Persecuzioni e tolleranza cristiana e pagana
I rapporti tra la Chiesa cristiana e lo Stato romano sono complessi. Si devono tuttavia evitare le semplificazioni.
Non è corretto, infatti, pensare a un lungo periodo di tolleranza dello Stato romano verso i cristiani intervallato da ricorrenti periodi di persecuzione. Nel termine ‘persecuzione’ si riassumono situazioni molto diverse tra loro, che andrebbero distinte e precisate; similmente anche i concetti di tolleranza e intolleranza si prestano a essere usati in senso generico e fuorviante1. Allo stesso modo non è corretto individuare in un atto specifico di Costantino del 313, il cosiddetto editto di Milano, l’evento che determina su un piano giuridico, attraverso un provvedimento di valore universale, le condizioni della pace religiosa e quindi di una svolta radicale per la vita dei cristiani nell’Impero.
Bisogna considerare il modo in cui tolleranza e intolleranza, concetti sostanzialmente estranei al modo di pensare degli antichi, si alternano e si intrecciano nella storia di Roma2. Il conflitto tra lo Stato romano e il cristianesimo ha una vicenda non univoca. Esso finisce per collocarsi in una dimensione politica anche se non è stato, a rigore, un conflitto prevalentemente o esclusivamente politico.
Lo stesso culto imperiale è solo un pretesto per le persecuzioni3. La polemica cristiana prende di mira il culto degli dei più che il culto degli imperatori, anche se con l’andare del tempo il successo della nuova religione, soprattutto in ambiente urbano, porrà in difficoltà l’autorità politica.
Va inoltre tenuto conto di come lo Stato romano abbia un atteggiamento di fondamentale indifferenza (o, se si preferisce, di tolleranza in senso generico) per le confessioni religiose che non interferiscono con la religione statale e non minacciano la morale e l’ordine costituito. Il druidismo, in Britannia, è severamente perseguitato per il ricorso ai sacrifici umani. Gli episodi di persecuzione dei cristiani, per quanto abbastanza eccezionali, almeno all’inizio sembrano corrispondere alla necessità di trovare comodi capri espiatori per situazioni di crisi di varia natura che interessano la vita collettiva.
Si consideri che in sostanza, sino alla metà del III secolo e alla persecuzione di Decio, la legislazione anticristiana si riassume nel rescritto di Traiano, vale a dire nella risposta che l’imperatore aveva dato a Plinio il Giovane, all’epoca governatore di Bitinia e Ponto (112-113), che lo aveva interrogato sul comportamento da tenere nei confronti dei cristiani.
Il cristianesimo si era diffuso nella provincia ormai da qualche decennio. Plinio aveva condannato già molti cristiani per la semplice professione di cristianesimo. A chi abiurava, egli chiedeva, a conferma dell’abiura, di sacrificare agli dei e all’imperatore. Traiano risponde approvando il comportamento di Plinio: non ci deve essere una ricerca sistematica dei cristiani; a essere puniti devono essere solo coloro che vengono colti in flagranza di reato4.
Si noti, infine, come all’inizio del III secolo, anche per un polemista come Tertulliano, che è ispirato dalle idee di Paolo (omnis potestas a Deo), l’Impero romano sia una potenza voluta da Dio, che ha come fine l’ordine terreno. Pertanto il cristiano è devoto suddito dell’imperatore.
La crisi del III secolo contribuisce indubbiamente a determinare le condizioni per una svolta nei rapporti tra l’Impero romano e il cristianesimo. Intorno alla metà del secolo si aggravano le condizioni generali dell’Impero: pressione dei barbari ai confini e loro invasione dei territori di alcune province; crisi nei poteri centrali dello Stato e riduzione delle competenze del Senato; anarchia nell’esercito, che proclama e mantiene in carica l’imperatore; più in generale, crisi economica, sociale, religiosa e morale. Il potere dell’esercito è cresciuto a dismisura, con il risultato che gli imperatori sono acclamati ed eliminati in continuazione dai soldati. Si è calcolato che nel cinquantennio compreso tra la fine della dinastia severiana (235) e l’instaurazione della tetrarchia (284) furono più di cinquanta a rivendicare il titolo di imperatore e poco meno della metà, ventidue, furono riconosciuti come imperatori legittimi5. Di questi solo due – Valeriano, catturato in battaglia dai persiani, e Claudio il Gotico – non muoiono assassinati dai loro stessi soldati. In buona sostanza l’imperatore, per quanto possa essere interessato al riconoscimento da parte del Senato, sa che il fondamento del proprio potere deriva dalla forza militare e dalla lealtà delle truppe ai suoi ordini. Un legame di questo genere poteva avere implicazioni importanti anche di natura religiosa. L’imperatore, cui i soldati erano legati da un solenne giuramento di fedeltà prestato al momento del reclutamento, deve dimostrare di avere il favore degli dei, di essere in qualche modo abilitato a combattere e a meritare la vittoria.
Non stupisce che per fronteggiare adeguatamente una situazione di tale gravità si ritenga che l’atto politico più urgente sia quello di propiziarsi gli dei propri dello Stato romano restaurando le antiche tradizioni, per garantirsi un’incontrastabile protezione della divinità. Matura la convinzione che soltanto l’unità religiosa, attorno a un ravvivato culto degli dei, possa assicurare l’unità politica dell’Impero e il superamento della condizione di crisi. Tuttavia l’intensificazione dei riti tradizionali non determina la soluzione delle difficoltà, ma piuttosto le acutizza fino a farle esplodere. Lo stesso Diocleziano, nel novembre del 284, è proclamato imperatore in Bitinia, a Nicomedia, in modo del tutto simile a quello dei suoi predecessori nei decenni precedenti.
Decio, rappresentante della vecchia tradizione romana proclamato imperatore dai soldati, al principio del 250 emana l’editto che scatena una persecuzione generale contro i cristiani. Per quanto esso prenda di mira il cristianesimo, di fatto obbliga tutti i cittadini a esprimere la propria adesione alla religione ufficiale con la partecipazione ai sacrifici in favore degli dei riconosciuti, per impetrare da loro protezione e prosperità a favore dell’Impero. Ma l’editto prevede pure una novità radicale rispetto alla tradizione romana: per verificarne l’esatta osservanza, in tutte le province vengono costituite delle commissioni con il compito di vigilare sul compimento dei sacrifici e rilasciare a ognuno un attestato scritto (libellus) dell’atto di culto prestato, da esibire alle autorità locali6.
