PATERNO MONCADA D'ARAGONA, Luigi Guglielmo
PATERNÒ MONCADA D’ARAGONA, Luigi Guglielmo. – Nacque nel 1614 a Palermo da Antonio e Giovanna La Cerda.
Erede degli Stati feudali dei Moncada, dei possedimenti e dei territori degli Aragona-Cardona e dei Luna, dopo l’adolescenza segnata dalla morte del fratello maggiore Francesco avvenuta in un incidente nel bosco di Mimiano, nei pressi di Caltanissetta, e dalla scelta dei genitori di abbandonare il secolo, il principe di Paternò fu avviato alla politica dal suocero, Fernando Afán de Rivera y Enríquez, duca di Alcalá, viceré di Napoli (1629-31), al quale il padre lo aveva affidato prima di morire, nonostante la sua presenza fosse poco gradita alla nobiltà napoletana, irritata dai privilegi del suo casato ma, soprattutto, dalla riforma della pratica forense avviata dal viceré, intesa dai più come un attacco al sistema di privilegi del Regno. La presenza di Alcalá a Napoli fu tuttavia breve: l’incidente diplomatico con Maria d’Ungheria, che, di passaggio nella città nel viaggio verso Vienna, accusò il viceré di non averla accolta con gli onori dovuti al suo rango, e gli intrighi del duca d’Alba lo indussero a un veloce ritorno in Spagna per giustificare le ragioni del suo comportamento mentre al suo posto giungeva da Roma Manuel de Zùniga y Fonseca, conte di Monterrey e cognato dell’Olivares.
Nondimeno, l’incidente fu rapidamente ricomposto e Alcalá nominato viceré di Sicilia (1632-35), un mandato percepito come una diminuzione, che rafforzò in lui l’ostilità nei confronti dell’Olivares. Il principe di Paternò trasse invece maggior prestigio dal ritorno in Sicilia. La nuova carica del suocero gli diede, infatti, la facoltà di distribuire favori e mercedi alla rete di amici e sodali che si estendeva dalla Sicilia a Napoli fino a Roma. Di contro, il giovane principe introdusse il viceré presso gli ambienti delle accademie dell’isola – in particolare quella dei Riaccesi di Palermo e della Fucina di Messina –, presso l’entourage dell’arcivescovo di Palermo, il cardinale Giannettino Doria, e della nazione genovese e presso i maggiori ministri togati.
Una guida d’eccezione per entrare rapidamente all’interno dei complessi meccanismi del potere nell’isola, dove Palermo e Messina competevano per il ruolo di capitale, dichiarando alla monarchia una fedeltà sostanziata dai capitali rastrellati per far fronte alle urgenze delle guerre nelle Fiandre, in Germania, in Francia. Di questo scontro, in apparenza superato dalla scelta della Corona in favore di Palermo, rimane eco nelle opere municipaliste e negli interessi delle aristocrazie e dei patriziati delle due città. Lo stesso Paternò possedeva tra i suoi volumi Un libretto in foglio quale contiene un memoriale che fa la Deputazione del regno di Sicilia a S. Maestà nel quale si rappresenta il danno che nasce dalla residenza della Corte a Messina, stampato a Palermo nel 1630, a testimoniare la sua partecipazione alle ragioni della città.
Nel corso del governo di Alcalá, il principe ebbe anche un ruolo politico nell’appianare i rapporti con il Parlamento, e nel trovare soluzioni alle tensioni provocate dall’assenza di grano, spesso dirottato fuori dai confini dell’isola. Inoltre in quegli anni, la sua residenza palermitana, palazzo Ajutamicristo, e il palazzo reale furono i luoghi della sua corte. In entrambi, egli esibì il lusso richiesto dal ruolo e dagli obblighi di rappresentanza, ospitando e partecipando alle liturgie del potere civile e religioso. Ogni celebrazione – l’apertura del Parlamento, ma anche le mascherate o le giostre – divenne occasione per mostrare alleanze e solidarietà sulla base della gerarchia del rango richiesta dal teatro cortigiano e da una retorica del potere funzionale all’incarico di presidente del Regno dopo la partenza del suocero per Milano e le Fiandre.
