PIETRE DURE
. Quasi in ogni epoca della storia dell'arte e presso ogni civiltà le pietre dure ebbero, accanto alle materie più consuete, un impiego variamente frequente a seconda della facilità con cui esse potevano esser fornite, e della maggiore o minore conoscenza dei mezzi necessarî alla loro difficile lavorazione. Se uno dei motivi che indussero a usarle come materia scultoria o di decorazione architettonica fu senza dubbio la loro rarità e il pregio che ad esse veniva attribuito (talvolta anche in dipendenza delle virtù magiche, di cui si credevano dotate), ben maggiore importanza ebbe certamente, nel determinarne la diffusione, la varietà dei loro colori, che presentano spesso tonalità e gradazioni di singolare bellezza. Anche nelle età medievale e moderna le pietre dure, insieme con quelle preziose vere e proprie, fornirono quasi esclusivamente la materia agl'incisori di cammei e intagli (v. glittica). Qui si tratterà degli oggetti e delle sculture vere e proprie in pietre dure, e dell'impiego di queste come elemento decorativo nei rivestimenti delle architetture.
In tale qualità troviamo usate le pietre dure negli edifici del periodo cristiano primitivo sia in Occidente sia in Oriente: accanto ai marmi colorati, nelle tarsie decorative sovrastanti alle arcate della basilica romana di Santa Sabina, appare anche il porfido; porfidi e diaspri sono profusi nel pavimento di Santa Sofia a Costantinopoli; un medaglione di porfido formava il centro del pavimento di marmi colorati nel vestibolo del distrutto palazzo imperiale di Giustiniano; l'onice è tra i materiali che rivestono l'abside della basilica eufrasiana di Parenzo, e anche negli edifici ravennati (Battistero degli ortodossi, San Vitale) si hanno esempî di quest'uso, generale nell'Oriente, e di là allargatosi a tutti i centri soggetti all'influsso dell'arte bizantina. A un identico influsso è dovuto, nei primi secoli dopo il Mille, l'impiego di porfidi, di graniti e di altre pietre dure nei pavimenti a ornati geometrici, di cui si adornarono molte chiese italiane, di Venezia, di Roma, del Mezzogiorno e della Sicilia (chiesa maggiore di Montecassino, presbiterio del duomo di Salerno, Martorano e cappella Palatina a Palermo, duomo di Monreale).
Di provenienza bizantina furono certo, per lo più, i vasi in pietre dure che troviamo menzionati assai di frequente nelle carte medievali, specialmente in cronache, inventarî o conti che si riferiscono ai tesori di principi o di chiese; dove quei vasi erano gelosamente custoditi come cose di particolare pregio, destinate talvolta a essere usate nel servizio divino, e spesso offerte da sovrani in segno di speciale devozione; ma solo raramente le indicazioni che se ne hanno bastano ad assicurare che non si trattasse piuttosto di prodotti dell'arte antica, classica o orientale. Tali menzioni si fanno ancora più frequenti negl'inventarî dei tesori sia sacri sia profani dopo il sec. XI; e ciò sta assai probabilmente in relazione con il rifiorire in Europa della lavorazione di tali oggetti, quale è attestata per l'Italia nel sec. XII dal monaco Teofilo nella sua Schedula diversarum artium, e per la Francia dagli statuti parigini delle arti del 1260. Di arte bizantina e provenienti quasi tutti dalla conquista di Costantinopoli nel 1204 sono i calici e le navicelle di pietra dura del tesoro di San Marco a Venezia, e della stessa arte era assai probabilmente il grande vaso d'onice a foggia di animale fantastico che nel sec. XII possedeva la chiesa di Magonza; non è invece da escludere che fossero di fattura occidentale molti di quelli che esistevano nella stessa epoca nell'abbazia di Saint-Denis, o quelli di diaspro e d'agata che sono citati nell'inventario del tesoro pontificio fatto fare da Bonifacio VIII nel 1295. Col '300 e il'400 la diffusione degli oggetti di pietre dure è sempre più vasta, a giudicare dagl'inventarî che, accanto a sempre più numerosi lavori in cristallo, annoverano vasi d'agata, di calcedonio, di diaspro, spesso con montature artistiche di pietre preziose; che documentano il valore attribuito a questi oggetti per il volume e