ARETINO, Pietro
Nato ad Arezzo nel 1492, di umili ma non ignobili natali, lasciò adolescente la città nativa per Perugia, ove s'avviò, pare, alla pittura, mentre si dirozzava l'animo nell'amore della poesia, senza per altro abbeverarsi, com'era di moda, alle fonti dell'Umanesimo. Da Perugia o forse da Siena, verso il 1517, si trasferì a Roma, protetto prima dal banchiere Chigi, poi da Leone X e dal card. Giulio de' Medici. La lingua maledica, perennemente smaniosa di pungere, e soprattutto la prepotenza di dominatore e di gaudente, presto gli procacciarono, con amici e nemici molti, un nome temuto. Ma la sua fama si fece clamorosamente minacciosa quando dalla morte di Leone alla elezione di Adriano VI, per bocca di Pasquino, a cui aveva strappato l'abito accademico, l'Aretino divenne mordace volgare fustigatore dei cardinali e della corte pontificia. Lasciata prudentemente Roma prima dell'arrivo del papa fiammingo, ramingò fra Bologna, Firenze, Mantova, e, dopo una breve apparizione a Roma, fu ospite di Giovanni dalle Bande Nere, col quale strinse affettuosa amicizia. Eletto pontefice Clemente VII, l'Aretino tornò a Roma a profittare dei favori del suo protettore; per un po' riuscì a tenere a freno la pungente lingua, poi riprese a mordere, buscandosi nuovi nemici: fra questi il datario Giberti, che, colta l'occasione dei sonetti composti dall'A. su certi disegni osceni del Raimondi, lo costrinse ad allontanarsi dalla città. Quando vi tornò, creato dal papa cavaliere di Rodi, il Giberti, che si era apparentemente riconciliato con lui, non esitò, nel luglio del 1525, ad armare la mano del servo Achille Della Volta per sbarazzarsene. Queste pugnalate, rimaste impunite nonostante la loro gravità, inasprirono l'A., che scagliò volgari ingiurie anche contro Clemente; onde, rimessosi, credette meglio rifugiarsi presso Giovanni dalle Bande Nere, seguendolo al campo, fino a che la ferita riportata dal condottiero a Governolo non glielo strappò per sempre, nel novembre del 1526.
Senza un protettore e con molti nemici, fra i quali il Berni che da Roma continuava a lacerarlo con versi taglienti, l'A. si stabilì a Venezia. Qui, libero da ogni legame e lasciato tranquillo dalla Repubblica, che egli aveva l'accortezza di rispettare in tutte le manifestazioni del suo organismo politico, in breve si procurò in tanta copia agi, ricchezze e onori, che poté vivere fra i piaceri e il lusso più sfrenato; mezzo di guadagno, la penna, trasformata ora in strumento di elogio sperticato, ora in pugnale di freddo ricatto, per piegare i potenti a comprare con laute donazioni o la parola o il silenzio di lui. Quei pochi che esitarono o non vollero piegarsi davanti alla nuova potenza, sentirono nella viva carne la frustata della calunnia o dell'accusa, che li induceva quasi sempre. a ricredersi. Così a gara lo riverivano e lo donavano: primi, con un lungo codazzo di donatori illustri e oscuri, Francesco I, Clemente VII, Carlo V e Cosimo de' Medici. Non solo, ma, mentre l'A. si affezionava sempre più a Venezia, la cui libertà e suggestiva bellezza talvolta trasportano più in alto la sua ispirazione, quanti principi, politici, artisti, letterati capitassero nella singolare città, andavano a visitarlo, a pregarlo, a ingraziarselo, come una divinità da tenersi cara; "talché le mie scale - egli poteva scrivere - son consumate dal frequentar dei lor piedi, come il pavimento del Campidoglio dalle ruote dei carri trionfali". Al pari d'un monarca, egli distribuiva lodi e infamie coi "giudizî", coi "pronostici", con le lettere; profondeva con spensierata prodigalità le grandi somme che riceveva, talora per aiutare gli umili e i bisognosi, quasi sempre per godersi la vita con facili beltà e con gli amici, tra i quali assidui e festosi il Sansovino e il Tiziano.