In verità, la complessa procedura prescritta dall’imperatore Decio farà emergere una duplice incrinatura: negli organi dello Stato e nelle comunità cristiane. In diversi casi l’editto è osteggiato e disatteso da funzionari imperiali avversari di Decio, disposti a lasciarsi corrompere e a rilasciare attestati falsi. Ovviamente, a corrompere costoro erano cristiani timorosi, magari senza alcuna intenzione di pubblica negazione della fede. Le misure ostili di Decio sono mantenute da Valeriano (253-260), ma indirizzate soprattutto contro i capi delle comunità: il clero, le assemblee liturgiche, i giudici e i senatori cristiani. Valeriano, in considerazione delle pesanti sconfitte militari subite contro i persiani, i franchi e gli alamanni, obbliga il clero, con l’editto del 257, a riconoscere le divinità pagane, permettendogli di praticare la fede cristiana solo in privato, mentre con l’editto del 258 ordina a tutti i cristiani, chierici e laici, di abiurare, pena la confisca dei beni e la decapitazione. Inoltre radia dagli albi del Senato e dell’ordine equestre tutti gli elementi dichiaratamente cristiani. In tale contesto va ricordata la morte di papa Sisto II a Roma e dei vescovi Cipriano a Cartagine e Fruttuoso in Spagna. In questa circostanza sembra che i lapsi siano stati pochissimi.
Gallieno (260-268) invece abroga gli editti di persecuzione del padre, che si era consegnato ai persiani, dopo numerose sconfitte, per timore che i propri soldati lo uccidessero, e restituisce ai cristiani – stando a Eusebio – gli edifici sequestrati e i cimiteri. Addirittura con Aureliano (270-275) si crea un importante precedente per i futuri rapporti tra Stato e Chiesa: la comunità di Antiochia si era appellata all’imperatore affinché il vescovo, Paolo di Samosata, che, accusato d’eresia, si rifiutava di cedere il posto al nuovo eletto, fosse rimosso d’autorità. La richiesta fu accolta.
Gli episodi di persecuzione attiva da parte del potere romano nei confronti del cristianesimo, ad ogni buon conto, rappresentano l’eccezione piuttosto che la regola e sono attribuibili a circostanze particolari oltre che alla personalità di alcuni sovrani. È una considerazione che vale anche per la persecuzione decisa da Diocleziano negli anni 303-304, dopo un ventennio di rapporti tutto sommato tranquilli. È interessante che le nostre fonti (cristiane) attribuiscano a una causa occasionale lo scoppio delle persecuzioni. Per spiegare la scelta persecutoria di Decio, lo storico ecclesiastico Eusebio di Cesarea afferma che l’imperatore perseguitò i cristiani per odio nei confronti del predecessore Filippo, mentre per giustificare quella di Valeriano ne attribuisce la responsabilità al ministro delle Finanze Macrino. Nel caso di Diocleziano le nostre fonti fanno riferimento all’insuccesso di un vaticinio attribuito alla presenza di cristiani7. È fuori discussione che vada ancora spiegato perché Diocleziano attenda il diciannovesimo anno di regno per scatenare le persecuzioni.
Nel passare dal piano delle circostanze occasionali a quello delle cause più profonde, si trova una considerazione importante proprio nell’editto di Galerio che, il 30 aprile del 311, segna la fine delle persecuzioni. Nella motivazione del provvedimento con il quale si riconosce libertà di culto ai cristiani è contenuto un esplicito riferimento alle ragioni in base alle quali si era proceduto contro di loro. Secondo le antiche leggi e la pubblica disciplina romana («iuxta leges veteres et publicam disciplinam Romanam»), gli imperatori avevano voluto che i cristiani, che si erano allontanati dall’insegnamento dei loro padri, ritornassero a un retto giudizio («ut etiam Christiani, qui parentum suorum reliquerant sectam, ad bonas mentes redirent»). Il loro fine era che essi, abbandonando la stoltezza di volersi dare da sé leggi e costumi, ritornassero agli antichi istituti. È una motivazione che ritroviamo alla base di molti atti di martiri. Si considerino, ad esempio, gli Acta Cypriani (scritto testualmente complesso), ove l’accento della polemica batte sul fatto che il martire ha voluto unirsi a «homines nefariae conspirationis», così da dichiararsi nemico «diis Romanis et religionibus sacris» al punto da rendere vani gli sforzi degli imperatori di sottrarlo a una «secta felicissimorum temporum suorum contemptrice» per ricondurlo «ad caerimonias populi Romani colendas bonamque mentem habendam»8.
Anche nel rescritto indirizzato agli abitanti di Tiro nel 312 da Massimino Daia, che di Galerio era nipote e che, subentrato come Cesare in Oriente, aveva promosso una dura azione persecutoria nei confronti dei cristiani, sono svolte considerazioni analoghe. Il linguaggio utilizzato per motivare la persecuzione in questa sorta di ‘omelia pagana’ è sorprendentemente simile a quello impiegato, nei suoi scritti filosofici e religiosi, dall’ultimo imperatore pagano, Giuliano, un segno questo della vitalità della tradizione culturale della reazione pagana. Del cristianesimo si parla come di una «accecante nebbia dell’errore», di una «fatale oscurità dell’ignoranza»: solo uno stolto o un insensato, infatti, avrebbe potuto disconoscere che, se la terra produceva frutti o se i pastori potevano pascolare, se la guerra non regnava sul mondo, questo lo si doveva alla benevola sollecitudine degli dei; la mancanza di pietà nei loro confronti avrebbe potuto far ripiombare l’universo nel caos.
Alla base della politica religiosa di Massimino, in realtà, si devono ricercare precise motivazioni di ordine regionale: sostenere il culto pagano in Anatolia e nella regione siro-palestinese significa, in concreto, tutelare i pellegrinaggi ai templi e le visite agli oracoli, e promuovere quelle feste che richiamano nelle città folle cospicue. Tutto questo si ripercuote naturalmente su una serie di piccole attività artigianali e di commerci minuti che, nel loro complesso, hanno una rilevanza economica.
In buona sostanza, al di là dei tratti leggendari che presentano, le passioni dei martiri pongono al centro dei racconti sempre Diocleziano, di cui si presuppone il ruolo decisivo come organizzatore e promotore delle persecuzioni9. È una circostanza che sembra importante per smentire Lattanzio (per il quale non è possibile presupporre che si sia ispirato a notizie comunicategli direttamente da Costantino), che attribuisce il ruolo decisivo di istigatore delle persecuzioni a Galerio. Anche Eusebio non offre nessun riscontro di persecuzioni attribuibili sicuramente a Galerio. Forse potrebbe aver ragione William Seston a spiegare la versione di Lattanzio come la prospettiva banalizzante di un pamphlettista10. Lo scrittore cristiano sembra riproporre lo schema convenzionale della polemica sulla morte dei persecutori11. Galerio può aver fatto propria con entusiasmo la decisione di Diocleziano, ma non ci dovrebbero essere dubbi sul fatto che il responsabile ultimo sia stato il senior Augustus.
In altri termini: quand’anche si volesse accettare la premessa, che appare comunque fragile, del radicale fanatismo religioso di Galerio, di una sua personale, prevalente volontà persecutoria, resta fuori discussione che il bagaglio culturale e ideologico presupposto dalla persecuzione non possa essere suo. La versione di Lattanzio, più che una serena ricostruzione degli eventi, è un adattamento di un modello ricostruttivo volto a mostrare che gli imperatori persecutori sono i ‘cattivi’ imperatori: nella scia di Filone, che, a proposito della persecuzione di Tiberio nei confronti degli ebrei, ne aveva attribuito la responsabilità alle macchinazioni del suo consigliere Seiano. A questo si aggiunga che la morte di Galerio, causata da una malattia particolarmente spiacevole, a differenza di quella di Diocleziano, si presta a essere strumentalmente presentata come una punizione divina.