Furono anni importanti per il principe di Paternò, a cui la carica istituzionale consentì di intrecciare dimensione privata e pubblica, di migliorare la gestione del patrimonio e di intessere rapporti personali con i grandi arrendatari dei suoi Stati. Una folta schiera di personaggi che ritroviamo per decenni nei suoi libri di introiti ed esiti a testimonianza di rapporti duraturi seguiti con cura dal principe, oltremodo bisognoso di entrate costanti per mantenere i pesi finanziari impostigli dalla carica istituzionale.
Per tale motivo, fu anzi costretto ad alienare pezzi importanti del patrimonio: vendite di Stati che si alternarono a recuperi di terre, reiterando pratiche già messe in atto dalle progenitrici Luisa Luna e Maria d’Aragona, e alla fondazione di una città, Riviera di Moncada. Tali operazioni furono condotte prima da Paternò e poi – quando i suoi feudi entrarono sotto il controllo della Deputazione degli Stati, un organismo diretto a impedire il tracollo finanziario – dai giudici Pietro Corsetto e Rocco Potenzano, con il costante appoggio della nazione genovese. Lo documentano le lettere di cambi con importanti titolari di banchi a Palermo, Napoli, Roma, Madrid grazie alle quali Paternò poté avere la liquidità necessaria ai suoi bisogni di principe-presidente, e mantenere connessioni tra gli uomini delle istituzioni – Pietro Corsetto, Francesco Di Napoli, Mario Cutelli – e i suoi interessi particolari. Soprattutto dopo che l’opposizione di Giannettino Doria (è probabile che il cardinale assumesse atteggiamenti rispondenti agli umori della corte pontificia, dove i rapporti con la Spagna diventavano sempre più rigidi) lo costrinse a rafforzare i suoi rapporti con i togati: così le tensioni del Parlamento del 1636 furono superate grazie all’assistenza dei togati Corsetto e Potenzano e all’impegno di Di Napoli, esponente del braccio ecclesiastico, premiato poi da Paternò con la procura alla commenda de la Sierra de Belvis.
Altrettanto accadde quando si trattò di decidere da quali settori dell’economia attingere i donativi richiesti dalla Spagna in guerra. La proposta di un prelievo fiscale che gravasse esclusivamente sulle manifatture fu approvata con l’aiuto del reggente Corsetto – già partecipe delle scelte politiche del duca di Alcalá – del catanese Cutelli, del palermitano Vincenzo Surgento e del consultore Alonso De Agraz, membri della giunta incaricata da Filippo IV della soluzione della vicenda e vicini a Paternò nell’amministrazione degli Stati.
Quando poi, dopo la definitiva partenza del suocero, egli ebbe la piena titolarità del potere, evitò di schierarsi apertamente sul ruolo della capitale, ma non esitò a ricusare i tentativi messinesi di sminuire l’autorità viceregia e di compromettere il mercato del grano; e fu intransigente nell’opposizione all’Ordine gerosolimitano riguardo al commercio delle tratte e al ruolo delle due isole – Malta e Sicilia – del Mediterraneo in guerra.
Nel 1638 Paternò partì per Roma. L’arrivo del viceré Francisco de Mello e le prime iniziative politiche di questi – il ridimensionamento di Palermo e l’attacco alla Deputazione degli Stati – furono avvertite come una critica al precedente governo e il principe preferì allontanarsi dall’isola. Ma durante il viaggio morì la principessa María, già gravemente malata. Una grave perdita che superò in parte a Roma, dove, ospite dell’amico e ambasciatore di Spagna presso la Santa Sede, Manuel de Moura y Corte Real, marchese di Castel Rodrigo, organizzò il matrimonio tra la sorella Marianna e il figlio del marchese, Francisco, e i preparativi per il viaggio verso la Spagna dove rimase dal 1642 al 1644 tra Saragozza e Madrid. Anni in cui conobbe e sposò la figlia del marchese di Aytona, Caterina Moncada, menina della regina Isabella e fine conoscitrice dei segreti e degli umori della corte madrilena, nella quale strinse un’intricata rete di relazioni che avrebbe segnato il suo destino negli anni a venire.
