CALEFATI, Pietro
Nacque a Piombino il 13 luglio 1499 da Niccolò e da Elettra Lupi, in un'antica famiglia che aveva abbandonato Pisa dopo la conquista fiorentina del 1406.
Sua madre discendeva da "due delle più nobili, e principali case" pisane (Vita, c. Iv); morì giovanissima, quando il C. aveva appena tre anni. Notizie più precise si conservano sulla famiglia paterna. Il nonno Pietro era stato tesoriere e poi governatore dei signori di Piombino, Iacopo III e Iacopo IV Appiani, mentre il padre Niccolò aveva ricevuto da papa Alessandro VI, durante il breve dominio dei Borgia su Piombino, il titolo ereditario di conte palatino, "benché a Niccolò ciò non piacesse, per la servitù che aveva co' Signori d'Aragona e d'Appiano" (ibid., c. 1r). In effetti, la fedeltà agli Appiani non fu incrinata da questo episodio, se al ritorno di Iacopo IV Niccolò ottenne la carica di tesoriere, "e seguì mentre visse col Signor Iacopo quinto" (ibid.). Morì infine "come un Santo" nel 1517, all'età di cinquantotto anni, in fama d'"huomo di gran giuditio, e di probatissimi costumi" (ibid.).
Nel 1514 il C. fu inviato a Siena dal padre per studiar leggi, ma di qui passava poi a Pisa già l'anno seguente, quando vi fu riaperto lo Studio, illustrato da molti nomi di grande prestigio. Di lì a poco, infatti, vi sarebbe giunto Agostino Nifo, mentre già v'insegnava diritto Filippo Decio, che del C. fu "principal precettore" (ibid., c. Iv). Coinvolto probabilmente in una delle risse che agitavano la vita universitaria, ma che a Pisa si coloravano anche di profondi motivi politici e culturali, il C. fu costretto ben presto a tornare a Siena e a mantenervi un atteggiamento più prudente.
A Siena ebbe come maestri di diritto Simone Borghese e Girolamo Viero, e qui, dopo "fatiche di tre anni incredibili", si avviava a conseguire la laurea, quando il sopraggiungere della peste lo costrinse di nuovo a trasferirsi a Pisa. Vi studiò con impegno per altri tre anni, "essendo spesso nelle dispute", sotto la guida soprattutto di Filippo Decio, ma anche di Ormanozzo Deti e di Mariano Socini il Giovane. Nell'aprile del 1525, infine, promotori il Decio e il Deti, conseguì il dottorato.
Si recò quindi a Piombino, "a riveder le cose sue", ma con l'intenzione di ritornare al più presto a Pisa, dove aveva avuto promessa d'una cattedra di diritto civile, che invece sfumò ben presto tra i pericoli della guerra. Accettò allora rincarico di sindaco e giudice delle Appellazioni e della Mercanzia a Lucca, dove era stato eletto con una dispensa circa i requisiti richiesti dell'età superiore ai trentacinque anni e della laurea da almeno sei. Assunse l'ufficio il 1º marzo 1527, ma alla scadenza, sei mesi dopo, respinse l'offerta di rinnovo del gonfaloniere lacopo Amoffini, per non contrariare il duca di Urbino Francesco Maria della Rovere, che aveva già presentato un successore.
Ritiratosi a Piombino, vi rimase tre anni, ricoprendo in tempi diversi la carica di podestà e di vicario generale del feudatario. Nell'anno 1530 accompagnò Iacopo V Appiani a Bologna per l'incoronazione di Carlo V e in quella occasione conobbe Cesare Pallavicino, nei feudi del quale esercitò le funzioni di luogotenente generale dal 1533 al 1535, quando ottenne di nuovo l'incarico a Lucca di sindaco e giudice delle Apponi e della Mercanzia. Scaduto l'ufficio, si trasferì a Pisa, aspettando "migliore occasione", e tuttavia rifiutando l'invito del Pallavicino a ritornare nei feudi lombardi.
A partire dal 1º luglio 1536, esercitò per due semestri a Siena la carica di giudice ordinario. Nel marzo 1537 ricevette dalla corte imperiale il riconoscimento dei titoli di conte palatino e concistoriano e di cavaliere aurato.
