BARDI, Pietro
Figlio di Gualtieri di Iacopo, nacque forse verso la fine del sec. XIII o nel primo decennio del successivo; è probabile che sua madre sia stata la seconda moglie di Gualterotto, Piera di Villano di Stoldo, anziché la prima. Nel 1325, quando era già stato insignito della dignità cavalleresca, fu scelto a far parte del corpo dei "feditori" che combatté ad Altopascio. Per valore militare, per nobiltà di stirpe, per ricchezze personali, egli fu uno dei personaggi più rappresentativi della famiglia ed ebbe una parte notevole nella vita politica cittadina del suo tempo. Assieme al fratello Andrea, acquistò i feudi appartenenti a Margherita di Nerone Alberti, moglie di Benuccio Salimbeni e sua suocera: Andrea entrò in possesso del castello di Mangona, il B. comprò la rocca di Vernio (alta valle del Bisenzio), sborsando 10.000 fiorini, il 14 ott. 1332, per il tramite di Chiavello Machiavelli e di Palla Strozzi. Ne prese possesso nel 1335 e si impegnò nel governare il feudo, per il quale fece compilare nuovi statuti nel 1338. Non dovette usare molti riguardi nel tentativo di allargare i propri beni e quindi la propria potenza nel contado, se i monaci di Montepiano lo accusarono diessersi impadronito dei beni del loro convento e si appellarono contro di lui all'abate generale dell'Ordine vallombrosano. La potenza del B. non mancò di insospettire il governo popolare, che intervenne negli affari del feudo: obbligò il B. a pagare 6.000 lire per offese arrecate a un suo vassallo; nel 1338 varò una legge perché nessun cittadino comperasse castelli ai confini della città "e ciò si fece, perché quelli della casa de' Bardi, per loro grande potenzia e ricchezza, aveano in quelli tempi comperato il castello di Vernia e quello di Mangona... dubitando il popolo di Firenze, che non montassono eglino e gli altri grandi di potenzia e superbia per abbattere il popolo, come feciono appresso non è gran tempo ..." (Villani, I. XI, cap. LXXIV, p. 152; cfr. Sapori, p. 124).
I sospetti che sostanzialmente il governo oligarchico mostrava di nutrire contro il B. dovevano dimostrarsi fondati. Egli, infatti, fu l'anima della congiura, scoperta il 10 nov. 1340, che si prefiggeva di rovesciare l'ordinamento della città e soprattutto la sua politica.
Sembra infatti di dover concordare con il Sapori nel vedere al fondo di essa non tanto un tentativo magnatizio come vorrebbe il Villani, quanto, di più, un tentativo di sostituire alla tradizione politica guelfa di Firenze una politica "ghibellina", sostenuto da quanti avevano ragioni di scontento, a titolo diverso, nei confronti della contemporanea situazione fiorentina. In particolare i Bardi, che erano tradizionalmente legati alla Curia romana ed ai suoi -.ostenitori, specie il re di Napoli, appoggiarono ed anzi furono tra i maggiori organizzatori della congiura, perché solo con lo schierarsi di Firenze contro il papato e a fianco dell'impero potevano sperare di vedere annullati i grossi impegni che avevano contratto con i baroni e gli ecclesiastici del Mezzogiomo, e che non erano più in grado di fronteggiare per le enormi spese sostenute nelle guerre di Francia, Lombardia e Lucca (Sapori, pp. 117-125).
Fallita la congiura - proprio un fratello del B., Andrea, la denunciò alla Signoria (accanto ai membri della Gens Bardorum troviamo gli Ubaldini, i Guidi e i Tarlati di Arezzo, i Pazzi del Valdamo, i Guazzalotri di Prato) -, il B. fu tra i colpiti dal primo provvedimento preso subito dalla Signoria: il 2 nov. 1340 fu condannato all'esilio e alla confisca dei beni; il 10 genn. 1341 fu escluso, insieme agli altri Bardi esiliati, dalla possibilità di riscattare la sua pena col pagamento d'una somma; il 15 gennaio dello stesso anno fu costretto a cedere Vernio al Comune, che l'aveva assediato, per 4960 fiorini d'oro: la Signoria, desiderosa di allontanare dal contado la pericolosa famiglia, pur versando in difficoltà finanziarie, preferì questo mezzo per evitare che un decreto di confisca giustificasse i propositi di rivincita e di vendetta del Bardi (Sapori, p. 130).