Non che Venezia lo proteggesse da rancori e da odî; troppi nemici la lingua tagliente e ricattatrice gli aveva procurati. Il mediocrissimo Albicante, che tentò strappargli il favore dell'imperatore; il violentissimo Nicolò Franco, che, dopo essergli stato segretario, gli schizzò contro e per lunghi anni tutto il fiele della sua gelosia; quel fastidioso Doni, che dopo averlo servito e volgarmente adulato gli scaraventò addosso un obbrobrioso Terremoto, rappresentano, fra i tanti assalti contro l'A., tre dei più clamorosi e velenosi. Non gli mancò neppure un tentativo di processo per bestemmia e, pare, per sodomia, che lo costrinse a lasciare per poco Venezia, fino a che il processo non fu messo a dormire per l'intervento di alti personaggi; subì anche un'aggressione per vendetta d'un ambasciatore inglese calunniato; ebbe pure fra i tanti e facili amori la spina d'una tenace passione non corrisposta, anzi mal compensata, per una Perina Riccio. Ma queste furono nubi che non turbarono il cielo luminoso della sua fama e della sua libertina spensieratezza. Carlo V volle che l'A. cavalcasse alla sua destra, tra la folla accorsa a Peschiera a vedere l'imperatore; il comune di Arezzo gli conferì il titolo di gonfaloniere; gli artisti si offrivano per effigiarlo; altri coniavano medaglie in suo onore, le accademie si gloriavano di averlo socio; Giulio III lo trattò da pari a pari a Roma e lo nominò cavaliere di S. Pietro. Ci fu perfino chi s'interessò di fargli avere il cappello cardinalizio; ma il sogno accarezzato dall'ambizione del libellista, vasta quanto la sua popolarità, lo accompagnò fino alla morte, che lo colse all'improvviso, in Venezia, il 21 ottobre del 1556.
Tale la vita dell'Aretino disciolta dai veli della leggenda obbrobriosa, in cui veleno di nemici e zelo immoderato di moralisti l'avevano compressa. Egli, derivando direttamente dall'umanista maledico e rissoso, avido di denaro e di gloria quanto assetato di paganesimo e di bellezza, ne ha ereditati i difetti, senza averne la cultura, aggravandoli con la forza innegabile d'un ricco e fervido ingegno e con la prepotenza della sua personalità. Figlio del suo tempo, ma in quanto di meno nobile esso ebbe, l'uomo e lo scrittore mirarono ad un unico scopo: il godimento pieno e assoluto dei beni del mondo; al quale, come subordinò tutti gli atti della vita, così diresse tutti gli scritti. Panegirista e libellista o, come godeva d'essere chiamato, flagello divino, non solo non sentì mai la nobiltà dell'arte che educa, ma non esitò a infangarla di oscenità per soddisfare il suo egoismo di gaudente e divertire gli altri. Vien detto precursore del giornalismo e della libertà di critica e di stampa; la lode è vera solo se si aggiunge del giornalismo ricattatore e della critica e della stampa non moderate da alcun freno morale.
L'A. ha scritto molto, ma quasi sempre frettoloso e sgraziato. Lirico, l'antipetrarchismo di cui si fa spesso banditore nei suoi versi, per lo più d'occasione e sfoghi di satira irruente e di volgare comicità, procede in lui più da istintiva ribellione al petrarchismo dominante che da consapevolezza estetica. Presuntuoso epigono dell'Ariosto ne La Marfisa, ne L'Angelica, ne L'Astolfeida, poemi interrotti ai primi canti, e forse frammenti d'un solo poema in onore dei Gonzaga di Mantova, riesce meglio, perché il genere meglio si confà al suo spirito negativo, nel tentativo burlesco dell'Orlandino (questo ristampato nella Scelta di curiosità letterarie, Bologna 1868; e intorno ad esso v. A. Luzio, nel Giornale di filologia romanza, III, 1880, p. 68 segg.). Scrittore ascetico, per secondare le nuove tendenze della Controriforma (Umanità di Cristo, 1534; Parafrasi sopra i sette salmi della penitenza di David, 1534; II Genesi, 1538; Vita di Maria Vergine, 1539; Vita di S. Caterina Vergine, 1540; Vita di S. Tommaso d'Aquino, 1543: una scelta copiosa di passi di codeste Prose sacre è pubblicata a cura di Ettore Allodoli, Lanciano 1914), l'Aretino orpella la sua insincerità con una prosa ampollosa e fantastica che non di rado disconviene alla santità dell'argomento, offesa talora pur da intrusioni arditamente profane. Epistolografo, è il primo a pubblicare per le stampe lettere proprie (I, 1537; II, 1542; III, 1546; IV, 1550; V, 1550; VI, 1557; una ristampa, arricchita di preziose note bibliografiche, ne ha intrapreso F. Nicolini nella collezione degli Scrittori d'Italia e finora ne sono usciti i due primi volumi, Bari 1913-16); le lettere adulatorie e dettate dall'interesse abbondano di iperboli e di frasi secentistiche, le altre sono spesso ricche di spontaneità e di spigliatezza, caustiche, colorite e talvolta animate da un alito di modernità che preannunzia davvero il miglior giornalismo e la critica d'arte. Frammenti autobiografici e documenti storici di grande interesse, esse c'introducono nell'intimità della vita dell'A. e dell'ambiente corrotto del primo Cinquecento, con l'attrattiva della curiosirà e col fascino dell'arte. La quale, invece, s'immiserisce nel pantano di una vergognosa realtà, gorgogliante di sozzure, coi pornografici Ragionamenti (ristampati più volte in edizioni semiclandestine, e da ultimo a cura di D. Carraroli, Lanciano 1914, in 2 voll.), tutt'al più interessanti per la storia del costume; mentre col Dialogo delle corti (Venezia 1538, ristampato a cura di G. Battelli, Lanciano 1914) ci offre una vivace pittura dei malanni e dei pochi vantaggi che dà la vita delle corti e col Dialogo delle carte parlanti (carte da giuoco, ristampato a Lanciano 1914) un'arguta rappresentazione della vita contemporanea.