Già nel 287 Diocleziano assume l’epiteto divino di Iovius e Massimiano quello di Herculius: deve essere chiaro che a reggere le sorti dell’Impero è una ‘famiglia’ sanzionata dal benvolere degli dei. È anche chiara la gerarchia che quegli appellativi presuppongono. Diocleziano sarebbe in grado, se volesse, di agire da solo, ma conta sul sostegno di Massimiano per realizzare i propri obiettivi. Il linguaggio dei panegiristi non lascia adito a dubbi in proposito: si consideri quello utilizzato da Mamertino per Massimiano nel 289, che rende esplicito il rapporto di collaborazione tra i due sovrani ma, nello stesso tempo, la posizione di preminenza di Diocleziano che, in quanto Iovius, è signore del cielo, mentre Massimiano/Herculius è il pacificatore della terra12.
A proposito della Grande persecuzione si dispone di una grande quantità di testimonianze circostanziate, attraverso le quali si può tentare di individuare il suo scopo prevalente. Un’evidente ragione di conflitto tra l’Impero e i cristiani riguarda la disciplina militare. Le stesse fonti cristiane segnalano che le prime misure persecutorie hanno luogo nell’esercito.
È stato riconosciuto da tempo come la passio del centurione Marcello contenga un resoconto dell’episodio sufficientemente attendibile. In Mauritania Tingitana, forse a Tangeri, il 21 luglio del 298 il centurione Marcello getta le sue insegne davanti ai principia del campo; con questo gesto clamoroso vuole significare che non riconosce altro sacramentum che non sia quello che lo lega a Cristo. È un gesto clamoroso di insubordinazione, confermato dalla dichiarazione che l’ufficiale rende a Fortunato, governatore della provincia, che lo interroga una settimana dopo. La condanna a morte irrogata alla fine di ottobre per violazione della disciplina militare è scontata. La data in cui è avvenuto l’episodio merita attenzione. La festa che dà occasione al martirio è detta o dies festus – «quando diem festum imperatoris vestri celebrastis» (nell’interrogatorio) – oppure, più precisamente, il «dies felicissimus natalis genuini dominorum nostrorum eorundem augustorumque caesarum» (nell’elogium)13.
Si tratta dunque di una vera e propria festa imperiale, di Stato, che celebra il giorno in cui Diocleziano e Massimiano hanno assunto con i Cesari Costanzo e Galerio gli appellativi di Iovius e di Herculius. Ma certo è anche una festa pagana; in ogni caso intendere questa celebrazione semplicemente o prevalentemente sotto un profilo religioso può essere fuorviante.
Non molto diverso è il caso di Massimiliano, la recluta che è decapitata a Teveste nel 295 perché aveva rifiutato il sacramentum militiae.
Si trova di fronte a una situazione che ricorda l’antimilitarismo di Tertulliano, che aveva dato voce al conflitto di coscienza che i doveri del servizio militare ponevano al soldato cristiano.
Questa festa del 21 luglio è, a ben guardare, una vera e propria festa della tetrarchia: è, cioè, la trascrizione a livello celebrativo della riorganizzazione del sistema politico voluta da Diocleziano. È quanto recepisce il panegirista del 291, che sa bene dar voce al messaggio propagandistico celebrando il quinquennale di regno di Massimiano:
I giorni stessi in cui voi avete inaugurato la dignità imperiale sono giorni venerabili e sacri perché ci hanno rivelato degli imperatori tanto nobili, ma le virtù almeno di cui voi adornate questa dignità stessa sono i vostri duplici giorni di nascita che le hanno infuse in voi. Quei giorni, imperatore venerabilissimo, noi li celebriamo con tutto il rispetto dovuto alle vostre persone così come alle vostre divinità, perché date certamente prova della vostra ascendenza divina attraverso i vostri nomi, ma molto di più attraverso le vostre virtù, la cui attività infaticabile e l’ardore sono regolati da una potenza divina che vi guida per tutta l’estensione del mondo sottomesso alle vostre leggi14.
In realtà, a ben vedere, la riorganizzazione del governo centrale, che il regime tetrarchico presuppone, porta all’elaborazione di una teologia politica originale, che recepisce contributi esterni alla tradizione romana. Ad essa concorrono certamente le teorie ellenistiche della regalità e le concezioni orientali del potere monarchico. Per aspetti non secondari essa anticipa la filosofia politica di Eusebio di Cesarea e la sua interpretazione della monarchia costantiniana. Non è indispensabile che gli imperatori siano considerati veri dei. Certamente però si presuppone che siano in stretta cooperazione con gli dei.
Il rifiuto dei cristiani, soprattutto nell’esercito, di compiere l’atto formale dell’adoratio verso i sovrani deve risultare particolarmente intollerabile rispetto a un disegno di riforma tutto incentrato sul rafforzamento dell’autorità statale. Chi partecipa della natura divina è particolarmente attento a cercarne la benevolenza.
La Grande persecuzione in Africa lascia un’impronta indelebile sulle generazioni successive. Non ci sono ragioni per ritenere che essa abbia provocato più sofferenze che in altre parti dell’Impero, anche perché non dura più di due anni, dall’inizio del 303 al 305. Tuttavia l’impatto della persecuzione, con le sue esecuzioni, gli arresti, le torture, le minacce e gli espropri, risulta particolarmente traumatico trattandosi di una congiuntura del tutto inaspettata dopo un periodo di quasi mezzo secolo di tranquillità. I cristiani africani giungono a vedere nel potere statale un agente malvagio al servizio del demonio. La dura applicazione degli editti imperiali fu attribuita essenzialmente a due governatori, Valerio Floro in Numidia e Anullino nella Proconsolare. Soprattutto quest’ultimo è oggetto di odio al punto da essere considerato una sorta di personificazione del demonio, poiché la sua famiglia è costituita da grandi proprietari15.
Il carattere repentino dell’attacco deciso da Anullino, in conformità a direttive di un potere lontano, produce un forte disorientamento, che spiega l’enfasi posta sul comportamento tenuto nei confronti dei persecutori. La fedeltà, intesa nel senso più rigoroso, alla fede cristiana assurge a criterio di giudizio di valore assoluto. Ad Ammaedara, la città dell’altipiano interno della Byzacena posta lungo la grande strada di comunicazione Cartagine-Teveste, ancora due secoli e mezzo dopo, in età bizantina, si onoravano con un’iscrizione monumentale in una chiesa i nomi di trentaquattro persone che erano state giustiziate16. Il senso di una tale commemorazione era precisamente quello di celebrare quanti non avevano tradito, ma avevano preferito sacrificare la vita piuttosto di consegnare le Sacre Scritture (per ‘tradimento’, traditio, si intendeva propriamente la consegna dei testi sacri alle autorità).
