paura
Una reazione emotiva a un pericolo esterno consciamente riconosciuto, che si manifesta con uno stato di allerta, apprensione, timore, preoccupazione, esitazione, diffidenza, disagio o inquietudine, è chiamata paura. Al contrario dell’ansia o della fobia, la paura è considerata un fenomeno fisiologico normale.p [➔ ansia; emozioni; fobia; limbico, sistema; neurovegetativo, sistema] La p. è una delle emozioni primarie, comune sia alla specie umana, sia a molte specie animali. Si manifesta ogni qualvolta l’individuo percepisce un attacco o una minaccia alla propria integrità. La p. ha come finalità fondamentale la salvaguardia e la sopravvivenza dell’individuo attraverso la preparazione dell’organismo alla fuga e all’evitamento motivato. Si avvale di un sistema di attivazione che è caratterizzato da: selettività (il sistema è attivato da stimoli che nel corso dell’evoluzione sono stati associati al pericolo); automaticità (gli stimoli possono attivare il sistema anche solo dopo una rapida e preliminare analisi delle informazioni); incapsulamento (una volta attivato il sistema, la risposta è difficilmente influenzabile); specializzazione di una rete neuronale di controllo del sistema di attivazione. Se la p. diventa estrema ed eccessivamente intensa, perde la sua funzione positiva di segnale di una situazione di emergenza e di allarme e sconfina nella sfera della psicopatologia diventando ansia, fobia o panico.
Potenzialmente qualsiasi oggetto, persona, circostanza può essere vissuto come pericoloso e quindi indurre paura. Anche la stessa p. può generare paura. Questa può insorgere perfino per mancanza di un evento atteso, e può variare da momento a momento anche per lo stesso individuo. Fondamentalmente la p. può essere innata oppure appresa. In entrambi i tipi sono comuni la percezione di uno stimolo come fonte potenziale di pericolo, la valutazione della minaccia effettiva e l’organizzazione di comportamenti reattivi rivolti a superare lo stato di pericolo. Le p. innate sono scatenate: da stimoli fisici molto intensi, come i rumori improvvisi, i tuoni, o le sensazioni dolorose; da eventi, oggetti o persone estranee dai quali l’individuo non sa che cosa aspettarsi ed eventualmente come affrontare; da situazioni di pericolo per la sopravvivenza della specie, come il freddo, le tenebre, l’isolamento, l’assenza o la perdita della figura di attaccamento, l’interazione con individui o animali aggressivi. Esempi di p. tipicamente innate sono: la p. degli estranei, del buio, dei ragni, dei serpenti o del sangue, ecc. Queste p. ancestrali fanno parte di una memoria della specie che permette di riconoscere i predatori e gli altri pericoli. Le p. apprese nascono da esperienze dirette che l’individuo ha vissuto e catalogato come pericolose. Il meccanismo universale responsabile dell’acquisizione di paure apprese viene definito condizionamento (➔): esso implica che la p. si possa curare mediante un decondizionamento. Il condizionamento può trasformare un qualunque stimolo neutro – come un suono, un’immagine o un oggetto tranquillizzante – in stimolo fobico, mediante la pura associazione, per vicinanza spaziale e temporale, a uno stimolo originariamente fonte di p. come, per es., lo shock elettrico. Si ritiene che le p. apprese possono svilupparsi non solo per esperienza diretta ma anche attraverso l’osservazione, i racconti, le rappresentazioni, per il tramite di un sistema neuronale deputato alla trasmissione della p. sociale.