Nel 1541 era di nuovo a Lucca, ma nello stesso anno gli giunse la nomina per la Rota senese, che l'inseriva in un tribunale autorevole su un piano non puramente locale, assicurandogli a un tempo una posizione di prestigio e un appannaggio cospicuo. Ricopriva ancora l'ufficio, quando nel 1544 fu richiamato da Iacopo V per un'ambasceria a Carlo V, che era allora in Fiandra. Partì nell'ottobre dello stesso anno, e il Panziroli soggiunge che rimase due anni presso la corte imperiale, come precettore di Iacopo VI, ancora minore alla morte del padre.
In realtà il C. dové più probabilmente partecipare, fra il '44 e il '45, alle difficili trattative che gli Appiani conducevano già da tempo con Carlo V, intorno alla cessione di Piombino in cambio di un compenso corrispondente nel Regno di Napoli o nel Ducato di Milano. La morte di Iacopo V nell'ottobre del '45 segnò la fine delle trattative e la crisi definitiva dell'indipendenza del feudo. Sottoposto Iacopo VI alla tutela dell'imperatore e a un Consiglio di reggenza presieduto dalla madre, Piombino si avviava ad essere ceduta a Cosimo, come difatti avvenne nel 1548.
Il C. era entrato nel Consiglio di reggenza fin dal '45, con posizione eminente, e nel giugno del '48 era poi fra gli ambasciatori inviati a Cosimo per prestargli obbedienza e chiedergli la conferma dei privilegi. Forse furono proprio questi incarichi di rilievo politico a consentirgli di ottenere finalmente la cattedra ambita. I rotuli pisani pubblicati dal Fabroni indicano il '46 come data d'inizio del suo insegnamento. In realtà fin dal 1544, prima ch'egli partisse per le Fiandre, il duca, "havendo deliberato rimettere lo studio in Pisa, l'haveva fatto iscrivere nel Rotolo alla prima Cattedra della sera de l'ordinario di ragion Canonica" (ms. Vat. lat.8262, f. 119v). Tuttavia egli non poté allora neppure iniziare i corsi. Tornato in Italia nel 1546, si trattenne a Piombino un anno, per svolgervi le sue funzioni nel Consiglio di reggenza, in attesa che Iacopo VI raggiungesse la maggiore età. Infine, "essendoli fatto intendere li sarebbe dato honorata lettura nello Studio di Pisa in raggione Civile, poi che conoscevano non li piaceva leggere in Canonico" (ibid.), si trasferì a Pisa, dove ottenne un lettura ordinaria di diritto civile a partire dal '48, dapprima affiancando nell'insegnamento Francesco Vegio, e poi succedendogli nella qualità di professore primario dalla fine del '54, 0 piuttosto dal 1555. Tenne la lettura principale mattutina fino alla morte, avvenuta nel 1586.
Dai corsi universitari del C. derivarono le Enarrationes in aliquot leges Digestorum, stampate a Firenze nel 1564, e le Enarrationes in Rubr. et l. I Codicis de edendo, pubblicate a Bologna nel 1566. Il suo biografo, ricordava anche delle "letture sopra tutti quattro l'ordinarij della mattina… da mandare alla stampa, e molte aggiunte all'ordinario de offi. § I, stampato" (Vita, c. 4v). Tuttavia la fama del C. non fu legata alle lecturae, e neppure ai versi, di cui la Biblioteca Palatina di Parma (Pal.557, f. 164) conserva un mediocre saggio. Ben più nota fu la sua attività di consulente, alla quale Ippolito Seta riferiva nel 1581 l'iperbolica cifra di oltre milleduecento consigli. Qualche anno prima, con maggiore verosimiglianza, l'anonimo biografo ne aveva contati poco più di seicento (Vita).Diessi comunque si conoscono solo quei pochi inseriti da G. B. Ziletti nella sua raccolta di Consilia criminalia (Venetiis 1582, I, pp. 95 ss.; II, pp. 72 ss.). Una certa risonanza ebbe anche un suo Speculum verae politicae nobilitatis, Lucae 1564 (ripubblicato in italiano lo stesso anno), che affrontava un dibattito certo non nuovo, ma vivo e attuale nella cultura italiana del maturo Cinquecento.