Questa è la premessa delle divisioni che tormenteranno l’Africa cristiana – la controversia nota come donatista –, e che non saranno mai davvero superate.
Mentre la Chiesa cattolica ufficiale con l’avvento al potere di Costantino sarà indotta a presentare le persecuzioni dei cristiani dirette dallo Stato come qualcosa appartenente al passato, i dissidenti sosterranno che l’età delle persecuzioni non si è conclusa ma prosegue in forma mascherata. Non è l’imperatore in quanto tale a essere chiamato in causa, ma i suoi collaboratori scellerati. E potrebbero esserci nuovi martiri nel senso tradizionale del termine.
Nella motivazione dell’editto di Galerio, che il 30 aprile 311 segna la fine delle persecuzioni, è contenuto, come si è detto, un esplicito riferimento alle finalità con cui si muove contro i cristiani. Proprio questa motivazione richiede ulteriore considerazione: essa risponde a una logica coerentemente romana per quanto riguarda la religione pubblica e i suoi scopi. È la logica che aveva ispirato la repressione della congiura dei Baccanali del 186 a.C., quando aveva fatto la sua comparsa per la prima volta a Roma un’organizzazione consacrata in forma esclusiva alla religione. Nel caso specifico, oltre ai riti orgiastici, che tanto sembrano scandalizzare Livio nella sua versione degli eventi, quello che era risultato scandaloso per le autorità era il tipo di organizzazione, che prevedeva un giuramento e una gerarchia, e che si sottraeva a qualsiasi forma di controllo pubblico17.
La sottolineatura del carattere provvidenziale dell’Impero, quasi un premio al popolo romano per aver saputo superare in religiosità tutti gli altri popoli, è motivo ricorrente di diverse opere ciceroniane (cfr. ad es. De haruspicum responsu 19: «pietate ac religione atque una sapientia quod deorum numine omnia regi gubernarique prospeximus, omnis gentis nationesque superavimus»)18. Nel discorso del pagano Cecilio Natale riferito da Minucio Felice nell’Octavius (6,2-3), il successo degli eserciti romani si spiega con il fatto che questi erano «cultu religionis armati» e che «dum captis in hostilibus moenibus adhuc ferociente victoria numina victa venerantur, dum undique hospites deos quaerunt et suos faciunt, dum aras extruunt etiam ignotis numinibus et Manibus»19.
Nel testo dell’editto di Galerio, come già si è visto, occupa un posto di rilievo il fine pedagogico cui mirano gli imperatori nei riguardi dei cristiani ostinatamente allontanatisi dall’insegnamento dei loro padri: abbandonando la stoltezza di volersi dare da sé leggi e costumi, che trasmettevano anche ad altri popoli, ritornassero agli antichi istituti:
tale era l’insensatezza che si era impadronita dei cristiani, che essi non osservavano quegli istituti degli antichi, che forse in principio erano stati creati dai loro padri [scil. abbandonavano la legge mosaica], ma a proprio arbitrio, così come loro aggradava, si davano da sé medesimi le leggi da osservare e riunivano vari popoli nei luoghi più disparati.
Anche altri testi di poco anteriori in cui Galerio è proclamato pacis aeternae propagator et publicae securitatis conservator, come nella dedica nel castrum costruito nel tempio di Ammon a Luxor20, presentano un linguaggio vicino a quello dell’editto, coerente con quello tipicamente dioclezianeo. Si consideri anche l’iscrizione da poco pubblicata, databile al 308, in cui Galerio accoglie le richieste di una località della Tracia, la civitas Heracleotarum, di essere riconosciuta come città autonoma perché è nell’interesse generale dello Stato che si accresca il numero delle sue città: «quandoquidem rei publicae ipsius intersit ut provisionis ac benivolentiae nostrae favore amplificatis civitatibus eiusdem r(ei) p(ublicae) florescat utilitas»21.
Resta da considerare un dato di fatto tanto banale quanto essenziale: l’editto di Galerio, il cui contenuto è espresso in forma di lettera, riconosce il sostanziale fallimento delle persecuzioni, anche se tale riconoscimento avviene in modo peculiare. Si tratta di una circostanza senza paralleli – il potere di regola non ammette i propri insuccessi – non solo per il mondo antico. Una scelta che proprio per la sua eccezionalità merita una riflessione22. Il testo è articolato in cinque punti, che presuppongono una motivazione precisa ispirata da un forte pragmatismo politico. In sintesi: il primo punto riassume la motivazione delle persecuzioni; il secondo ne riconosce la sostanziale inefficacia, pur ricordando cedimenti e vacillamenti da parte dei cristiani («multi periculo subiugati, multi etiam deturbati»); il terzo definisce una nuova politica verso i cristiani, giustificata sulla base della tradizionale clementia imperiale; il quarto annuncia un’ulteriore missiva ai governatori provinciali con disposizioni circostanziate; nel quinto punto, infine, si fa richiesta ai cristiani di cooperare al bene dello Stato pregando a tale scopo il loro dio.
Sulla decisione tardiva di scatenare persecuzioni anticristiane si sono date spiegazioni diverse. La conclusione della guerra contro i persiani nel 299, con un conseguente periodo di stabilità nelle relazioni estere di Roma anche con il potente vicino orientale, potrebbe giustificare la scelta persecutoria, che appare una conseguenza necessaria dell’ideologia tetrarchica e in particolare dioclezianea. L’ultimo esponente della dinastia costantiniana, Giuliano, promuovendo a sua volta, nel 363, una campagna contro la Persia, la presentava come una sorta di preludio a quella, ben più impegnativa, contro i cristiani. Nel 302 Diocleziano, nell’editto contro i manichei, faceva riferimento a un periodo propizio, di «otia maxima»23.
Appare peraltro discutibile che gli eventi riferibili allo scoppio della persecuzione dioclezianea forniscano l’occasione per un dibattito sulla tolleranza religiosa, come potrebbe sembrare dal trattato di Porfirio sulla Filosofia degli Oracoli24. Sembra più realistico immaginare, al contrario, che riflessioni di questo genere siano state provocate dalla svolta radicale nella politica religiosa imperiale, che richiedeva una giustificazione anche in ragione della forza crescente raggiunta dal cristianesimo. Così pure appare poco plausibile porre in stretta relazione le Divine Istituzioni di Lattanzio con l’operetta di Porfirio25. Lo scrittore cristiano ha certamente avuto presenti gli argomenti del suo antagonista ma ha sviluppato una propria, autonoma concezione di un impero cristianizzato26. La questione della tolleranza religiosa, ammesso che si possa porre nel senso che oggi si suole attribuire a questo concetto, appare piuttosto un esito secondario della scelta di rafforzare la base ideologica del potere statale operata dal governo imperiale.