La p. si esprime allo stesso modo nell’uomo e in molti altri animali. Si ritiene che i modelli di risposta che possono essere messi in atto per proteggersi dalle situazioni di pericolo siano geneticamente programmati. Come suggerisce Isaac Marks gli animali ricorrono a diverse strategie comuni: la ritirata (evitamento o fuga), l’immobilità, l’aggressione difensiva (far paura), la sottomissione o la pacificazione. Nei primati e negli esseri umani fin dai primi anni di vita la p. si manifesta con espressioni facciali che hanno caratteristiche universali. A causa della tensione dei muscoli del viso, gli occhi sono sbarrati (secondo la ben nota espressione «la paura si legge negli occhi»), la bocca è semiaperta, le sopracciglia sono avvicinate e la fronte corrugata. Uno stato di p. acuta e improvvisa si accompagna a un’attivazione del sistema nervoso autonomo parasimpatico con diminuzione della frequenza cardiaca, abbassamento della pressione sanguigna e della temperatura corporea, diminuzione della tensione muscolare, sudorazione e dilatazione delle pupille. Ciò determina l’incapacità di reagire in modo attivo con la fuga o l’attacco. La paralisi che si verifica ha lo scopo di tentare di bloccare l’attacco, che potrebbe essere scatenato dalla fuga o dal movimento dell’aggredito da parte dell’aggressore. Stati di p. meno intensi invece attivano il sistema nervoso simpatico (la tensione muscolare, il battito cardiaco e il respiro aumentano) che predispone l’aggredito alla fuga o allo scontro. Le tipiche espressioni della p. hanno anche la scopo di segnalare ad altri elementi del gruppo la presenza di un evento minaccioso e quindi di richiedere soccorso; tuttavia possono anche diffondere e contagiare la paura.
Diverse evidenze sperimentali, basate sulla valutazione delle conseguenze della distruzione, della stimolazione o delle alterazioni patologiche dell’amigdala o basate su studi di visualizzazione encefalica, hanno dimostrato che questa struttura svolge un ruolo fondamentale nella rilevazione, valutazione, coordinamento delle risposte comportamentali ai segnali di pericolo e nella gestazione e fissazione dei ricordi legati a un’esperienza paurosa e soprattutto nell’arricchimento di contenuto emozionale dei ricordi. Nell’uomo la rimozione dell’amigdala – per il trattamento delle crisi epilettiche – è stata associata a deficit selettivo del riconoscimento di espressioni facciali spaventate. La malattia di Urbach- Wiethe, una rara sindrome genetica che provoca calcificazione e disattivazione bilaterale dell’amigdala, causa difficoltà nel riconoscimento di espressioni facciali impaurite (verosimilmente perché il soggetto evita spontaneamente di fissare gli occhi dei visi impauriti che gli vengono sottoposti) o dell’intensità a esse correlata, a dispetto della capacità di riconoscere altre emozioni, come gioia o tristezza, dall’osservazione degli occhi e della faccia. Negli animali l’amigdalotomia bilaterale può ridurre profondamente la p. per blocco nell’attivazione dei marcatori relativi della p. – condizionata o incondizionata – come l’immobilità, le variazioni della frequenza cardiaca, l’aumento della pressione sanguigna o il riflesso di sobbalzo. Per es., ratti sottoposti a un simile trattamento non hanno p. di avvicinarsi a un gatto sedato e si possono spingere a mordicchiargli le orecchie. La stimolazione dell’amigdala, invece, può indurre, a seconda del sito stimolato, un aumento dello stato di vigilanza e di allerta, o può suscitare una combinazione di p. e aggressività. Nell’uomo, invece, la stimolazione dell’amigdala provoca ansia: in condizioni sperimentali finalizzate a scatenare uno stato di p. (come nel riflesso di trasalimento causato da stimoli acustici), le indagini di visualizzazione encefalica mostrano un’attivazione di questa struttura.
