Peplum
L'antichità greco-romana aveva affascinato fin dagli albori del cinema i produttori e tra la fine degli anni Cinquanta e l'inizio dei Sessanta il massiccio investimento di capitali statunitensi per ricostruire la storia di quel periodo nella rinata Cinecittà stimolò la fantasia dei registi e dei produttori italiani. A fronte delle miliardarie produzioni americane, si misero così in cantiere produzioni nazionali con un impegno economico di gran lunga minore, ma capaci con l'inventiva di colmare il divario di mezzi a disposizione. Le componenti furono una forte dose di ironia, una buona capacità di giocare con trucchi ed effetti speciali per centuplicare i mezzi a disposizione, la presenza di uno o più culturisti provenienti dalle palestre e dotati di muscolature espanse all'inverosimile, storie fantastiche piene di ritmo e di colpi di scena. Si creò in questo modo una vera e propria nuova estetica del cinema mitologico; un'estetica costruita sul concetto di iperbole in senso letterale (le avventure erano mirabolanti ed eccessive fin dalla scelta dei titoli), ma anche in termini produttivi (i muscoli dei protagonisti erano gonfiati, le pettinature delle attrici cotonate, le scenografie utilizzavano per la prima volta il polistirolo espanso, la fotografia impiegava ogni trucco per far sembrare più fastose le scenografie e più numerose le comparse). Tale estetica, che conquistò a sorpresa il mercato cinematografico americano, non venne presa in considerazione dalla critica italiana, mentre suscitò l'attenzione della giovane critica francese: i "Cahiers du cinéma" dedicarono un numero speciale al cinema mitologico italiano per il quale coniarono la definizione péplum (dal termine che indica il corto vestito dei personaggi maschili), che diventò il modo internazionale per indicare il cinema storico-mitologico di quegli anni.Ulisse realizzato nel 1954 fu il primo tentativo di unire l'estetica americana del kolossal con la grande tradizione italiana: la regia venne affidata a Mario Camerini, già autore di alcuni Maciste del periodo muto. Il film si basava sulla presenza del divo americano Kirk Douglas e ottenne un grande successo. Il buon risultato commerciale di Ulisse spinse ancor di più i produttori statunitensi a prendere in considerazione la possibilità di girare a Cinecittà i film storico-avventurosi: le comparse costavano molto meno, vi erano ottimi tecnici a disposizione, le spese generali e le tariffe sindacali erano più basse di quelle vigenti negli studios hollywoodiani. Nacque così la 'Hollywood sul Tevere', che avrebbe fornito infinito materiale alle cronache mondane dell'Italia in corso di trasformazione da paese contadino a paese industriale e metropolitano: i punti più alti sul piano dell'investimento finanziario sarebbero stati proprio due film storici quali Ben Hur (1959) di William Wyler e Cleopatra (1963) di Joseph Mankiewicz.Il vero capostipite del nuovo cinema mitologico italiano fu Le fatiche di Ercole (1958) di Pietro Francisci: l'opera conteneva tutti gli elementi tipici del p., e proprio per questo motivo si differenziava dagli altri film prodotti fino a quel momento in Italia. La storia, scritta da Ennio De Concini, univa il fascino della mitologia al ritmo incalzante dell'avventura e all'ironia voluta dagli autori. La fotografia di Mario Bava giocava con i colori pastello e accentuava il senso del meraviglioso con espedienti a basso costo, come i fumogeni colorati. La scenografia di Flavio Mogherini era ostentatamente ricca proprio perché era intrinsecamente povera, e forse per questo risultava più affascinante delle opulente ricostruzioni statunitensi. Ma l'apporto di questi tre professionisti, che pure avrebbero avuto un ruolo nel futuro del cinema italiano, passò in secondo piano rispetto alla grande intuizione del regista Francisci e del produttore Nello Santi: far