In realtà sarebbe opportuno riconsiderare la complessità della situazione politica e chiedersi come mai Galerio abbia atteso il 311 per porre ufficialmente fine alle persecuzioni. È lecito pensare che, almeno in un primo tempo, egli preferisse che queste cessassero di fatto. La loro riattivazione da parte di Massimino Daia potrebbe averlo indotto a una sorta di prudente attesa. La conferenza di Carnunto del 308 comportava la cessazione della politica persecutoria. Di nuovo però nel 309 Massimino, aprendo le ostilità nei confronti di Galerio, ridà fiato alle persecuzioni, rendendo necessaria una presa di posizione ufficiale.
La linea di azione anticristiana di Massimino merita considerazione, nel suo radicalismo, perché appare originale nei presupposti oltre che nelle modalità di svolgimento. Sulla base della testimonianza di Eusebio, Massimino sembra volere ristrutturare il paganesimo con una nuova organizzazione interna attraverso la nomina di un grande sacerdote per ogni città e di un pontefice per ogni provincia27. Il suo zelo personale arriva al punto di imporre ai maestri di scuola di far imparare a memoria ai loro allievi un testo di recente elaborazione, dei falsi Atti di Pilato, che screditavano i cristiani. Si narra anche che quanto Massimino mangiava a pranzo fosse stato prima offerto in sacrificio agli dei dai sacerdoti. Eusebio descrive in due circostanze diverse Massimino come il peggiore tra tutti i persecutori28.
Si tratta evidentemente di una forma di propaganda volgare ben lontana da quella, di carattere marcatamente ideologico, svolta da un filosofo, forse Porfirio, in un manifesto anticristiano: secondo Agostino, costui chiamerebbe in causa gli oracoli di Apollo ed Ecate per sostenere che Gesù fu un uomo saggio, ma che i cristiani si sbagliavano adorando lui anziché cercare di imparare da lui qualcosa su Dio29.
Nel caso di Massimino abbiamo a che fare con una motivazione per le persecuzioni, a prescindere dalla peculiare situazione regionale di cui si è detto, che appare diversa rispetto a quella dioclezianea e che preannuncia, in qualche modo, la reazione pagana di Giuliano. Nel suo caso agisce una componente propriamente religiosa che si traduce in forme specifiche di organizzazione rituale e cultuale. Alla base della persecuzione tetrarchica è invece decisiva la matrice ideologica di tutela dell’interesse dello Stato, da cui scaturisce la polarizzazione del culto sulla figura dell’imperatore. La scelta di Massimino appare, in buona sostanza, contraddittoria rispetto a quella ufficiale dell’Impero incarnata da Galerio, ed è possibile vedervi l’esito della sua insoddisfazione per essere stato escluso dal collegio imperiale alla morte di Severo30.
La decisione di Galerio di recedere dalla politica persecutoria contro i cristiani nel 311 ebbe probabilmente motivazioni diverse, in parte occasionali. Un ruolo giocò, forse, anche la malattia, a prescindere dall’interpretazione interessata di Lattanzio e degli scrittori cristiani. È verosimile che la possibilità di una sanguinosa guerra tra gli aspiranti alla successione e, forse, ancor di più l’eventualità di una ripresa delle ostilità sul fronte persiano dovettero suggerirgli l’opportunità di un atto formale che ponesse termine alle persecuzioni con una motivazione articolata, che probabilmente fu pensata come una sorta di caveat più per gli altri tetrarchi che non in generale per i sudditi31.
In buona sostanza l’interpretazione più verosimile del testo della lettera-editto sembra essere questa: Galerio motiva la propria scelta come un aggiornamento ideologicamente coerente del progetto dioclezianeo, di cui si propone come l’interprete fedele e autorizzato. Un riscontro del pragmatismo di fondo ispiratore del provvedimento si ritrova là dove il riconoscimento della libertà di culto per i cristiani è giustificato come una sorta di misura profilattica: «ut denuo sint Christiani et conventicola sua componant, ita ne quid contra disciplinam agant». Merita ancora aggiungere che non è noto quali avrebbero potuto essere le norme circostanziate che Galerio rimanda a una successiva circolare: «alia autem epistola significaturi sumus quid debeant observare». In altri termini: anche per Galerio il dio dei cristiani è un vero dio e i suoi seguaci praticano un vero culto, altrimenti non avrebbe senso chieder loro di pregare per lui. Il punto di partenza di Costantino è simile: la sua considerazione di vero e di verità è funzionale al concetto determinante di religio in senso tradizionale romano, da lui intesa fondamentalmente come culto32.
Merita considerare brevemente il programma edilizio di Galerio nel luogo dove era nato a Romuliana (Gamzigrad, in Serbia) e nella vicina località di Magura. Anche se manca ancora un’interpretazione definitiva dei dati archeologici in attesa di scavi sistematici, sembra che sia ormai possibile pervenire a qualche conclusione attendibile, utile a mettere meglio a fuoco la personalità di Galerio. Si deve ricordare come il sito di Romuliana sia stato a lungo ritenuto un campo militare romano a causa delle dimensioni delle torri. Gli scavi eseguiti a partire dal 1953 dimostrano che fu, in effetti, un palazzo imperiale fatto costruire da Galerio probabilmente dopo il 298, in seguito alla sua vittoria sui persiani, per segnalare il suo luogo di nascita. Prese il nome di Felix Romuliana in memoria della madre Romula. Le sculture permettono di definire le divinità cui il tempio era dedicato33.
Come si è detto, il fondatore della tetrarchia, Diocleziano, e il suo figlio adottivo e co-sovrano Galerio, essendo entrati a far parte della famiglia divina di Giove avevano assunto Ercole come patrono. Così nasce la tradizione di attribuire ai tetrarchi i nomi di Giove ed Ercole e anche quella di celebrare la festa annuale in loro onore (Iovii et Herculii) nel giorno dell’assimilazione degli Augusti a Giove e dei Cesari a Ercole. Quel giorno divenne così la data del loro compleanno autentico e comune (geminus natalis). Sembra sicuro, dunque, che il tempio intitolato alla domina Romuliana fosse dedicato a questi dei, cioè al culto dei sovrani loro assimilati.
Alla fine, dunque, lo stesso Galerio non sembra insensibile al richiamo delle suggestioni ideologiche e culturali. Ad ogni buon conto con il decreto da lui promulgato il 30 aprile 311 il cristianesimo ottiene lo statuto di religio licita in tutto l’Impero. L’editto di Galerio riporta i rapporti religiosi all’interno dello Stato romano alla situazione in cui erano nella seconda metà del III secolo. Si tratta in ogni caso di una svolta importante, perché l’editto segue una lunga e complessa persecuzione fortemente voluta e sostenuta dall’autorità imperiale. Costantino trarrà le conseguenze di questa fondamentale premessa.