la bellezza delle pietre in cui sono lavorati, in forme quasi sempre assai semplici e armoniose, nelle quali manca (o è affatto rudimentale) la decorazione incisa. Non è escluso che vasi di fattura contemporanea potessero essere nelle raccolte di tal genere più famose del '400, delle quali basti citare quella medicea, descrittaci nei due inventarî di Piero di Cosimo e di Lorenzo il Magnifico, e di cui solo una piccola parte è giunta fino a noi (Firenze, Museo degli argenti): in ogni modo sarebbe errato attribuire il rifiorire di questa lavorazione esclusivamente alla venuta in Italia, dopo la presa di Costantinopoli nel 1453, di artisti greci, dei quali d'altra parte non si potrebbero citare né nomi né opere. La lavorazione del porfido, che non era forse mai completamente cessata (lo provano, ad esempio, i sepolcri dei re normanni nella cattedrale di Palermo, dei secoli XII e XIII), ritorna in voga non solo per arredi (tavole, vasi, ecc.) o per elementi di decorazione architettonica sia a Firenze (iscrizione di L. B. Alberti sulla soglia della porta principale di S. Maria Novella, sepolcro mediceo del Verrocchio in S. Lorenzo) sia a Roma, a Venezia e, negli ultimi anni del secolo, a Ferrara (un Iacopo da Brescia lavorò in ornamenti di tal genere per il giardino della duchessa Lucrezia e per il camerino di Alfonso I d'Este), ma anche per sculture vere e proprie. Del primo Cinquecento sono i lavori di Pier Maria Serbaldi da Pescia, detto il Tagliacarne (statuetta di Venere e Amore a Firenze, Museo degli argenti; busto di Polimnia a Vienna), di cui si sa anche che aveva fatto una coppa di porfido che passava per antica. Poche altre sono le sculture in pietra dura che si possono riferire con sicurezza all'ultimo quarto del sec. XV e alla prima metà del successivo: prevalse infatti in quel tempo esclusivamente la produzione di cammei e intagli, che assorbì quasi completamente l'attività dei maggiori maestri della glittica. Con la seconda metà del sec. XVI comincia invece una produzione di vasi da apparato di pietra dura, che vengono quasi a sostituire, nel gusto del tempo, quelli antichi od orientali fino allora amorosamente ricercati. Tutte le varietà di pietra vengono volentieri adoperate, dal calcedonio all'onice, all'agata, al diaspro, al porfido: si cura soprattutto la bellezza delle forme, e vengono utilizzati tutti gli effetti del colore, calcolando anche sulla molteplicità degli strati della pietra; nell'ornamentazione non sono rari i motivi figurati, espressi talvolta a rilievo o anche a tutto tondo. La materia prima venne fatta venire anche dalle regioni più lontane e fu provveduto a impianti speciali per la sua prima lavorazione: e fu forse proprio la necessità di grandi mezzi per procurarsi le varie pietre che contribuì al carattere prevalentemente aulico di questa forma d'arte, che ebbe i suoi maggiori centri di produzione presso le più potenti corti del tempo (Firenze, Parigi, Madrid, Vienna, Monaco, Dresda). L'antichità classica rimane sempre la maggior fonte di ispirazione per le forme e per gli ornamenti; non molto dissimili le une e gli altri da quelli dei vasi di cristallo, anche più numerosi in quel tempo. In quelli di pietre dure è, se mai, da notare un alternarsi della tecnica dell'intaglio a quella del rilievo e una maggiore prevalenza delle forme plastiche, che si manifesta soprattutto nei vasi di diaspro e d'agata a foggia di animali. Come nella glittica vera e propria, anche in questa produzione si afferma soprattutto la scuola milanese, che manda i suoi artisti a Firenze (dove lavorarono i Carrioni per i granduchi medicei), a Mantova, a Torino, a Madrid (Iacopo da Trezzo: tabernacolo di diaspro e pietre preziose per l'Escorial) e poi a Praga (i Miseroni) e a Monaco (i Saracchi), e si compiace anche di forme grottesche (vasi di diaspro a forma di uccello fantastico, della bottega dei Saracchi, a Vienna e a Firenze; vasi d'agata con coperchio a testa di leone, al Louvre e a Monaco). I suoi lavori erano assai ricercati ed erano spesso fatti per commissioni principesche, come il vaso di lapislazzuli fatto nel 1575 da Giovanni