interpretare Ercole a Steve Reeves, semisconosciuto nel mondo del cinema, ma famoso in quello delle palestre per essere stato più volte insignito del titolo di Mister Universo, il premio assegnato all'atleta che con la pratica del culturismo aveva ottenuto una muscolatura perfetta. Anche il culturismo, diffusosi negli Stati Uniti subito dopo la guerra, era il simbolo di una società che cambiava, di una maggiore ricchezza che consentiva diete basate su zuccheri e bistecche. Insomma, erano presenti tutte le componenti perché Le fatiche di Ercole venisse percepito come una straordinaria novità e ottenesse un ottimo esito commerciale.Ma il successo del nuovo genere non si limitò solo all'Italia: anzi, la carta vincente del p. fu proprio la sua grande capacità di penetrare i mercati di tutto il mondo. Un distributore statunitense, Joe E. Levine, intuì infatti le potenzialità del film e acquistò i diritti per gli Stati Uniti. Il film uscì negli Stati Uniti nel 1958 con un grande battage pubblicitario e con un numero di copie assolutamente inusitato per l'epoca, ben 300; da notare che il doppiaggio americano (curato da un giovanissimo Mel Brooks) accentuò notevolmente il carattere ironico dei dialoghi, rendendo Hercules (era questo il titolo americano) quasi una parodia dei severi kolossal di Cecil B. DeMille. L'incasso superò le più rosee aspettative e da quel momento il p. diventò il genere commerciale più richiesto in tutto il mondo.Si assistette così, in pochissimo tempo, a un proliferare di film sull'antichità, pronti a distaccarsi sempre più dal mito e a spingersi con sempre minori remore verso la fantasia. A fianco di Steve Reeves arrivarono altri culturisti americani, come Mark Forest, Gordon Scott (che era stato anche l'interprete di alcuni film su un altro personaggio mitico come Tarzan), Gordon Mitchell, Dan Vadis, ai quali si aggiunsero due culturisti italiani, Adriano Bellini e Sergio Ciani, che diventarono famosi rispettivamente con gli pseudonimi di Kirk Morris e Alan Steel. Il costo medio di ogni film tese progressivamente ad abbassarsi, le situazioni narrative a ripetersi, ma nonostante questo il pubblico per un certo periodo dimostrò di apprezzare queste storie semplici e ricche di fantasia. In alcuni casi fu il regista a fare la differenza; per es. Vittorio Cottafavi (Ercole alla conquista di Atlantide, 1961) arricchì di ironia e divertimento una storia nella quale si trovavano addirittura riferimenti al nazismo; Riccardo Freda (Maciste all'inferno, 1962), Sergio Corbucci (Maciste contro il vampiro, 1961, codiretto con Giacomo Gentilomo) e Antonio Margheriti (Ursus, il terrore dei Kirghisi, 1964) combinarono l'iconografia del p. con quella horror, ottenendo risultati originali e sorprendenti; Duccio Tessari (Arrivano i Titani, 1962) scelse più esplicitamente la strada dell'ironia, come fece Sergio Leone (El coloso de Rodas, 1961, noto anche come Il colosso di Rodi); Carlo Campogalliani, già attivo ai tempi del muto, riprese per primo il personaggio di Maciste (Maciste nella valle dei Re, 1960), contribuendo non poco a creare una nuova estetica dell'avventura fantastica.Trattandosi di produzioni a basso costo, gli espedienti per ridurre le spese e rientrare in budget sempre più ristretti costituirono anch'essi un tratto distintivo del genere. Per es., quando un regista si ammalava non si aspettava la sua guarigione, ma veniva sostituito da colleghi giovani sotto contratto. Fu il caso dei due anziani Mario Bonnard e Guido Brignone, chiamati rispettivamente a dirigere Gli ultimi giorni di Pompei e Nel segno di Roma, entrambi del 1959. Vista l'età avanzata, i due firmarono i film ma non li diressero: per il primo la regia venne affidata a Leone e per il secondo a una coppia veramente sorprendente, Freda (che filmò le scene di battaglia) e Michelangelo Antonioni (autore delle sequenze in interni). Molto