PETRA, Raffaele, marchese di Caccavone
– Nacque a Napoli il 7 gennaio 1798 da Carlo e Maria Eustacchia Mirelli.
La famiglia paterna, probabilmente già presente al tempo degli Angioini, vantava illustri antenati, fra cui Prospero Petra, che era stato studioso di diritto e consigliere di santa Chiara; Carlo Petra, anche lui consigliere e giurista; Augusta Caterina Piccolomini Petra, duchessa di Vastogirardi e poetessa; Vincenzo Petra, nominato cardinale nel 1724. Pur non annoverando personaggi altrettanto noti, la famiglia della madre (1772-1840), il cui capostipite era stato Sigismondo Mirelli (vissuto nel XV secolo), ampliò negli anni i propri territori fino a includere diversi feudi, fra cui Castelnuovo al Volturno, Castiglione, Civitacampomarano, S. Antimo, S. Maria in Elce. Il padre Carlo (1760-1811), sostenitore della Repubblica Napoletana del 1799, fu costretto ad andare in esilio dopo la restaurazione borbonica. Dal 1806 fu quinto duca di Vastogirardi, marchese di Caccavone, feudatario di Panicocoli, de Petiis, S. Mauro, Lucito, Accuciolo, Vignola e Civitella. Alla sua morte Raffaele ne ereditò i titoli, divenendo sesto duca di Vastogirardi e marchese di Caccavone (oggi Poggio Sannita).
Fin dalla gioventù Raffaele lesse i classici latini e greci, ai quali più tardi avrebbe affiancato le ‘novità’ editoriali italiane e francesi e lo studio di saggi storici. Esito di un giovanile apprendistato letterario fu il poema in novanta ottave Testamento d’un poeta, composto intorno al 1820. Mai pubblicato in vita e letto fra gli amici, esso rivelò la strada letteraria che il giovane marchese avrebbe percorso negli anni a venire: quella dell’invettiva sapida e del quadretto comico, che avrebbe trovato espressione negli epigrammi in italiano e in dialetto napoletano.
Vi erano menzionate l’Arcadia, l’Accademia dei partenopei, la Società sebezia e l’Accademia pontiniana, emblemi di una realtà culturale stagnante in mode letterarie giudicate obsolete; ma anche diverse personalità, quasi tutte facenti parte di un’intellighenzia letteraria che Petra dovette conoscere: Giovanni Carlo Cosenza, autore drammatico noto a Napoli all’inizio dell’Ottocento; Gaetano Morselli, autore del romanzo Federico e della novella Clarina; Troiano Marulli, uomo politico e autore della Tobiade; Vincenzo De Ritis, letterato ed epigrammista; Giuseppe Campagna, autore del poemetto L’Abate Gioacchino; Francesco Mirelli, autore del poemetto Il sasso del dolore; Giordano de’ Bianchi Dottula, uomo politico e traduttore oraziano; Urbano Lampredi, direttore del Monitore romano e critico di Foscolo; Michele Zezza, autore di versi in dialetto; Domenico Andreotti, autore di commedie. Vi erano inoltre citati studiosi che si muovevano in ambiti limitrofi, come padre Taddei, esperto di archeologia e direttore degli scavi pompeiani. Già attribuito da Francesco De Angelis al marchese, il testo (ora conservato presso il fondo manoscritti della Biblioteca nazionale di Napoli) fu trasmesso nel 1949 da Gaspare Casella a Benedetto Croce, che ne confermò la paternità.
Oltre che per i precoci gusti letterari, fin da giovane Petra si fece conoscere per le passioni artistiche e le numerose collezioni, fra cui spiccavano mobili d’antiquariato, porcellane e pipe.
Non condivise la rivoluzione del 1820-21 e appoggiò la monarchia. Tuttavia nel 1825, dopo aver composto due strofe per il nuovo sovrano Francesco I (Al duca di Calabria, per la morte del padre), che vedeva chiamato a un duro compito dopo la scomparsa del padre Ferdinando I, parve mostrare qualche ripensamento sposando la causa liberale, pur mantenendosi fedele allo Stato come suo funzionario, in quanto conservatore delle ipoteche ad Avellino e direttore del Gran libro a Napoli.