Ambrogio Miseroni per il granduca Francesco de' Medici. Alla famiglia dei Miseroni, che fu al servizio della corte imperiale, è dovuta gran parte di questa produzione, e alle scuole che intorno ad essa sorsero a Milano prima e poi a Praga e che durarono fino al 1600 inoltrato; opere di Ottavio, Dionisio e di Ferdinando Eusebio si trovano soprattutto a Vienna, in cui sono talvolta utilizzate anche pietre di più sorta, che annunziano in certo qual modo la nuova tecnica dei commessi di pietre dure, la quale si manifesta anche presso altri artisti milanesi contemporanei (p. es., Alessandro Masnago) e avrà il suo sviluppo soprattutto a Firenze; di Ottavio si conoscono anche piccole sculture in diaspro (una Maddalena, una Venere con Cupido) e degli altaroli in diaspro e agata per Anna, moglie dell'imperatore Mattia; a Ottavio o a Dionisio sono forse dovuti alcuni vasi più piccoli e semplici, talvolta a foggia di conchiglia o coperti di rilievi a motivi vegetali, con sempre minore prevalenza degli elementi propriamente plastici nelle forme, che divengono sempre più gravi e pesanti nel secolo successivo, in cui anche le pietre usate a preferenza furono quelle più rozze e di colori più vivaci. Accanto alla scuola milanese, ai pochi altri prodotti italiani, e a quelli francesi (usciti questi ultimi probabilmente dalla scuola suscitata in quella regione da Matteo dal Nassaro e riuniti in gran numero nel tesoro dei re di Francia sotto Francesco I, Enrico II e Francesco II) debbono esser ricordati soprattutto gli artisti fiorentini che nella seconda metà del secolo si dedicarono alla lavorazione delle pietre dure, specialmente in seguito al favore con cui i granduchi medicei suscitavano e assistevano i perfezionamenti di quella tecnica non facile. Francesco del Tadda (morto nel 1576) lavorò soprattutto il porfido: a lui si devono in rilievo varî ritratti della famiglia medicea (Cosimo il Vecchio, Cosimo I, Eleonora), immagini di Cristo e della Vergine, la fontana del cortile di Palazzo Vecchio e la statua della Giustizia posta sulla colonna eretta in piazza S. Trinita a Firenze (1565). La sua opera fu continuata dal figlio Romolo, attivo fino al 1620 circa, autore dei ritratti di Ferdinando I de' Medici e della moglie sua Cristina di Lorena, e da altri della sua famiglia, Andrea e Mattia (che fece il busto di Cosimo II) e della sua scuola, quali Fabrizio Farina (busto di Ferdinando I) e Raffaello Curradi (busto di Cosimo II), che lavorarono ambedue su modelli dello scultore Orazio Mochi. Una serie di vasi di lapislazzuli è pure uscita dall'officina fiorentina che il granduca Francesco aveva impiantato nel casino di S. Marco, nell'ultimo quarto del secolo XVI: uno su disegno del Buontalenti, del 1583, tuttora conservato, insieme a un secchiello con l'arme medicea, ci mostra la gravità delle forme preferite per tali lavori, arricchite talvolta di smalti sulle anse. Ma l'attività principale di quest'officina fu d'ora innanzi rivolta in particolar modo ai lavori di commesso di pietre dure, che erano preferiti per il loro valore pittorico (erano considerati come una pittura "eterna") e che si fecero alla insieme a lavori d'intarsio anche in Lombardia (dossali e paliotti della Certosa di Pavia). Il Vasari ci parla di tavolini di tal genere da lui disegnati per Cosimo I e Francesco, intorno al 1560; ma l'occasione allo sviluppo di questa tecnica in Firenze fu data soprattutto dall'idea del mausoleo mediceo che Cosimo I voleva creare in San Lorenzo, e per il quale Francesco fece venire da Milano numerosi artisti nel 1580. L'officina (che sussiste anche oggi come R. Opificio delle pietre dure) fu però organizzata compiutamente solo sotto Ferdinando I; e accanto agli stipi (o studioli), come quello del Buontalenti per Francesco (e di cui rimane l'ovato con la veduta di Piazza della Signoria), che era con un altro simile nella Tribuna degli Uffizî nel 1589, e ad altri lavori, attese principalmente alla decorazione della cappella sepolcrale medicea in San Lorenzo: il Buontalenti disegnò il ciborio, i Mochi alcune statuette, il Cigoli bassorilievi per l'altare