Dalla Spagna il principe di Paternò partì nel 1644: nominato viceré di Sardegna vi rimase per due mandati fino al 1649, a fronteggiare i tanti pericoli della monarchia, bisognosa di milizie e di denaro da riscuotere in domini già sottoposti a un intenso drenaggio finanziario. Si trattò di mettere in atto politiche e mediazioni già collaudate negli anni del governo siciliano e di rafforzare la sicurezza del Regno sardo dal brigantaggio e dalle scorrerie nemiche.
Negli stessi anni, la Sicilia disastrata dai cattivi raccolti, dopo mesi di tensioni a stento frenate dalle classi dirigenti e dal clero, si preparava alla rivolta. Nel maggio 1647, turbato dal clima difficile che si respirava a Palermo – dove il 21 maggio la folla aveva preso d’assedio il palazzo pretorio – il principe di Calvaruso Cesare Moncada, zio e governatore degli Stati di Paternò, partì per Caltanissetta al fine di evitare la diffusione del malcontento tra la popolazione esasperata dagli aumenti del prezzo del grano e delle altre vettovaglie. Occorreva evitare la diffusione della rivolta che agitava Palermo e tenere sotto controllo le terre etnee, che più delle altre subivano l’influsso di Catania, dove la nobiltà stentava a tenere la scena politica.
Dalla Sardegna, il principe seguì tutto questo. Lo preoccupava soprattutto Palermo dove, dopo l’uccisione del capopopolo La Pilosa, Giuseppe Alesi sembrava agire sotto la regia dei teatini, che con cautela ora accendevano, ora spegnevano le tensioni. Ciò che accadde dopo è noto: il fallimento dei moti, l’indecisione del viceré Los Velez, la durezza dell’inquisitore Diegi Garsia Trasmiera e la repressione del presidente del Regno, il cardinale Teodoro Trivulzio, quando la morte del viceré segnò l’epilogo della rivolta popolare. Fatti di sangue, iniziati per fame e finiti in un eccidio di cui avrebbe scritto Antonino Collurafi – provocando fastidio nella corte madrilena che avrebbe preferito nascondere gli orrori commessi dalla nobiltà e cercare la ricomposizione sociale – nel 1643 in Spagna alla corte del principe di Paternò.
Meno di due anni dopo scoppiò il caso della congiura del conte di Mazzarino, Giuseppe Branciforti: una cospirazione architettata da giureconsulti e intellettuali, diretta a separare la Sicilia dalla Spagna per creare una nazione con un suo re, il principe di Paternò, sebbene questi affermasse con forza la sua estraneità ai fatti, sostenendo di trovarsi al tempo in Sardegna; la principessa Caterina protestasse a Palermo l’innocenza del marito e a Madrid la cognata Maria Magdalena, affezionata dama della regina, lo difendesse. Indiscutibilmente, tuttavia, Paternò aveva con tutti i cospiratori rapporti e interessi consolidati: Giuseppe Pesce era da oltre sette anni nei suoi libri paga; con Simone Rao, sospetto di essere stato un informatore di Trasmiera, condivideva il sodalizio dei Riaccesi; Francesco Vairo autore di un colorito tentativo repubblicano nel 1648, era l’amministratore della principessa di Roccafiorita, alla quale aveva venduto, qualche anno prima, Castellammare del Golfo; Pietro Filangieri, fratello del marchese di Lucca e personaggio di rilievo tra i cospiratori, era stato suo ospite al palazzo di Caltanissetta; e con Branciforti vi erano noti rapporti. In ogni caso, il processo terminò rapidamente e con pochi colpevoli poiché non vi era spazio per la rappresaglia in un regno dagli equilibri ancora fragili.
Nel 1652, dimenticata ogni accusa, Paternò venne nominato viceré di Valenza, regno che avrebbe governato fino al 1658 con abilità, difendendolo dalla sediziosa Catalogna. Una dedizione sottolineata da Agostino Della Lengueglia, l’agiografo del casato che nella sua opera I ritratti della prosapia et heroi Moncadi elogiò la virtù del principe che aveva abbandonato per sempre i propri Stati per servire la Corona e il re.