L’amigadala (➔) è costituita da 13 nuclei; diversi dati sperimentali dimostrano che alcuni di essi svolgono un ruolo chiave nella p. acquisita. Questi sono il complesso basolaterale (BLA, che comprende i nuclei laterale, basale e accessorio basale) e il nucleo centrale (CEA, suddiviso nella porzione capsulare, mediale e laterale). Questi nuclei si trovano nell’interfaccia tra le informazioni sensoriali in entrata e quelle motorie in uscita, importanti per l’acquisizione e la memorizzazione della p. e per le risposte comportamentali tipiche della paura. Il complesso BLA è riccamente innervato da fibre provenienti dalla neocorteccia, da regioni sottocorticali sensoriali uni- o polimodali e soprattutto dal talamo. In partic., il nucleo laterale riceve informazioni uditive e visive; gli altri nuclei informazioni dall’ippocampo e dalla corteccia prefrontale. Il flusso di informazione viaggia in direzione lateromediale; le fitte interconessioni tra i diversi nuclei rendono possibile l’integrazione di informazioni che provengono da differenti regioni. Il complesso BLA ha la duplice funzione di valutare le informazioni sensoriali (in termini di valenza emotiva e vigilanza), e di influenzare gli altri nuclei e le regioni cerebrali nell’allestimento delle risposte integrate agli stimoli pericolosi. Il nucleo laterale comunica con i nuclei basale e basale accessorio ed emette fibre che proiettano direttamente al nucleo CEA, il quale riceve anche le efferenze dal nucleo basale e basale accessorio. A sua volta il nucleo CEA è responsabile della risposta dell’organismo, grazie ai suoi collegamenti con diversi nuclei del mesencefalo e del tronco dell’encefalo. Attraverso la via ventrale e la stria terminale, e quindi l’intermediazione dell’ipotalamo, l’amigdala attiva l’asse ipotalamo-ipofisi-surrene e quindi regola le risposte endocrine che accompagnano e alimentano la risposta emotiva. I collegamenti con i neuroni colinergici del prosencefalo basale, che proiettano a loro volta a vaste regioni della corteccia, consentono all’amigdala di influenzare l’attivazione e il processamento di informazioni multisensoriali a livello della corteccia. Inoltre la corteccia prefrontale che innerva il nucleo CEA modula, a sua volta, l’espressione di comportamenti già appresi. Un’altra efferenza di cruciale importanza è la diretta connessione del nucleo basale con il nucleo accumbens che consente di collegare la motivazione e il controllo motorio in un comportamento attivo ben organizzato. In altre parole, si ritiene che la connessione con il nucleo accumbens, e quindi con lo striato e il talamo, medi quei comportamenti attivi di evitamento della paura.
Joseph LeDoux ha identificato due circuiti neuronali coinvolti nelle risposte alle p. acquisite: una via breve (o bassa) e una lunga (o alta). La via breve è veloce e disordinata, mentre la via lunga, più lenta, veicola informazioni con una più precisa interpretazione degli eventi; entrambe le vie funzionano contemporaneamente. Il significato della via breve potrebbe essere riassunto drammaturgicamente nelle frasi «Non ci sono alternative» oppure «Sbrigati o sei morto». Se il portone di casa inizia a sbattere improvvisamente potrebbe trattarsi del vento o di un ladro che cerca di entrare: dal punto di vista comportamentale, tuttavia, è molto meno pericoloso presumere che si tratti di un ladro e abbandonare l’idea che si tratti del vento piuttosto che presumere il contrario. La via breve, che agisce subito, coinvolge il talamo (che riceve segnali acustici o visivi) il quale, non essendo in grado di decifrare se i segnali sono pericolosi o meno, li invia per precauzione all’amigdala. Questa, a sua volta, li trasmette all’ipotalamo, che prepara l’organismo alla risposta emotiva. Quindi, la via bassa non arriva alla corteccia, a differenza della via alta, la quale considera le varie possibilità: «È il vento oppure è un ladro?». Nella via alta, pertanto, le informazioni passano dal talamo alla corteccia sensoriale, la quale, dopo aver interpretato il segnale, lo invia all’ippocampo il cui ruolo è di stabilire il contesto. L’ippocampo pone domande del tipo «Ho gia sentito questo suono?» e in caso affermativo «Che significato aveva in quel momento?», «Quali altre cose avvengono, contemporaneamente allo sbattere della porta, che mi potrebbero aiutare a capire se si tratta di un ladro oppure del vento?» e a esse risponde. Dopo aver interpretato il contesto, l’ippocampo invia rappresentazioni più accurate e dettagliate al nucleo laterale dell’amigdala, la quale è in grado di decidere se attivare o no la risposta «combatti o fuggi». Entrambe le vie convergono poi sull’ipotalamo.