rimasto incompiuto e di cui oltre a quelle statuette e a quei rilievi esistono ancora il dossale e la mensa, che verranno adoperati nella ricostruzione in corso di esecuzione. L'opera dell'officina fiorentina fu a volta a volta guidata dai maggiori artisti dell'epoca: vi ebbero parte il Nigetti, il Giambologna, il Ligozzi, il Bilivert, il Tacca, e raggiunse ben presto larga fama anche all'estero, per duchi medicei inviavano agli altri regnanti (tavolino per l'imperatore Rodolfo del 1617). Restano ancora in Firenze, alla Galleria Palatina e a quella degli Ulfizî, molte tavole che risalgono a quella caratteristica produzione; degli ultimi decennî del '500 è quella nella sala del Baroccio agli Uffizî; dei primi del '600 è quella con la veduta del porto di Livorno e molte altre per cui fornirono disegni anche il Ligozzi e il Poccetti; tra il 1000 e il 1607 G. Caccini progettò il ciborio e l'altare di S. Spirito; e allo stesso secolo risalgono molti dei reliquiarî di S. Lorenzo con sculture in pietra dura, e il bassorilievi che rappresenta Cosimo II inginocchiato, fatto per il paliotto d'oro della cappella di S. Carlo a Milano (Firenze, Museo degli argenti), eseguito dal Bilivert su disegno del Mochi.
Il sec. XVII, che vide altrove un abbandono dei lavori in pietra dura, non segnò invece una diminuzione nell'attività dell'officina fiorentina; sul suo esempio un'analoga lavorazione fu introdotta nel 1680 in Modena (dove d'intarsio aveva già lavorato in quel secolo Tommaso Loraghi da Como, autore fra l'altro del ciborio dell'altare maggiore di S. Vincenzo); Francesco II d'Este vi fece a tale scopo venire il veronese Benedetto Corberelli. Anche il sec. XVIII, nel quale si riprese un po' dappertutto a far vasi di pietra dura, ma di dimensioni più piccole, segnò un periodo di copiosa produzione per l'officina di Firenze, mentre continuava la decorazione della cappella medicea (il cui pavimento è tuttora in corso di esecuzione). A G. A. Torricelli è dovuto un busto di Vittoria della Rovere, e si sa di altri lavori notevoli di quel tempo, come un ritratto a bassorilievo del gran principe Ferdinando, dello stesso Torricelli, un'Annunziata fatta per il Palazzo del Quirinale, e uno stipo per l'Elettore Palatino (Firenze, Museo degli argenti), attribuiti al medesimo artista, un genuflessorio con teste di cherubini per il Palazzo Pitti, e finalmente i lavori fatti sotto la direzione dei Siries (tavole, ciborio per l'altare di S. Lorenzo, ecc.). Il sec. XIX segna invece un rallentamento di questa caratteristica produzione, dovuto probabilmente al mutare del gusto, ma che non compromise il mantenimento di tutte quelle conoscenze tecniche che sono base precipua di quella lavorazione. Nell'arte contemporanea le pietre dure sono impiegate sia come elemento accessorio di gioielli veri e proprî, sia come materia di oggetti montati in oreficeria; ma nonostante gli esempî di grande finezza e di gusto originale, dovuti segnatamente ad artisti francesi e italiani (tra questi è da ricordare Alfredo Ravasco), non hanno raggiunto una diffusione neppure lontanamente comparabile a quella che ebbero nel Rinascimento. Nell'arte extraeuropea la lavorazione delle pietre dure è nota in primo luogo all'arte musulmana, che specialmente intorno al Mille ebbe una larga produzione di vasi in quelle materie, specialmente nell'Egitto fatimida, e le adoperò anche come elemento di decorazione architettonica negli edifici moreschi di Spagna. Dell'arte cinese del periodo dal sec. VI al XIII sappiamo che adoperò la giada per oggetti varî, di cui non ci rimangono esempî; e oggetti di forme nobili e accurate rimangono dei periodi successivi delle dinastie Yuan, Ming e Ts'ing; ma nei secoli XVIII e XIX si ha solamente una produzione caratteristica di oggetti e sculture in agata e in giada di varî colori, in cui prevale la ricercatezza della tecnica e dell'ornamentazione. Nelle civiltà americane, soprattutto quella messicana sembra aver impiegato le pietre dure per ornamenti personali e come elementi di oggetti in musaico.
V. tavv. LXV e LXVI.
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