Fra 1825 e 1828 compose la Culeide, poema giocoso che, attraverso la parodia di modelli petrarcheschi, esaltava bellezze e virtù del posteriore di una misteriosa Carolina. Non si trattava però di un poema eroicomico sulla scorta della tradizione dialettale di due secoli prima a Napoli (si pensi alla Vaiasseide di Giulio Cesare Cortese): non essendoci una vera e propria trama (a dispetto del titolo che richiamava l’epopea), l’opera affastellava piuttosto una serie di celebrazioni di un’area anatomica, peraltro in sestine e non nel metro privilegiato dell’epica, l’ottava rima. L’opera sarebbe stata pubblicata solo nel 1842, anonima e in pochissimi esemplari, tutti perduti. Ma la storia della sua attribuzione fu travagliata. Dopo la riedizione parziale del 1969, a cura di Elio Morelli, che la ascriveva però a Gabriele Rossetti, fu Antonio Palatucci, tre anni dopo, ad attribuirla definitivamente a Petra e a promuoverne la pubblicazione nell’omnia caccavoniana. L’edizione Palatucci, come quella Morelli, consta di sole quarantanove sestine a fronte delle diverse centinaia di cui forse si componeva l’opera originale.
Dal 1829 Petra fu tra i redattori del Caffè del Molo, giornale critico-letterario di ispirazione barettiana, che principiò le uscite nel luglio 1829 e cessò le pubblicazioni nel 1832. Poiché gli articoli di questo foglio, che vedeva la luce tre volte al mese, non erano firmati, è difficile dire quale ruolo vi ricoprissero esattamente molti collaboratori. Petra vi curò la rubrica teatrale, scrivendo di rappresentazioni al Teatro S. Carlo, ad esempio lodando l’esecuzione di Luigia Boccabadati (ibid., 6, 1829) o la messa in scena della Cenerentola rossiniana (ibid., 22, 1830). Sulle sue pagine si occupò anche di critica letteraria, parlando della Leggenda di Giuseppe Campagna dell’Abate Gioacchino (ibid.,11, 1829). Vi pubblicò inoltre dei versi, come il sonetto A Luigi Lablache, risalente al 1827 (ibid., 17, 1829).
Poco tempo dopo passò al quindicinale (almeno all’inizio) Il Topo letterato, il cui primo numero uscì il 1° maggio 1833. Petra vi pubblicò assai sporadicamente qualche componimento. I toni più moderati della rivista, che privilegiava poesie di gusto arcadico, andarono infatti poco a genio all’autore, che abbandonò presto la collaborazione e non diede più il proprio contributo quando, dopo una pausa di tre anni, Il Topo letterato riprese a uscire nel 1838.
Che Petra inclinasse alla satira e alla facezia fu confermato, se non bastasse la redazione del Testamento e della Culeide, dalla ricca produzione di epigrammi che compose negli anni. Riallacciandosi a una tradizione letteraria coltivata a Napoli (da Michele d’Urso, Cesare De Sterlich, Francesco Proto e altri), a sua volta debitrice di quella dell’antica Roma (Marziale), Petra redasse un folto gruppo di brevi componimenti, a tema per lo più erotico, con facili doppi sensi, riferimenti a storie di corna e ironia antiuxoria. Non mancavano tuttavia testi che, esulando dallo stereotipo, si riallacciavano a tradizioni biasimate altrove, come quella dell’anacreontica pastorale nella trasfigurazione della donna come ninfa (A Glicera volubil donna, originariamente sul Topo letterato del 30 aprile 1835). I componimenti della maturità rivelavano altresì un’attitudine più pensosa e seria.
Spiccano, all’interno del gruppo degli oltre settanta raccolti da Palatucci, quelli composti in napoletano, iscritti in una tradizione che faceva del dialetto il veicolo d’espressione di una comicità piuttosto facile, ad eccezione di Male tempo a Baja, che svincolava il vernacolo dal quadretto di marzialiana memoria per riflettere sulla volubilità femminile attraverso una similitudine equorea.
Il 21 marzo 1834 Petra sposò Rachele (1808-1853), della famiglia Ceva Grimaldi, settima duchessa di Caccuri. Con lei, che era sopravvissuta al precedente marito (Francesco Petra, fratello minore di Raffaele, morto a ventisei anni nel 1832), ebbe due figli: Nicola, nato il 28 marzo 1835, e Marianna, nata l’11 dicembre 1836. Il primo, poi settimo duca di Vastogirardi e quinto marchese di Caccavone, sarebbe divenuto questore di Napoli nel 1868; quindi, negli anni Settanta, prefetto di Trapani e Messina. Anche lui negli anni si sarebbe dedicato alla scrittura con brevi componimenti scherzosi, seguendo così le orme paterne. Marianna sarebbe invece divenuta ottava duchessa di Vastogirardi.