Gli studi condotti a partire dal 2003 dal gruppo di Michael Welsh hanno suggerito l’ipotesi che i complessi circuiti cerebrali della p. si sarebbero evoluti da un originario meccanismo di difesa da una minaccia di soffocamento. L’amigdala sarebbe considerata una sorta di sensore chimico che attiva un timore ancestrale, quello di soffocare. Il rivelamento dei livelli di anidride carbonica è infatti essenziale per la sopravivenza degli organismi che respirano ossigeno. L’amigdala è infatti dotata di canali ionici (ASC1A) sensibili al livello di acidità presente nel cervello, a sua volta legato all’eccesso di CO2, a cui i sensori rispondono inducendo un comportamento di p. e fuga. Gli studiosi hanno osservato che l’inalazione di anidride carbonica provoca nei topi una maggiore acidità nel cervello ed evoca un comportamento di terrore o di panico esagerato se sono presenti anche altri stimoli pericolosi (shock elettrico). Topi privi del gene che codifica il canale ASC1A non avvertono p. nelle condizioni sperimentali atte a indurre tale stato. Queste osservazioni potrebbero fornire nuove chiavi di lettura sul perché l’inalazione di CO2 scateni attacchi di panico, o perché coloro che soffrono di attacchi di panico siano particolarmente sensibili anche a bassissime concentrazioni di anidride carbonica, o perché i pazienti con insufficienza respiratoria siano estremanente ansiosi, o ancora perché l’effettuare dei respiri profondi allievi l’ansia. Potrebbero inoltre prospettare nuove strategie terapeutiche per contrastare alcuni disturbi dell’ansia basati sulle modulazioni dei livelli di acidità cerebrali o sulla modulazione dell’attività dei canali ionici sensibili all’acidità.
Già Ivan Petrovic Pavlov, nei suoi studi sui riflessi condizionati, aveva notato che il condizionamento svaniva dopo un certo tempo. Secondo Pavlov, tale estinzione non corrispondeva alla cancellazione del ricordo precedente, bensì alla formazione di una nuova memoria. L’intuizione di Pavlov è stata dimostrata sperimentalmente da Mohammed Milad e Gregory J. Quirk. Nel 2002 questi studiosi hanno osservato che, effettivamente, nel processo di estinzione del ricordo della p., si ha la formazione di una nuova memoria che, nel cervello dei mammiferi, si trova nella porzione ventromediale delle cortecce prefrontali. Una lesione in quest’area impedisce che si estingua la memoria della paura. Il controllo della p. da parte delle cortecce prefrontali mediali comporta la formazione di nuove connessioni con i nuclei dell’amigdala: un circuito che origina dal BLA e deposita nelle cortecce prefrontali il modo per controllare la p. (la memoria dell’estinzione), e un altro che dalle cortecce prefrontali invia un messaggio di controllo al nucleo CEA dell’amigdala, bloccandone l’ipereccitazione e le conseguenze comportamentali. Il fatto che l’estinzione della p. preveda la formazione di una nuova memoria e non la cancellazione di quella vecchia, implica che una grande p. difficilmente può essere cancellata. Essa infatti può riattivarsi nel momento in cui compaiono stimoli o situazioni simili a quelli che l’hanno generata. In ogni caso può essere però ben gestita dalle cortecce prefrontali che offrono al cervello un nuovo schema di reazione. È questa opportunità che alcuni tipi di psicoterapia si propongono di favorire: lo sviluppo nelle cortecce prefrontali di un nuovo circuito di risposta che sostituisca o controlli quello che alimenta la p. patologica. Nadia Canu
Paure ancestrali animali
Le paure ancestrali costituiscono un caso particolare di ansia (➔), ossia di un evento minaccioso, probabile ma non attualmente presente né imminente. Le paure ancestrali condividono con l’ansia la natura potenziale dell’evento in grado di provocare la reazione emotiva. Tuttavia, mentre l’ansia può essere considerata come la paura di un evento non presente ma noto, la paura ancestrale può essere considerata la paura di un evento non presente e che mai è stato incontrato nel corso dell’esistenza. Tra le paure ancestrali più comuni, si riscontrano la paura del buio, di ragni e altri insetti, dei topi, dell’acqua o del vuoto. Alcune di queste paure sono comuni tanto alla nostra specie quanto a specie a noi filogeneticamente precedenti.