spesso, per risparmiare, si mettevano in cantiere due film contemporaneamente. Così accadde, per es., per Gli schiavi più forti del mondo e La vendetta di Spartacus, entrambi del 1964 e diretti da Michele Lupo, per Ercole contro i tiranni di Babilonia (1964) e Golia alla conquista di Bagdad (1965) di Domenico Paolella; addirittura per quattro film realizzati contemporaneamente nel 1964 da Amerigo Anton (Tanio Boccia): Maciste alla corte dello Zar, La valle dell'eco tonante, Il dominatore del deserto e I predoni della steppa. Anche il fatto di ritrovare gli stessi costumi, le stesse scenografie, gli stessi caratteristi e le stesse scene di battaglia diventò un tratto distintivo del genere, uno degli elementi fondanti per il suo successo di pubblico, ma anche per la sua riconoscibilità. Gli esterni in effetti venivano girati negli stessi posti (come la spiaggia di Lavinio, a sud di Roma, e i boschi di Manziana, sempre nel Lazio), mentre per gli interni si utilizzavano spesso lo stesso tempio e lo stesso villaggio ricostruiti negli stabilimenti De Paolis. Con il passare degli anni si verificarono addirittura casi di sequenze riciclate da un film all'altro: avvenne soprattutto per le scene di massa, per le ricostruzioni che nonostante i bassi costi non potevano essere rifatte per ogni film. In particolare, la battaglia finale di Annibale (1959) di Carlo Ludovico Bragaglia e la sfilata dell'esercito in Costantino il Grande (In hoc signo vinces) del 1961 di Lionello De Felice e apparvero più e più volte in altri film; e lo stesso avvenne per alcune scene gladiatorie girate da Freda per il film Solo contro Roma (1962) di Herbert Wise (Luciano Ricci). Ma esisteva anche un film che era fatto per oltre la metà della sua durata con scene riciclate: si intitolava La sfida dei giganti (1965) di Maurice A. Bright (Maurizio Lucidi), e non a caso venne considerato una sorta di pietra tombale per il genere che proprio nel 1965 sparì definitivamente, soppiantato nei gusti del pubblico dal western all'italiana.Un elemento altrettanto caratteristico del genere fu la recitazione. Se l'eroe culturista teneva la scena soprattutto con la propria prestanza fisica e a lui erano affidate poche battute, i ruoli parlanti coincidevano sostanzialmente con i suoi malvagi antagonisti, quasi sempre interpretati da attori di parola del teatro italiano, da Mario Feliciani ad Arnoldo Foà, da Enrico Maria Salerno a Gianni Santuccio, da Mario Scaccia ad Alberto Lupo, che davano vita a personaggi eccedenti in sadismo, anch'esso venato di ironia, diventando così un altro elemento quasi parodistico. Proprio per com'era strutturato e per il suo alto grado di codificazione, il cinema peplum si prestò quindi molto bene alla parodia: lo dimostrano alcuni film molto divertenti come Maciste contro Ercole nella valle dei guai (1961) di Mario Mattoli e Totò contro Maciste (1962) di Fernando Cerchio.Repentinamente com'era arrivato, il p. scomparve produttivamente alla metà degli anni Sessanta. Rimane però un oggetto di studio, come dimostra l'amplia bibliografia, soprattutto francese, che vede in questo genere l'ultima forma di cinema popolare semplice e ingenuo, destinato a essere spazzato via prima dall'affermazione del nuovo cinema degli anni Sessanta e poi dal ritorno di costosissime superproduzioni hollywoodiane basate su dispendiosi effetti speciali. E crescono anche il culto e il collezionismo da parte di cinefili e appassionati, così come retrospettive e omaggi periodicamente ospitati nell'ambito di festival e cineteche. Si sono invece rivelati fallimentari i tentativi di resuscitare il p. sul piano produttivo: l'esempio più noto è quello di Hercules (1983) di Luigi Cozzi, che ha unito vecchie glorie del genere al nuovo culturista Lou Ferrigno senza però ottenere alcun esito commerciale.
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