Bembo, Pietro
Il celebre letterato e poeta (Venezia 1470 - Roma 1547) ha un posto di primo piano nella storia degli studi danteschi per l'edizione da lui curata della Commedia e per i giudizi e rilievi sull'opera di D. inclusi nelle sue Prose della volgar lingua. L'edizione apparve a Venezia nell'agosto del 1502, stampata da Aldo Manuzio nel formato piccolo e coi nuovi caratteri corsivi da lui inaugurati l'anno prima. Il nome del B. non figura, né Aldo aggiunse di suo alcuna prefazione o appendice, come era solito fare, come ad esempio aveva fatto l'anno prima nell'edizione, pure curata dal B., delle Rime del Petrarca. Ivi, nella nota finale, egli aveva promesso " in brieve un Dante non men corretto che sia il Petrarca, anzi tanto più ancora... quanto sanza fine più sono e luoghi ne' quali Dante incorrettissimo si vedea, che quivi non si vederà, che quegli non sono, ne' quali si leggea manchevole il Petrarca ". L'edizione della Commedia altro non contiene che il nudo testo, senza il titolo ormai tradizionale, sostituito sul frontispizio dal nuovo titolo escogitato dal B. né mai più ripreso da altri, Le terze rime di Dante, e a giro di pagina dal sottotitolo esplicativo Lo 'nferno e 'l Purgatorio e 'l Paradiso di Dante Alaghieri. Nel testo sono per la prima volta escluse le abbreviazioni e divise le parole secondo grammatica. È abbondantissima la punteggiatura, e costante l'uso dell'apostrofe e dell'accento grave in è verbo (eccezionale l'acuto su e media: piéta). La novità del testo subito risulta da un confronto con la volgata di allora, cioè col Dante del Landino.
Non fu novità di lezioni singole, che il B. non era allora in grado di accertare più di quanto fosse stato il Landino. Vero è che egli potè servirsi di un buon codice, appartenente a suo padre (l'odierno famoso Vaticano lat. 3199, di ascendenza boccaccesca e petrarchesca); ma notevole è che egli non si contentò di correggere la volgata secondo questo o altro codice: ignorò la volgata, e di sua mano, in quel che oggi è il codice Vaticano lat. 3197, compilò intiero il nuovo testo, quasi fosse stato inedito. Fu insomma la novità, ovunque perseguita e appariscente, di una diversa lingua, preumanistica, attribuita a D.; ne risultò un testo più autentico certo, ma più lontano e quasi rescisso dall'uso e dal gusto corrente. Questa improvvisa e ostentata rottura della tradizione, così per la lingua come per lo scarto del fortunatissimo commento del Landino e di ogni altro sussidio interpretativo, incontrò subito vivaci opposizioni, specie a Firenze, come risulta dall'edizione giuntina del 1506. Ma il testo del B. prevalse per la sua coerenza, per l'eleganza della stampa, e soprattutto per il successo che nei decenni successivi ebbe la riforma linguistica e letteraria imposta alla cultura italiana dallo stesso Bembo.
Giova a questo proposito ricordare che il B. era cresciuto in un ambiente devoto quant'altro mai al culto di Dante. Il padre, Bernardo, trovandosi a Ravenna come podestà, aveva provveduto al restauro della tomba del poeta (1483), spinto a ciò da un suo affetto giovanile, confermato poi, durante le sue ambascerie a Firenze (1474-76, 1478-80), da stretti e durevoli rapporti di amicizia coi maggiori rappresentanti ivi del culto dantesco, col Landino e col Ficino. E nella cerchia stessa del padre a Venezia il B. aveva conosciuto il Vinciguerra, che a D. si era ispirato per le sue satire e che a sua volta era stato amico del maggior dantista padovano del medio Quattrocento, Giovanni Caldiera.