La paura del vuoto, solitamente definita in ambito psicobiologico come paura del precipizio visivo, può essere dimostrata facilmente tanto nei bambini quanto in altre specie di mammiferi. Per dimostrare la naturale avversione per il vuoto in bambini in grado di gattonare, ma non ancora di camminare, li si pone su una lastra trasparente infrangibile al di sotto della quale è posto un disegno a scacchiera. Quest’ultimo è suddiviso in una porzione incollata sotto il vetro, e quindi simile a un solido, e un’altra appoggiata sul pavimento (quindi distante dalla lastra di vetro e in grado di simulare la presenza di un inesistente precipizio visivo). Si dimostra come i bambini molto piccoli siano in grado di comprendere la natura potenzialmente pericolosa del precipizio visivo – e quindi di fermarsi prima del vuoto percepito – sebbene non ne abbiano mai avuto conoscenza diretta. Studi simili, condotti in roditori di laboratorio, mai precedentemente esposti a situazioni di precipizio visivo, dimostrano come anche ratti e topi di pochi giorni siano in grado di evitare il potenziale pericolo. Oltre al precipizio visivo, è possibile dimostrare come roditori cresciuti in condizioni di cattività, e quindi mai precedentemente esposti al loro ambiente naturale, mostrino risposte d’ansia in seguito alla presentazione di stimoli ‘naturalmente’ pericolosi ma sconosciuti, come l’odore dell’urina di un potenziale predatore o un serpente. In laboratorio si dimostra come la semplice esposizione a uno degli stimoli citati in precedenza sia in grado di elicitare tutte quelle risposte fisiologiche (secrezione di ormoni come adrenalina, noradrenalina e corticosteroidi) e comportamentali (come fuga o immobilizzazione) tipiche di un conclamato stato d’ansia.
In ambito psicologico le paure ancestrali sono state analizzate in modo sistematico da Carl G. Jung. In partic., nella teoria junghiana, le paure ancestrali sarebbero parte degli archetipi, a loro volta definibili come conoscenze innate (non apprese tramite l’esperienza) e comuni a tutti gli individui della specie umana, il cui insieme costituisce l’inconscio collettivo. In biologia, le paure ancestrali costituiscono un argomento di estremo interesse da un punto di vista sia evolutivo sia teorico. Se nel primo caso una delle domande più importanti è come e perché siano presenti paure di eventi sconosciuti, da un punto di vista puramente teorico le paure ancestrali costituiscono un argomento centrale nel dibattito nature vs nurture, ossia se le conoscenze siano frutto dell’esperienza o della genetica. Comunque, sebbene i meccanismi biologici alla base delle paure ancestrali non siano stati tuttora completamente delucidati, è chiaro che queste debbano sottostare a qualche forma di ereditarietà genetica. Si ipotizza, per es., che le specie attuali abbiano mantenuto le caratteristiche che hanno permesso ai loro progenitori di sopravvivere e di riprodursi. Questa teoria postula che alcune paure ancestrali, come la paura del vuoto o dei serpenti, possano aver comportato qualche vantaggio evolutivo (legato, per es., a un ridotto rischio di predazione) e che gli attuali esponenti di una determinata specie mostrino la stessa paura, ereditata dai progenitori ‘fortunati’ come vestigia del loro passato evolutivo. Del resto, il ruolo esercitato dalle risposte d’ansia in ambito adattativo-evoluzionistico ha costituito un argomento centrale per diverse decadi laddove, a seconda dell’ambiente circostante, un profilo più o meno ansioso può delimitare il confine tra la sopravvivenza e la predazione. Così, in ambienti caratterizzati dalla presenza di molti predatori, un atteggiamento ansioso può essere associato a un ridotto rischio di predazione e quindi a un’aumentata sopravvivenza. Viceversa, in un ambiente in cui la competizione tra individui della stessa specie è alta, ma le risorse sono scarse, un atteggiamento meno prudente può conferire un vantaggio evolutivo: questo può, infatti, essere associato a più rapido accesso alle poche risorse disponibili e al reperimento di nuovi ambienti da colonizzare. Meccanismi genetici ed epigenetici di trasmissione delle informazioni potrebbero aiutare la comprensione di come tratti di personalità più o meno ansiosa possano essere trasferiti da una generazione a quella successiva. In partic., studi recenti stanno focalizzando l’attenzione sugli eventi ambientali in grado di interferire con i meccanismi molecolari alla base della trascrizione genetica, quali l’acetilazione e la metilazione del DNA. È stato per es. dimostrato come, in alcune specie di roditori, un aumento delle cure materne si associ a una riduzione delle risposte di ansia e di paura nella prole. Inoltre, è stato dimostrato come questo profilo temperamentale, ascrivibile a un aumento delle cure parentali, possa essere trasmesso, per via genetica, alle generazioni successive.