Da questa soprattutto traggono alimento le commedie dell'Aretino (Cortigiana, 1526; Marescalco, 1533; La Talanta e Lo Ipocrito, 1542; il Filosofo, 1546; ristampate a cura di N. Maccarrone, Lanciano 1914, in 2 voll.; e intorno ad esse vedi I. Sanesi, La Commedia, I, Milano 1911, pp. 231-47; T. Parodi, in Poesia e letteratura, Bari 1916, pp. 137-164); le quali, se per l'impronta di realtà, onde si distinguono dalle tante commedie cinquecentesche soffocate dall'imitazione latina, troppo sono state elogiate, hanno innegabili pregi e nel dialogo scoppiettante di brio e di arguzia e nella galleria di tipi e macchiette che le popolano, per quanto la fretta dell'autore non poco nuoccia all'elaborazione artistica. Più curata è l'Orazia (1546; ristampata con le Commedie), un tentativo di tragedia che si distanzia dai tentativi del tempo per una certa vigoria nell'ossatura e nella rappresentazione, per la riproduzione dei caratteri e dell'ambiente e per lo spirito di romanità che freme in tutta l'opera. Dal vincitore dei Curiazî, che soffoca in cuore l'affetto fraterno per esaltare la grandezza della patria, dal padre Publio che nella vittoria del figlio dimentica la tragica fine della figlia, dal popolo, che pur rispettoso della legge s'inchina davanti alla maestà di Roma rivendicata dal braccio del superstite Orazio, lo spirito di romanità prorompe schietto e imperioso in questa tragedia dell'Aretino, animando di sé l'endecasillabo sciolto, un po' cascante, e compensandoci della noia dei prolissi ragionamenti, che rendono piuttosto stentata l'azione.
Tutti gli scritti dell'A. furono, appena morto il loro autore, proibiti e le edizioni diventarono rare.
Un bel ritratto dell'A., opera del Tiziano, è a Firenze (Pitti); quello di Sebastiano del Piombo ad Arezzo (Palazzo del comune).
Bibl.: G. M. Mazzuchelli, La vita di P. A., Padova 1741; A. Graf, Un processo a P. A., in Attraverso il Cinquecento, 2ª ed., Torino 1896, pp. 73-136; C. Bertani, P. A. e le sue opere secondo nuove indagini, Sondrio 1901; cfr. A. Salza, in Giorn. storico della letter. italiana, XLIII, pp. 88-117; A. Luzio, P. A. nei primi suoi anni a Venezia e la corte dei Gonzaga, Torino 1888, e altri studî importanti, in Giornale storico, cit., I, p. 330 sgg.; IV, p. 361 segg.; XIX, p. 87 segg.; XXIX, p. 229 segg.; Un pronostico satirico di P. A., Bergamo 1900; V. Rossi, pasquinate di P. A., Palermo 1891; A. Luzio, L'A. e Pasquino, Roma 1890; K. Vossler, P. Aretino's künstlerisches Bekenntniss, in Neue Heidelberger Jahrbücher, X (1900), pp. 38-65; S. Ruju, Le tendenze estetiche di P. A., Sassari 1909; cfr. Giornale storico, LV (1910), pp. 421-23.