Si deve tener conto, peraltro, del fatto che la propaganda cristiana, così come demonizza i suoi avversari, allo stesso modo ingigantisce ed eroicizza la figura di Costantino. Nel comportamento concreto di Costantino, sin dalla proclamazione da parte dell’esercito del padre a York nel 306, è riconoscibile una volontà tenace di impadronirsi del potere assoluto. La politica religiosa appare solo una componente all’interno di una strategia complessa di conquista dell’Impero. La questione delle sue convinzioni personali passa di necessità in secondo piano: se è antistorico immaginarlo come un politico cinico e privo di scrupoli, è altrettanto irrealistico interpretare ogni suo gesto come manifestazione di una profonda convinzione religiosa. È improbabile, per esempio, che il suo primo atto da imperatore sia stato quello di restituire ai cristiani i loro beni e i loro diritti, come sostiene Lattanzio. Costantino si è più verosimilmente limitato a proseguire nella politica di sostanziale tolleranza che era già stata del padre Costanzo Cloro.
Fino al 310, l’anno della definitiva rottura con Massimiano, che con tenacia ha sempre cercato, anche ponendosi in contrasto con il figlio Massenzio, di riprendere il potere perduto con l’abdicazione, è accertabile, nell’evidente ricerca di una forma di legittimazione, la formale adesione costantiniana all’ideologia erculea. Una volta liberatosi dagli obblighi che lo vincolano al sistema tetrarchico, sembra che le sue preferenze vadano a una religione solare di tipo monoteistico che, tra l’altro, meglio si concilia con una monarchia fondata sul principio dinastico34. Questo nuovo orientamento ha un preciso riscontro nel panegirico letto a Treviri nel 310. Il panegirista dà pubblica notizia di come Costantino discenda da Claudio il Gotico e, quindi, sia il terzo esponente di una dinastia. È evidentemente il segnale che Costantino rifiuta ormai il sistema creato da Diocleziano; al posto di Ercole come divino accompagnatore dell’imperatore compare Sol Invictus.
Nel frattempo la morte di Galerio e la sempre più precaria situazione di Massenzio rendono concepibile uno scontro risolutivo contro di lui in Italia. La vittoria di ponte Milvio del 28 ottobre 312 segna il definitivo predominio di Costantino in Occidente. Appena entrato a Roma, Costantino si affretta a emanare una serie di misure che indicano come la Chiesa cristiana da ‘tollerata’ diventi ormai una componente privilegiata dello Stato. Mentre da una parte scrive al vescovo di Cartagine Ceciliano che membri del clero, nominati specificamente, avrebbero ricevuto somme di denaro35, dall’altra, con due lettere al proconsole d’Africa Anullino, dispone prima la restituzione alla Chiesa dei beni confiscati e quindi l’esenzione per gli ecclesiastici dagli oneri municipali36. Si tratta di un importante riconoscimento, sul piano del diritto pubblico, dello status clericale. Non è dunque più solo questione di riconoscere ai cristiani il diritto formale alla libertà di culto: si accordano anche privilegi specifici ai sacerdoti che quel culto praticano. Costantino prende concreti provvedimenti a favore della Chiesa, che inizia ad assumere un ruolo preciso all’interno dell’Impero, sancito anche a livello di diritto pubblico. Si deve tener presente che è ormai riconosciuta la gradualità della politica antipagana di Costantino: la requisizione dei beni dei templi avviene per tappe, mentre la loro chiusura non appare conciliabile con le fonti di cui si dispone e deve essere stata attuata solo dai suoi figli. È piuttosto da considerare la funzione della res privata rispetto all’incameramento di beni di natura pubblica, quali i templi, e al loro trasferimento alle chiese, a rigore organizzazioni di natura privata37.
La tradizione cattolica ha legato il ristabilimento della pace religiosa a un atto formale, il cosiddetto editto di Milano, che sarebbe stato emanato nel febbraio del 313 e che avrebbe avuto valore universale. L’occasione è fornita dall’incontro dei due Augusti, Costantino e Licinio, che certamente stringono accordi di politica religiosa anche in vista dell’imminente liquidazione di Massimino. L’intesa tra i due imperatori è sancita dal matrimonio di Licinio con la sorellastra di Costantino, Costanza. All’esistenza di un editto emanato a Milano aveva fatto pensare l’interpretazione di un passo di Eusebio secondo cui, dopo la sconfitta di Massenzio, Costantino e Licinio avrebbero emanato una «legge perfettissima» sui cristiani38. In realtà, in questa «legge perfettissima» si devono probabilmente vedere solo misure applicative e integrative dell’editto di Galerio, che erano contenute nella lettera con cui Costantino annunciava la sua vittoria a Massimino: in tale lettera, inviata formalmente anche a nome di Licinio, si fa una pressante richiesta a Massimino di desistere dalle persecuzioni.
Anche se quanto concordato scaturisce da una decisione comune con Licinio, non ci sono dubbi che l’iniziativa di affrontare in modo specifico la questione cristiana risalga a Costantino, che intende andare oltre la situazione di tolleranza antecedente la Grande persecuzione. Costantino, la cui personalità sovrasta quella di Licinio che era solo un buon generale, ottiene il via libera per una politica che trasformerà un generico riconoscimento delle attività religiose della Chiesa cristiana in un aperto sostegno.
La versione degli accordi di Milano fornitaci da Lattanzio in De mortibus persecutorum39 consente di coglierne i presupposti di fondo. Nel testo si registra uno stacco tra la prima parte, che si può considerare la motivazione, e la seconda, che contiene le disposizioni concrete. Le considerazioni esposte all’inizio del testo contengono un riconoscimento del principio del pluralismo religioso, con una generica adesione alle propensioni monoteistiche dell’epoca:
pensammo di poter concedere tanto ai cristiani quanto a tutti gli uomini la religione che ciascuno preferisse, così che qualunque divinità ci sia nella sede celeste, questa possa essere soddisfatta ed essere benevola nei nostri confronti [...] così che la divinità suprema, il cui culto noi osserviamo con libera intenzione, possa mostrare in tutti i campi la sua usuale benevolenza nei nostri riguardi.
La vaghezza del riferimento alla divinità suprema, che appare come una sorta di prudente rinuncia a un’esplicita dichiarazione di fede religiosa, può spiegarsi come dovuta alla necessità di adeguarsi all’atteggiamento religioso di Licinio. Colpisce, peraltro, la vicinanza con il testo dell’iscrizione sull’arco fatto dedicare dal Senato, in cui si chiama in causa un generico «instinctu divinitatis» per spiegare il successo di Costantino, e con gli enunciati del panegirista del 31340. Si dispone di un quadro sufficientemente coerente della contingenza politica del momento. Costantino è prudente nelle prese di posizione ufficiali, ma sembra già orientato in modo preciso negli atti concreti.
La neutralità del riferimento religioso dell’iscrizione sull’arco dedicato a Roma dopo la vittoria su Massenzio, se non addirittura il possibile riferimento a una divinitas con connotazioni pagane, non pone difficoltà41. Nell’arco stesso, d’altra parte, l’iconografia non corrobora un’interpretazione cristiana. L’arco contiene una ricca simbologia solare che non si può minimizzare.