Pure, per quanto fosse benvoluto da Filippo IV, che l’anno dopo gli assegnò la carica di capitano generale della cavalleria di Napoli, il principe non riuscì a superare i timori del sovrano verso una provenienza geografica che, al di là dei meriti politici e della nobiltà delle origini, lasciava perplessi i grandi di Spagna. A ciò si aggiungano i dissapori a Valenza con il tribunale dell’Inquisizione, con il duca d’Infantado, viceré di Sicilia, accusato da Paternò di tramare contro i suoi possedimenti; e con l’élite aragonese che lo accusò di pericolose innovazioni nel diritto criminale. E soprattutto la perdita del sostegno della moglie Caterina, scomparsa nel 1653 quando egli era stato appena nominato cavallerizzo mayor. Per Paternò si trattò di una perdita lacerante, superata dall’aspirazione di sposare María Bazán, figlia del conte di Santo Stefano, per proseguire la scalata al valimiento, senza percepire la crisi dell’istituto nel più vasto quadro della stabilizzazione istituzionale delle monarchie europee.
Le trattative non ebbero tuttavia buon esito e abbandonata l’idea di nuove nozze, Paternò si dedicò totalmente al matrimonio del figlio Ferdinando con María Teresa Fajardo Toledo Portugal, figlia del marchese de Los Vélez e della governante del principe Carlo, Maria Engracia de Toledo. Intanto, da Roma nel 1667 Alessandro VII lo insignì della berretta cardinalizia e la regina gli concesse le rendite delle due abbazie di Roccamaiore e dei Ss. Pietro e Paolo, vacanti dopo la morte del cardinale Carlo de’ Medici.
Da lì a poco la morte di Filippo IV aggravò le tensioni nei regni spagnoli derivanti dalla svalutazione monetaria, dalla guerra contro il Portogallo e dal timore delle armi francesi del Brabante. Né l’istituzione della Junta de Gobierno, organismo disciplinato dal testamento regio in aperto contrasto con il sistema dei consigli, riuscì a sedare le inquietudini, poiché i componenti del nuovo istituto avevano poteri paritari a quelli della reggente; la qual cosa allarmò gli esclusi e rappresentò per altri un’inattesa occasione per avvicinarsi al governo. Tra di loro Juan Everardo Nithard, il gesuita austriaco confessore di Marianna, giunto con lei in Spagna e da allora protagonista della corte madrilena: per la regina un padre spirituale, per il re un ‘teologo prudente’ da interpellare riguardo le questioni dottrinali e/o la difficile contesa fra gesuiti e domenicani, o da nominare ambasciatore a Vienna.
In breve tempo si assistette così al rafforzamento del potere del Nithard a corte e nel cuore della regina, che seppe stupire la maggior parte dei suoi detrattori quando riuscì a introdurlo nella Junta de Gobierno. Ma gli infelici esiti della politica internazionale – nel 1668 Marianna accettò la svantaggiosa pace di Acquisgrana, osteggiata a lungo dai membri dei consigli delle Fiandre, di Aragona e di Guerra e da alcuni lignaggi della corte madrilena, primo fra tutti quello dei Toledo e dei Los Vélez – fecero precipitare la crisi fra le fazioni, conclusasi infine con l’allontanamento del gesuita dalla Spagna.
Crisi per molti contemporanei ordita da Paternò che, mimetizzato tra la schiera di autorevoli personaggi esclusi dal nuovo organismo, era un fervente sostenitore del figlio naturale del re, Juan José de Austria. Ma al di là dei sospetti, è certo che egli partecipò a tutto ciò, ne visse gli inizi e l’epilogo, stringendo alleanze con quanti nella corte madrilena assistevano attoniti all’ascesa del gesuita, e con quanti fra loro erano pronti anche alla sedizione qualora questa avesse avuto il volto regale e le qualità di Juan José de Austria.