Gli epigrammi valsero a Petra la prima menzione come autore, a opera di Francesco De Angelis, che nel 1840 ne riconobbe la facilità del verseggiare. L’attitudine alla facezia e la spontaneità ironica gli guadagnarono invece la fama presso gli amici aristocratici, che gli offrirono la presidenza di un circolo del Buon umore. Ma tale proposta non andò a buon fine per la scomparsa di don Giuseppe Mirelli, principe di Teora, che si voleva coinvolgere nell’iniziativa.
Non si hanno molte notizie per il periodo fra gli anni Quaranta e Sessanta dell’Ottocento. È noto però che il marchese di Caccavone si dedicò allo studio di saggi storici, fra cui la Storia del Piemonte di Angelo Brofferio, e che continuò a comporre epigrammi (fra cui il breve Alla contessa di Mirafiori, scritto nel 1864). Forse nel 1866 (in ogni caso dopo il 1863) fu scritta la Maria Faiella, firmata con lo pseudonimo-anagramma di Fra’ Reale Patefol, che vide la luce solo nel 1924, pubblicata da Andrea Genoino in appendice al suo profilo di Petra. Presentata dal curatore più o meno come un documento d’epoca senza troppe pretese letterarie, si trattava di una novella in sestine, suddivisa in quattro canti. Storia dell’amore fra il debosciato Muzio, di idee anarchiche e populiste, e la prostituta Antonia, avallato dalla mezzana Maria Faiella, la novella diventava un piccolo affresco storico nel secondo canto, allorquando, sotto l’effetto di una pratica mesmerica, Antonia in trance rivelava l’esito del Risorgimento e il futuro d’Italia.
Quest'opera non lasciava dubbi sulle posizioni dell’autore a pochi anni dalla morte: dopo la dipartita dei Borboni, Petra, che aveva sperato in un rinnovamento, fu costretto a concludere che ben poco era cambiato per il Meridione (emblematico di un generale atteggiamento di sfiducia, anche se retrodatato, era il fatto che, invece di raggiungere le truppe antiaustriache, Muzio si accontentava di svolgere i lavori più disparati – maestro di scherma, giornalista, protettore, contrabbandiere, soldato di dogana, camorrista – per poi perire nel Quarantotto; non in battaglia, bensì di malattia venerea).
Raffaele Petra morì a Napoli, nel tardo pomeriggio del 16 novembre 1873.
Il giorno stesso aveva avuto la forza di comporre un ultimo epigramma, Si cala il sipario, che utilizzava la metafora della bevuta giunta al termine per significare la fine dell’esistenza.
Opere: fra le edizioni novecentesche degli scritti di Petra si segnalano: Epigrammi vesuviani, a cura di A. Consiglio, Roma 1945; Raccolta di epigrammi del marchese di Caccavone et al., a cura di M. Vinciguerra, Napoli 1960; Epigrammi del marchese di Caccavone e del duca di Maddaloni, a cura di G. Porcaro, Napoli 1968; Poesie e poemetti, con introduzione e commento di A. Palatucci, Napoli 1972; Tutto Caccavone, edizione critica a cura di A. Palatucci, Napoli 1980.
Fonti e Bibl.: Documentazione fotografica riguardante Raffaele Petra è conservata nella Biblioteca Lucchesi Palli, sezione della Biblioteca nazionale di Napoli, per cui si rimanda al progetto digitale Archivi di Teatro Napoli, http://cir.campania.beniculturali.it/archividiteatronapoli/atn/foto/dettagli_foto_titolo?oid=29301&query_start=1994# (consultato il 10 marzo 2015). Inoltre: F. De Angelis, Cenno genealogico delle famiglie Ceva-Grimaldi e Mirelli, Napoli 1840, p. 97; A. Genoino, Profilo del Marchese di Caccavone, con versi rari ed inediti, Milano-Roma-Napoli 1924; Id., Il Marchese di Caccavone, Cava dei Tirreni 1936; E. Malato, La poesia dialettale napoletana, II, Napoli 1960, pp. 117-121; E. Ricca, La nobiltà delle Due Sicilie, I-V, Sala Bolognese 1978-79, ad indices; A. Manna, L'Inferno della poesia napoletana. Versi proibiti di poeti di ogni tempo, Napoli 1991, ad ind.
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