Si deve accettare l’idea che, anche dopo il progressivo avvicinamento di Costantino al cristianesimo, egli tolleri definizioni neutrali della divinità cui fa egli stesso ricorso: a essere fuori discussione appare piuttosto la scelta monoteista42. Per quanto definitiva sia stata la conversione di Costantino, essa non deve essere stata recepita in tutte le sue implicazioni, sopratutto dall’aristocrazia pagana, anche per la sua linea di azione, tutto sommato prudente.
In merito alla questione posta dal cristianesimo, le decisioni prese a Milano da Costantino e Licinio devono essere state relativamente semplici: essi concordano che in tutto l’Impero i cristiani avrebbero goduto di quella libertà di culto di cui avevano già goduto in Occidente e avrebbero ottenuto la restituzione delle proprietà confiscate. Tale accordo non si traduce in nessun atto formale, perché di questo non c’è bisogno.
L’equivoco si spiega in larga misura con l’attribuzione fuorviante del termine ‘editto’ alla lettera inviata a ogni provincia orientale dopo la sua liberazione dall’‘usurpatore’ Massimino. In sintesi: il documento che è consuetudine chiamare ‘editto di Milano’ non è un editto; tale documento non è promulgato a Milano; l’autore del documento non è Costantino ma Licinio; non è grazie a quel documento che il cristianesimo diviene religione tollerata, poiché ciò è già accaduto due anni prima in virtù dell’editto di Galerio dell’aprile 311.
La disposizione non riguardava dunque l’Impero nel suo complesso, ma solo l’Oriente. Al limite si potrebbe parlare, come suggeriva già Otto Seeck, di «direttiva di Nicomedia»43.
D’altra parte, il testo più completo su cui ci si basa quando si parla di ‘editto di Milano’, vale a dire quello di Lattanzio44, parla espressamente di una missiva inviata al governatore della Bitinia («litterae ad praesidem datae»). Certamente alla fine della lettera si fa riferimento a una divulgazione tramite pubblica affissione della stessa: ma si tratta appunto di una divulgazione che riguarda il governatore della Bitinia, che recepisce e rende vincolante la direttiva imperiale.
È evidente a tutti che la storia o, quanto meno, una vulgata storiografica hanno bisogno di miti, soprattutto quando si tratta di mettere in evidenza momenti di svolta. Uno di questi è appunto quello rappresentato dal cosiddetto editto di Milano, un evento in un certo senso ‘comodo’ perché funzionale alla monumentalizzazione di Costantino e al significato epocale della sua figura, anche se privo di un’effettiva base storica, e perché sinteticamente riassuntivo della fine un’età (quella del presunto Impero persecutore) e dell’inizio di un’età nuova (quella dell’Impero cristiano).
Contro l’ipotesi dell’esistenza di un editto di Milano sembra avere un suo peso il fatto che in Africa ancora nel 314 è l’editto di Galerio a costituire il presupposto per la politica di tolleranza verso i cristiani. Come conseguenza di quelli che si possono dunque, con maggiore aderenza alla realtà storica, definire semplicemente gli ‘accordi’ di Milano, c’è, come detto, la direttiva emanata da Licinio il 13 giugno 313 dopo la vittoria su Massimino per i territori sino ad allora controllati da quest’ultimo, in cui l’editto di Galerio era stato applicato in misura molto limitata. Con la battaglia di Campus Ergenus del 30 aprile 313 si può dire che si chiudano a un tempo la stagione tormentata della tetrarchia e, definitivamente, quella delle persecuzioni. Massimino, infatti, aveva approfittato della morte di Galerio per impadronirsi dell’Asia Minore. Nei confronti dei cristiani si era limitato a disporre una temporanea sospensione delle persecuzioni, senza pubblicare formalmente l’editto di tolleranza. Nel novembre del 311, in seguito a una serie di petizioni di città (tra cui una doppia richiesta di Nicomedia) e di rescritti imperiali, le persecuzioni riprendono, proseguendo sino alla fine dell’anno successivo, quando sono sospese con un’apposita lettera inviata al prefetto del pretorio Sabino. Solo dopo la sconfitta subita ad opera di Licinio anche l’irriducibile Massimino emana un editto di tolleranza.
Nel 313 non si apre, dunque, un periodo di tolleranza religiosa in senso proprio, ma si pone termine alle conseguenze negative delle persecuzioni religiose dioclezianee. Grazie al sostegno imperiale il cristianesimo acquisirà rapidamente non soltanto lo status di religione riconosciuta, che è lecito praticare senza incorrere in forme di sanzione, ma una posizione privilegiata. I primi anni di regno di Costantino sono contrassegnati da suoi interventi forti negli affari interni della Chiesa africana. Lo stile delle sue lettere è contraddistinto da un linguaggio violentemente assertivo proprio di un uomo certo di conoscere la differenza tra la retta fede e quella cattiva e intenzionato a porre in atto la sua versione di quella buona. La sua politica è finalizzata alla realizzazione di un’unità che identifichi la sola vera Chiesa con il solo vero Stato. In realtà gli interventi imperiali finiscono per radicalizzare il fazionalismo interno delle chiese africane e a perpetuarlo per tutto il IV secolo45.
1 Cfr. ora, in generale, M. Kahlos, Forbearance and Compulsion: the Rhetoric of Religious Tolerance and Intolerance in Late Antiquity, London 2009.
2 Cfr. P. Garnsey, Religious Toleration in Classical Antiquity, in Persecution and Toleration, ed. by W.J. Sheils, Oxford 1984, pp. 1-28. Una puntuale messa a punto delle questioni fondamentali si può leggere ora in G.A. Cecconi, Introduzione, in Politiche religiose nel mondo antico e tardoantico, a cura di G.A. Cecconi, Ch. Gabrielli, Bari 2011, pp. 7-19.
3 Cfr. F. Millar, The Imperial Cult and the Persecutions, in Le Culte des souverains dans l’Empire Romain, éd. par E.J. Bickerman, W. den Boer, Vandoeuvres-Genève 1973, pp. 145-165.
4 Cfr. M. Sordi, I cristiani e l’Impero romano, Milano 1992, pp. 77-80.
5 Cfr. P. Stephenson, Constantine. Unconquered Emperor, Christian Victor, London 2009, p. 62.
6 Cfr. R. Selinger, The Mid-Third Century Persecutions of Decius and Valerian, Frankfurt 2002.
7 Lact., mort. pers. 4,1 e 5,1.
8 Cfr. in generale H. Musurillo, The acts of the Christian Martyrs, Oxford 1972.
9 Cfr. R. Bratož, Die diokletianische Christenverfolgung in den Donau- und Balkanprovinzen, in Diokletian und die Tetrarchie, hrsg. von A. Demandt, A. Goltz, H. Schlange-Schöningen, Berlin-New York 2004, pp. 115-140.
10 W. Seston, Dioclétien et la Tétrarchie, Paris 1946.
11 Cfr., da ultimo, A. Städele, Laktanz. De mortibus persecutorum. Über die Todesarten der Verfolger, Turnhout 2003, pp. 7-88.