L'opera si proponeva di definire il concetto di nobiltà e, seguendo uno schema tipicamente giuridico, i modi d'acquisto, di trasferimento e di perdita di questo status. Circa il tema cruciale del rapporto fra virtù e nobiltà, il C. si preoccupava di conciliare alla meglio l'esigenza moralistica di concepire una nobiltà informata alle virtù cristiane e l'apologia delle forme concrete del dominio politico. Egli perciò, secondo una tendenza già diffusa nel pensiero italiano della Controriforma, riprendeva la distinzione di Bartolo tra nobiltà "naturale" e "politica", che diventava nel nuovo contesto uno strumento prezioso per costruire un efficace quadro teorico a sostegno di scelte obbligate o dettate dall'opportunità. La sola virtù non sembrava al C. potesse giustificare l'acquisto di nobiltà (c. 8v n. 19), e neppure la sola dottrina, o le ricchezze, tranne nel caso, ormai frequente e di fatto indiscutibile, dell'acquisto di feudi (c. 10r nn. 26-27). Si riconosceva che "qui meruit sua virtute nobilitatem habere, magis dicitur nobilis, quam is, qui ex nobili genere descendit: quia ex genere non est aliquis nobilis, nisi praesumptive"; ma seguendo Cino e Boezio si precisava che "magis ad nobilitatem trahi, qui de nobili genere procedit" e che "eumqui sua virtute pollet, et parentum habeat imagines, magis praeferendum esse" (c. 8r n. 13).In tal modo la soluzione di aporie evidenti anche in opere di altri trattatisti scaturiva dal riconoscimento all'aristocrazia di un'ereditaria propensione per la virtù. L'esercizio delle arti "meccaniche" e della mercatura appariva infine incompatibile con lo status nobiliare (cc. 18r-19y nn. 68-71). Un'eccezione, piena di riserve, si faceva come d'uso per Genova e Venezia, autorizzando la mercatura grossa, che pure in quegli stessi luoghi "qualcosa toglieva alla vera nobiltà", e vietando del tutto la piccola.
Sugli stessi temi, con un'ottica ancor più limitata alle sole questioni tecnico-giuridiche dei diritti di precedenza, il C. ritornò nel 1567 con un Tractatus aureus de equestri dignitate, pubblicato a Milano nel 1581 con una presentazione del suo vecchio allievo Ippolito Seta, e poi ristampato nei Tractatus universi iuris (Venetiis 1584, XVIII, ff. 27v-32v) e nel Ius publicum Imperii Romani, curato da Conrad Bierman (Francoforti 1620, II, pp. 565-606).
Il tentativo di sistemazione della materia, riassumendo le varie fonti giuridiche medievali, sebbene scarsamente originale nei contenuti, aveva tuttavia i caratteri dell'attualità, poiché la dignità cavalleresca costituiva un facile espediente per nobilitarsi. Il C. concludeva anche qui per un primato, in sostanza, della nobiltà del sangue, sia pure variamente mitigando l'affermazione ed osservando che "praesumptio est, quod princeps ob merita …contulerit dignitatem" (Tractatusuniversi iuris, ff. 28r n. 8, 30r n. 61).Inoltre riappariva il consueto motivo boeziano della preminenza d'una virtù rafforzata dal sangue, e si faceva valere soltanto la necessità d'un riconoscimento per quei maestri che, come il C., insegnassero da almeno vent'anni (ibid., f.30vn. 81).
Fonti e Bibl.: Pisa, Bibl. univ., ms. 734: Vita di P. C., cc. 1-5 (il ms., mutilo della parte centrale, e perciò utilizzabile solamente per gli anni fino al 1544, fu composto nel 1574da persona vicinissima al C., del quale a c. 5r compaiono alcuni versi autobiografici); Bibl. Apost. Vatic., ms. Vat. lat.8262, ff. 119-119a: Copia del sommario della vita dell'Ill. P. C. (la biografia, forse dipendente dalla precedente, ne colma utilmente le lacune per il periodo 1544-1548;nello stesso cod., f. 5, sono conservati alcuni sonetti del C.; G. Panziroli, De claris leguminterpretibus, Lipsiae 1721, pp. 293-294; A. Fabroni, Historia Academiae Pisanae, II, Pisis 1792, pp. 181-183, 465; L. Cappelletti, Storia della città e Stato di Piombino, Livorno 1897, pp. 168, 170, 183.