordare anche per altri avvenimenti. In primo luogo per l'avvenuta riconciliazione nel 1761 col Goldoni, salutato in un'anacreontica con gli appellativi di "degnissimo comico vate" e di "poeta amico"; e poi per essere subentrato a Gasparo Gozzi nella compilazione della Gazzetta veneta.
Di questo famoso periodico il C. fu il redattore dal 7 febbr. 1761 al 10 marzo 1762 (complessivamente centodue numeri). Secondo il giudizio di A. Piazza: "Il Chiari la fece da romanziere quando non poteva farla da scrittore storico, ed empiva il vuoto dei fogli suoi col parafrasare alcuni testi di classici autori latini, e collo spargere della erudizione quando l'opportunità o il non saper che dire, gliene dava impulso. Dicendo il vero o narrando favole, era sempre leggiadro, affluente e ingegnoso, e finch'esso continuò l'accennato foglio, non mancò ad esso buon numero di compratori" (Gazzetta urbana veneta, n. 1, 2 giugno 1787).
Nell'aprile del 1762, quasi contemporaneamente, mentre il Goldoni partiva per la Francia, anche l'abate C. lasciava per sempre Venezia e si ritirava a Brescia ove visse per oltre un ventennio in operosa solitudine.
Il C. morì a Brescia il 31 ag. 1785 e fu sepolto nella chiesa dei SS. Nazaro e Celso.
Scrisse molto anche in quest'ultimo periodo. Parecchi romanzi, tra cui: La viniziana di spirito (1762), L'amante incognita (1765), La vedova di quattro mariti (1771), L'isola della fortuna (1774), La cinese in Europa (1779) e Le pazzie fortunate in amore (1783). Tra le altre opere ricordiamo: Commedie da camera ossia Dialoghi familiari (1770-71), il poemetto filosofico in quattro canti La verità (1778), una specie di zibaldone in dodici volumetti intitolato Trattenimenti dello spiritoumano sopra le cose del mondo passate,presenti e possibili ad avvenire (1780-81).
Scrisse inoltre diversi libretti per il teatro musicale, a cominciare da Alcimena principessa dell'Isole Fortunate (1749, musica di B. Galuppi) a La bella Girometta (1761, musica di F. G. Bertoni), Il marchese villano (1762, musica di B. Galuppi), L'astrologa (1762, musica di N. Piccinni), Le serve rivali (1766, musica di T. Traetta), Le orfane svizzere (1770, musica di A. Boroni), Il ciarlatano in fiera (1774, musica di G. Gazzaniga), ecc.
Postumo uscì il poemetto bernesco Il teatro moderno di Calicut (1787), mentre rimase incompiuta la sua opera più ambiziosa, la Storia universale di tutto le lingue ("èpiena di tutta l'erudizione possibile su tale argomento, e mi costa delle fatiche enormi, e della sofferenza incredibile").
Di tale sterminata produzione (qualcosa come trecento opere, complessivamente) oggi non è rimasto quasi più nulla e il nome dell'abate bresciano continua a vivere pressoché esclusivamente di riflesso in relazione alla polemica col Goldoni. Risultano sostanzialmente esatte, nella prospettiva del tempo, le acerbe critiche del Baretti, che esortava non solo a non leggere alcuno dei suoi romanzi, ma "neppure alcun'altra cosa scritta dall'abate Chiari "(Frusta letteraria, n. XVII); come pure le gravi riserve moralistiche del Tommaseo, il quale individuava in lui un tipico esemplare e del vivere veneziano e italiano d'un secolo fa" (Opere, II, Firenze 1968, p. 375).
Tra le tante collezioni delle opere del C. vanno ricordate come le più importanti: Lettere scelte di varie materie piacevoli,critiche ed erudite scritte ad una dama di qualità, 2 voll., Venezia 1750 (n. ed. in 3 voll., ibid. 1752); Commedie rappresentate ne' teatri Grimani di Venezia cominciando dall'anno 1749, 4 voll., ibid. 1752-58; Raccolta di componimenti poetici fatti in varie occasioni, ibid. 1755; L'uomo. Lettere filosofiche in versi martelliani, ibid. 1755 (2 ed., ibid. 1758); Commedie in versi, 10 voll., ibid. 1756-62; La filosofia per tutti. Lettere scientifiche in versi martelliani sopra il buon uso della ragione, ibid. 1756; Ilgenio e i costumi del secolo corrente, ibid. 1761 Poesie e prose italiane e latine, 3 voll., ibid. 1761; Gazzetta veneta, ibid. 1761-62; Nuova raccolta di commedie in versi, 2 voll., ibid. 1763-64; Commedie da camera ossia Dialoghi familiari, 2 voll., ibid. 1770-71; Nuova raccolta di commedie in versi, 10 voll., ibid. 1774; Tragedie, Bologna 1774; La verità. Canti IV, Brescia 1778; Trattenimenti dello spirito umano sopra le cose del mondo passate,presenti e possibili ad avvenire, 12 voll., ibid. 1780-81; Il teatro moderno di Calicut. Canti berneschi. Venezia 1787; Collezione completa dei romanzi, 4 voll., ibid. 1819.
Edizioni moderne: Le memorie di madama Tolot ovvero La giuocatrice di lotto, romanzo, a cura di A. Consiglio, Roma 1960; Pagine scelte, in G. F. Malipiero, I profeti di Babilonia, Milano 1924; in A. Della Corte, Satire e grotteschi di musiche e di musicisti di ogni tempo, Torino 1946; e in Antologia della letteratura italiana, diretta da M. Vitale, Il Settecento e l'Ottocento, a cura di G. Petronio, Milano 1968.