Insomma, oltre che intorno a sé, il B. giovane sperimentò certo in sé, come famigliare e quasi connaturata, quella tradizione dantesca del tardo Quattrocento che nella sua edizione egli sottopose a così radicale revisione. È dunque probabile che già allora egli mirasse a una generale riforma linguistica e letteraria. Non sono però anticipatili a quella data senza cautele e riserve i giudizi sull'opera di D. inclusi nelle Prose della volgar lingua. Legittimo per la data, ma non conclusivo, è il riscontro, che pur s'impone, dei primi Asolani (1505), in cui l'influsso del Boccaccio e del Petrarca prevale, ma in cui D. è ben presente. Certo già allora il B. non credeva più alla terza rima, che gli pareva buon titolo per l'opera di D., né a una poesia narrativa e didattica. Certo preferiva già allora il Petrarca a D., e poiché il paragone fra i due era stato da gran tempo ed era un luogo comune della critica, è probabile che già allora il B. fosse giunto a chiarire i motivi della sua preferenza. A questo giro d'anni, e per la finzione dialogica proprio al 1502, si riferiscono le Prose della volgar lingua, in parte composte entro il 1512 e pubblicate a Venezia nel 1525. In esse fa spicco, nella chiusa del libro II, il giudizio su D., nell'opera del quale il B. ravvisava una sproporzione fra la " magnificenza e ampiezza del suggetto " e l'esecuzione poetica che gli appariva difettosa per l'uso di voci " rozze e disonorate ", per l'abuso dei contrasti di materia e di stile (accanto alla magnificenza " le bassissime e le vilissime cose ") e in genere per la presunzione dell'autore di voler essere, in opera poetica, " altro che poeta ". Questo giudizio, che nei termini della poetica rinascimentale non era controvertibile e che per suo rovescio aveva l'esaltazione a modello della poesia del Petrarca, ebbe un peso decisivo sulla storia degli studi danteschi e sulla fortuna di D. nel Cinquecento.
Era un giudizio fondato su una conoscenza dell'opera di D. eccezionalmente larga e sicura, come dimostrano nelle Prose le citazioni esplicite della Vita Nuova, del Convivio, delle Rime, e implicite del rarissimo allora De vulgari Eloquentia. Di qui e dalla conoscenza, anche più eccezionale allora, della letteratura italiana del Duecento e primo Trecento e dei suoi antecedenti provenzali, il B. ricavò e dimostrò nelle sue Prose un giudizio sulla posizione storica di D. che, a differenza dell'altro giudizio sulla poesia, controvertibile oggi sulla base di una diversa poetica (di D., non nostra), può considerarsi anche oggi pienamente valido. Egli riconobbe infatti, al di là del paragone retorico fra D. e il Petrarca, la pertinenza del primo a una tradizione linguistica e metrica, a un'età insomma, che non era quella del secondo, e così giunse a istituire il paragone, pur retorico e certo inadeguato ma non improprio, fra D. e Cino, fra la " gravità " dell'uno e la " piacevolezza " dell'altro. Il recupero della lingua toscana trecentesca, anteriore all'influsso umanistico, e di quella dugentesca, anteriore alle scelte del Petrarca e del Boccaccio, recupero operato dal B. nelle sue Prose, specie nel libro III, e ripreso durante il Cinquecento da studiosi, per lo più toscani, che dal B. dipendevano anche quando lo oppugnavano, fu e resta contributo fondamentale all'interpretazione di Dante.
Bibl. - Per l'edizione della Commedia: G. Folena, La tradizione delle opere di D., in Atti del congresso internaz. di studi d., I, Firenze 1965, 57, 65-66. Per le Prose della volgar lingua: P.B., Opere in volgare, a. c. di M. Marti, Firenze 1961; Prose e Rime, a c. di C. Dionisotti, Torino 1966. Per le premesse e gli effetti: M. Barbi, Della fortuna di D. nel sec. XVI, Pisa 1890; G.C. Ferrero, D. e i grammatici della prima metà del Cinquecento, in " Giorn. stor. " CV (1935) 1-59; C. Dionisotti, D. nel Quattrocento, in Atti del congresso internaz. di studi d., I, Firenze 1965, 376-378; E. Bigi, La tradizione esegetica della Commedia nel Cinquecento, in Atti del convegno di studi su aspetti e problemi della critica dantesca, Roma 1967, 18-48.