Mal rassegnandosi alla sconfitta, il B. tentò dapprima, invano, di sollevare contro Firenze la terra di Figline; poi si rifugiò a Pisa assieme agli altri Bardi e a molti fuorusciti, e si accordò con quella Repubblica per combattere Firenze, a patto di riceverne aiuti per conquistare S. Miniato, che sarebbe dovuto divenire un feudo personale. Firenze rispose duramente: il 7 ag. 1341 lo condannò a morte, alla confisca dei beni ed al bando perpetuo per i suoi discendenti assieme ad altri tredici fuorusciti; inoltre (15 sett. 1341) pose sul suo capo, come su quello degli altri esiliati, la taglia di mille fiorini d'oro. Ma neppure questi provvedimenti riuscirono a piegarlo. Con l'instaurarsi della signoria del duca di Atene in Firenze (8 sett. 1342), alla quale non poco aveva contributo il B., parve premiata la lunga lotta che contro Firenze questi aveva condotto durante l'esilio: Gualtieri di Brienne, infatti, nei suoi primi atti di govemo, venendo incontro agli interessi del B. e a quelli degli altri grandi, da una parte annullò (26 ott. 1342) i decreti contro i congiurati dei novembre 1340, dall'altra concesse una moratoria di tre anni al pagamento dei debiti delle società dissestate (26 ott. 1342, Cfr. Sapori, pp. 146-148); restituì Vernio al B., sostenendone successivamente le ragioni contro le pretese del conte Fazio degli Alberti che ne rivendicava la proprietà a suo padre, Napoleone (10 dic. 1342). Questo atteggiamento del duca di Atene non durò però a lungo: venuti meno i motivi che lo avevano indotto a prendere provvedimenti a favore dei grandi, dettati più da ragioni di convenienza temporanea che di sostegno ad una causa e ad una parte determinate, vennero meno anche i motivi d'appoggio da parte di quest'ultimi, delusi nella loro speranza di impadronirsi delle maggiori cariche cittadine e danneggiati da provvedimenti precisi, come l'annullamento degli assegnamenti ai cittadini colpiti dalle prestanze per le guerre di Lombardia e Lucca (Sapori, p. 149). Anche il B. quindi, che aveva provato la durezza della giustizia del duca di Atene - un figlio era stato condannato al taglio d'una mano, un altro al pagamento d'una forte multa per tentato stupro -, si unì a quanti tramavano per abbattere la dittatura di Gualtieri di Brienne e, in particolare, al gruppo dei grandi, capitanato dal vescovo della città Angelo Acciaiuoli e composto, oltre che dai Bardi, dai Rossi, dai Frescobaldi, dagli Scala, dagli Altoviti, dai Magalotti, dagli Strozzi, dai Mancini. Abbattuta la signoria del duca (2 ag. 1343), fece parte della balia presieduta dal vescovo Acciaiuoli e fu incaricato di sovrintendere alle operazioni mediante le quali la città fu suddivisa in quartieri, in luogo dei tradizionali sestieri. L'accordo fra magnati e popolani non durò però a lungo, soprattutto per il contrasto riguardante l'accesso alle',rnaggiori magistrature della città, cui i grandi tenevano, e in modo particolare i Bardi, che speravano così di riassestare le fortune della compagnia. Il B. fu ancora una volta a capo dei primi. I fatti del 22 settembre di quell'anno sono ben noti nella storia fiorentina. Il B., con i suoi consorti e con gli altri magnati, si difese strenuamente in Oltramo e si arrese soltanto dopo che, attraverso il ponte a Rubaconte, il popolo armato riuscì a passare nel quartiere conteso. Mentre le sue case andavano a fuoco, egli riuscì a fuggire a Vernio, di dove scrisse alla Signoria (30 settembre) proponendo un accordo e chiedendo l'assenso di poter restare nel suo dominio. La risposta fu affermativa, ma non lo tranquillizzò, tanto che si preoccupò di rinforzare le difese e di cautelarsi tenendo come ostaggi alcuni cittadini fiorentini transitanti per il feudo. La Repubblica, allora, gli intimò (1344) di recedere da questo atteggiamento e volle un segno concreto della sua sottomissione, chiedendo l'invio a Firenze della campana del castello; fece sentire inoltre la propria superiorità, intervenendo nella lite insorta tra il B. ed il conte di Montecarelli. La morte sopravvenuta improvvisa il 3 apr. 1345 troncò l'esistenza avventurosa di questo ardito feudatario.
L'esame degli aspetti già ricordati della biografia del B. non deve far dimenticare l'attività che egli svolse come uomo d'affari. Sappiamo che fu socio della compagnia; nel 1335 vi partecipava con quattro quote e tre quarti; nel 1340, per non coinvolgere la società nella condanna che lo colpì dopo la rivolta antipopolare del 10 novembre, fu usata la finzione di considerarlo uscito dalla compagnia il 31 Ottobre precedente. Sposò in prime nozze Beatrice di Andrea Mozzi e successivamente Albiera di messer Benuccio Salimbeni e di Margherita di Nerone Alberti. Ebbe molti figli, con i quali ebbe inizio la stirpe dei Bardi di Vernio.
Fonti e Bibl.: Firenze, Bibl. Naz., Carte Passerinì, n. 45, tav. XXIV; G. Villani, Cronica, a cura di I. Moutier, i. XI, cap. CXVIII, CXIX, vol. VI, Firenze 1823, pp. 217 s., 221, 222 S.; Marchionne di Coppo Stefani, Cronaca fiorentina, in Rer. Italic. Script., 2 ediz., XXX, 1, a cura, di N. Rodolico, p. 308; C. Paoli, Della Signoria di Gualtieri duca d'Atene in Firenze, in Giorn. stor. d. Archivi toscani, VI, 2 (1862), pp. 116 s., 118 s.; 3, pp. 169 s.; G. Capponi, Storia della repubblica di Firenze, I, Firenze 1875, pp. 196, 204, 213; F. T. Perrens, Histoire de Florence, IV, Firenze 1879, cfr. Indice; F. de' Bardi, Vernio, vita e morte di un feudo, Firenze 1883, pp. 37, 42 s.; A. Sapori, La crisi delle compagnie mercantili dei Bardi e dei Peruzzi, Firenze 1926, pp. 118, 124, 130, 157, 223. 247-249; B. Barbadoro, Le finanze della Repubblica fiorentina, Firenze 1929, pp. 622-623; Y. Renouard, Les relations des papes d'Avignon..., Paris 1941, p. 629.