Per la bibliografia dei romanzi si veda la sottocitata opera di G. B. Marchesi, mentre per i lavori teatrali e per i libretti per musica si può ricorrere all'Enc. d. Spett., sub voce.
Fonti e Bibl.: Venezia, Civico Museo Correr, cod. Cicogna 2395: Composizioni uscite sui teatri commedie e poeti nell'anno 1754 in Venezia; Modena, Bibl. Estense, Est. it. 685, 7: G. Passano, La Chiareide; G. A.Costantini, Lettere critiche giocoso,morali,scient. ed erudite,alla moda ed al gusto del secolo presente, VII, Venezia 1750; Della vera poesia teatrale. Epistole poetiche di alcuni letter. modanesi dirette al sig. abate P. C. colle risposte del medesimo, Modena 1754; S. Sciugliaga, Censure miscellanee sopra la commedia..., Venezia 1755; Atti degl'Accademici Granelleschi, Venezia 1760-1761; G. Gozzi, Gazzetta veneta, Venezia 1760-61 (nuova ed. a cura di A. Zardo, Firenze 1957, ad Ind.); C. Gozzi, Fogli sopra alcune massime del genio e costumi del secolo dell'abate P. C. e contro a' poeti Nugnez de' nostri tempi, Venezia 1761; G. Baretti, La Frusta letteraria, Rovereto [Venezia] 1764, nn. XVII e XXI; C. Gozzi, Opere, I-VIII, Venezia 1772-74; C. Goldoni, Mémoires, I-III, Paris 1787; C. Gozzi, Mem. inutili della vita di C. G. scritte da lui med. e pubbl. per umiltà, I-III, Venezia 1797-98; V. Peroni, Bibl. bresciana, I, Brescia 1816, pp. 257-62; N. Tommaseo, C. P., in E. De Tipaldo, Biogr. degli Ital. ill., VII, Venezia 1840, pp. 218-260; G. Guerzoni, Ilteatro ital. nel sec. XVIII, Milano 1876, pp. 184-89; A. Neri, Goldoni e C., in L'Illustr. ital., 23 nov. 1884, pp. 327-30; Id., Goldoni,C. e G. Gozzi, in Scena illustr., 15febbr. 1886; G. B. Marchesi, I romanzi dell'abate C., Bergamo 1900; A. Parducci, La tragedia classica ital. del sec. XVIII anter. All'Alfieri, Rocca San Casciano 1902, ad Ind.;G. Sommi Picenardi, Un rivale del Goldoni. L'abate C. e il suo teatro comico, Milano 1902; A. Valentini, C. P., in Memorie dell'Accad. di scienze lettere ed arti degli Agiati di Rovereto, Rovereto 1903, p. 359; G. Ortolani, Settecento. Per una lett. dell'abate C. Studi e note, Venezia 1905; Della vita e dell'arte di C. Goldoni. Saggio storico, ibid. 1907, pp. 53-84; A. G. Spinelli, Comparazione scritta nel 1754 fra il teatro del Goldoni e quello del C., tolta da un ms. dell'Universitaria di Bologna, in Modena a Carlo Goldoni, Modena 1907, pp. 323-34; B. Ziliotto, C. Goldoni e l'Istria, in Il Palvese, 24 febbr. 1907; R. Bratti, La moglie "saggia" dell'abate C., in Ateneo veneto, XXXI (1908), 1, pp. 28-36; R. Guastalla, Noterella goldoniana, in Giorn. stor. e lett. della Liguria, IX (1908), 10-12, p. 440; A. Ravà, G. Casanova e l'abate C., in Nuovo Arch. veneto, n. s., XI (1911), 1, pp. 183-98; A. Zardo, Un prologo del C. e la "Gazzetta Veneta", in Riv. d'Italia, 15 ag. 1922; C. Musatti, "La Veneziana a Parigi", in Il Marzocco, 31 ott. 1926; V. Preziosi. Il Goldoni e il C. nella "Marfisa bizzarra" di C. Gozzi, in Annuario del Liceo Colletta di Avellino, 1931-32; G. Michelotti, Ombre al proscenio, Torino 1937, pp. 17-22; D. Lucchesi, Kulturgeschichtl. Betrachtung von P. C.'s "Commedie", München 1938; G. Ortolani, Note in margine alla riforma goldoniana. La fortuna dell'abate C., in Rivista ital. del dramma, IV (1940), 1, pp. 39-71; P. B. Gove, The imaginary voyage in prose fiction..., New York 1941, ad Ind.;B. Brunelli-U. Rolandi, C. P., in Enc. d. Spett., III, Roma 1956, coll. 635-38; R. Rebora, Goldoni e C., in Celebri polemiche letter., Lugano 1957, pp. 25-41; Giornali veneziani del Settecento, a cura di M. Berengo, Milano 1962, ad Ind.;G. Nicastro, Goldoni e il teatro del secondo Settecento, Bari 1974, pp. 88-91; D. Ortolani, Note ad alcuni romanzi di P. C., in Studi di filologia e letter. dedicati a V. Pernicone, Genova 1975, pp. 281-312; G. Petrocchi, Il soldato francese, in Critica letter., IV (1976), 1, pp. 3-11; P. Bosisio, C. Gozzi e Goldoni, Firenze 1979, ad Indicem.