12 Paneg. X 2,11,6. Cfr. A. Marcone, La politica religiosa: dall’ultima persecuzione alla tolleranza, in Storia di Roma, III, 1, L’età tardoantica. Crisi e trasformazione, a cura di A. Carandini, L. Cracco Ruggini, A. Giardina, Torino 1993, pp. 223-245. I panegirici appaiono come il tentativo di spiegare ai sudditi un progetto politico particolarmente complesso per il quale non è fuori luogo ricorrere alla nozione di ‘propaganda’ sia pure con cautela: cfr. il volume Die Tetrarchie - Ein neues Regierungssystem und seine mediale Präsentation, hrsg. von W. Eck, D. Boschung, Wiesbaden 2006, e, in particolare, i contributi di W. Eck, Worte und Bilder. Das Herrschaftskonzept Diocletians im Spiegel öffentlicher Monumente, pp. 323-346 e di D. Boschung, Die Tetrarchie als Botschaft der Bildmedien. Zur Visualisierung eines Herrschaftssystem, pp. 349-380. In merito all’utilizzabilità per questo periodo del concetto di propaganda si vedano le acute considerazioni di F. Carlà in F. Carlà, M.G. Castello, Questioni tardoantiche. Storia e mito della “svolta costantiniana”, Roma 2010, pp. 31-35.
13 Cfr. A. Marcone, La politica religiosa di Diocleziano, in San Giusto e la tradizione martiriale tergestina, a cura di G. Cuscito, Trieste 2005, pp. 19-31.
14 Paneg. III 2,2.
15 Cfr. ora B.D. Shaw, Sacred Violence. African Christian and Sectarian Hatred in the Age of Augustine, Cambridge 2011, pp. 591-597.
16 ILTun 470B,C.
17 Cfr. P. Garnsey, Religious Toleration cit., pp. 9-10; inoltre il mio Editto di Galerio e fine delle persecuzioni, in corso di stampa.
18 «Grazie a pietà e devozione e a questa stessa sapienza abbiamo capito che tutto è governato e retto dalla potenza degli dei, abbiamo superato tutte le nazioni».
19 «Appena espugnate le città nemiche, quando la vittoria ancora inebria, venerano le divinità dei vinti ricercano e fanno propri gli dei di ogni dove ed erigono altari persino a ignoti Mani e divinità». Cfr. E. Heck, Minucius Felix und der Römische Staat. Ein Hinweis zum 25. Kapitel des Octavius, in Vigiliae Christianae, 38 (1984), pp. 154-164.
20 Cfr. G. Deckers, Die Wandmalerei im Kaiserkultraum von Luxor, in Jahrbuch des Deutschen Archäologische Instituts, 94 (1979), pp. 604-605.
21 Cfr. G. Mitrev, Civitas Heracleotarum: Heracleia Sintica or the Ancient City at the Village of Rupite (Bulgaria), in Zeitschrift für Papyrologie und Epigraphik, 145 (2003), pp. 263-272; C. Lepelley, Une inscription d’Heraclea Sintica (Macedoine) récemment découverte, révélant un rescrit de l’empereur Galère restituant ses droits à la cité, in Zeitschrift für Papyrologie und Epigraphik, 146 (2004), pp. 221-231.
22 Cfr. H.A. Drake, Constantine and the Bishops, Baltimore 2000, p. 152.
23 Cfr. A. Marcone, Politica religiosa, cit.
24 Cfr. E. DePalma Digeser, Lactantius, Porphyry, and the Debate over Religious Toleration, in Journal of Roman Studies, 88 (1998), pp. 129-146; Id., A Threat to Public Piety: Christians, Platonists, and the Great Persecution, New York 2012.
25 Cfr. E. DePalma Digeser, Lactantius, Porphyry, cit.
26 Cfr. A. Marcone, Lattanzio e Costantino, Atti del Convegno Constantinus. The First Christian Emperor? Religion and Politics in the Fourth Century (Barcelona-Tarragona 20-24 March 2012), in corso di stampa.
27 Eus., h.e. IX 4,2 (cfr. anche Lact., mort. pers. 36, 4-5). Cfr., da ultimo, N. Belayche, La politique religieuse païenne de Maximin Daia. De l’historiographie à l’histoire, in Politiche religiose, cit., pp. 235-259.
28 Eus., h.e. IX 4,2; IX 11,1.
29 Aug., civ. 19, 23; Cfr. E. De Palma Digeser, The Making of a Christian Empire, Lactantius and Rome, Ithaca-London 2000, pp. 5-6.
30 Cfr. P.S. Davies, The Origin and Purpose of the Persecution of AD 303, in Journal of Theological Studies, 40 (1989), p. 72.
31 Ivi, p. 71.
32 Cfr. K. Rosen, Constantin der Große, die Christen und der Donatistenstreit 312-314. Eine Untersuchung zu Optatus von Mileve, Appendix V, und zum Verhältnis von Staat und Kirche im 4. Jahrhundert, Paderborn 2011, p. 19.
33 Cfr. D. Srejovic, C. Vasic, Emperor Galerius’ Buildings in Romuliana (East Serbia), in Antiquité Tardive, 2 (1994), pp. 231-241; W. Kuhoff, Diokletian und die Epoche der Tetrarchie, Frankfurt am Mein 2001, pp. 761-783.
34 Sulle forme di monoteismo che il paganesimo aveva conosciuto in età imperiale si veda ora One God. Pagan Monotheism in the Roman Empire, ed. by S. Mitchell, P. Van Nuffelen, Cambridge 2010, pp. 1-15.
35 Eus., h.e. X 6,1-5.
36 Eus, h.e. X 5,15-17.
37 Cfr. G. Bonamente, Sulla confisca dei beni mobili dei templi in epoca costantiniana, in Costantino il Grande dall’Antichità all’Umanesimo, a cura di G. Bonamente, F. Fusco, Macerata 1992-1993, pp. 171-201, in partic. 173.
38 Eus., h.e. X 5,2-14.
39 Lact., mort. pers. 48,2-6.
40 Si tratta di un insieme di riferimenti che torna bene se si tiene conto di come sembri assai probabile che Lattanzio abbia portato con sé il De mortibus pressoché ultimato al momento del suo arrivo a Treviri alla corte di Costantino nel 313. Cfr. E. Heck, Konstantin und Lactanz in Trier. Chronologisches, in Historia 58 (2009), pp. 118-130.
41 Cfr. N. Lensky, Evoking the Pagan Past: Instinctu divinitatis and Constantine’s Capture of Rome, in Journal of Late Antiquity, 1 (2008), pp. 204-257.
42 K. Rosen, Constantin der Große, cit., p. 20.
43 O. Seeck, Das sogenannte Edikt von Mailand, in Zeitschrift für Kirchengeschichte, 12 (1891), pp. 381-386; da ultimo T.D. Barnes, Constantine: Dynasty, Religion, and Power, in the Later Roman Empire, Chichester 2011, pp. 93-97.
44 Lact., mort. pers. 48.
45 Cfr. B.D. Shaw, Sacred Violence, cit., p. 491.