Pure, da allora ebbe inizio il declino del principe che, allontanato da corte per ordine della regina, si ritirò nel suo palazzo madrileno, dove morì nella notte tra il 3 e il 4 maggio 1672.
Fonti e Bibl.: Archivo histórico nacional, CP. 92: Dos provisiones reales de Carlos II, Rey de España y Sicilia, junto con su madre, la Reina Gobernadora Mariana de Austria, que conceden a Luis Guillermo Moncada, Duque de Montalto, Principe de Paterno, y a la vez cardenal, las abadías sicilianas de Roccamadore (Messina) y San Pedro y San Pablo (l’Itala), vacantes por muerte del cardenal Carlos de Medicis, y pertenecientes al Patronato Regio, Secciόn Nobleza; Archivio di Stato di Palermo, Archivio Moncada, voll. 2044, 2381, 3256; Notaio G. Cinquemani, vol. 4463; Madrid, Biblioteca de la Real Academia de la Historia, Colección Salazar y Castro, M.4, cc. 73v-74v (Madrid, 4 giugno 1665); A. Collurafi, Le tumultuationi della plebe in Palermo, Palermo 1650, pp. 58, 62 s.; G.A. Della Lengueglia, I ritratti della prosapia et heroi Moncadi, I-II, Valenza 1657, ad ind.; A. Mongitore, Bibliotheca Sicula, Palermo 1708-1714, I, p. 214, II, p. 187; I. La Lumia, Studi di storia siciliana, II, Palermo 1870, p. 524; Privatbriefe Kaiser Leopold I an den Grafen F.E. Pötting, 1662-1673, a cura di A.F. Pribram - M. Landwehr von Pragenau, I-II, Wien 1903-04, passim; F. San Martino de Spucches, La storia dei feudi e dei titoli nobiliari di Sicilia, II, Palermo 1932, pp. 99 s.; G. Maura y Gamazo, Carlos II y su corte, I, Madrid 1942, passim; Cerimoniale dei Signori Viceré (1584-1688), a cura di E. Mazzarese Fardella et al., Palermo 1976, pp. 139 ss.; V. Sciuti Russi, Astrea in Sicilia. Il ministero togato nella società siciliana dei secoli XVI e XVII, Napoli 1983, pp. 235 s.; J.H. Elliott, Il miraggio dell’impero. Olivares e la Spagna: dall’apogeo al declino, Roma 1991; F. Benigno, L’ombra del Re: ministri e lotta politica nella Spagna del Seicento, Venezia 1992; G. Giarrizzo, La Sicilia dal Cinquecento all’Unità d’Italia, in V. D’Alessandro - G. Giarrizzo, La Sicilia dal Vespro all’Unità d’Italia, Torino 1992, pp. 311-313, 318-320; L.A. Ribot García, La Espaňa de Carlos II, in R. Menéndez Pidal, Historia de España, Madrid 1993; S. Burgio, Teologia barocca. Il probabilismo in Sicilia nell’epoca di Filippo IV, Catania 1998, pp. 103-105; M.A. Visceglia, Fazioni e lotta politica nel Sacro Collegio nella prima metà del Seicento, in La corte di Roma tra Cinque e Seicento “Teatro” della politica europea, a cura di G. Signorotto - M.A. Visceglia, Roma 1998, pp. 37-91; J. Contreras, Carlos II el hechizado. Poder y melancolía en la corte del último Austria, Madrid 2003, pp. 104 s.; L. Scalisi - R.L. Foti, Il governo dei Moncada (1569-1672), in La Sicilia dei Moncada, Le corti, l’arte e la cultura nei secoli XVI-XVII, Catania 2006, pp. 15-57; R. Pilo Gallisai, In Spagna: il ritorno dei Moncada, ibid., pp. 291-297; Ead., Gli esordi della carriera di un ministro della monarquía católica: Luigi Guglielmo Moncada e il governo della Sicilia (1635-1639), Caltanissetta - Roma 2008, pp. 90-94; R. Pilo Gallisai, Casi todos los hombres del cardenal Moncada. La conjura de otoño (octubre de 1668-marzo de 1669), in Sucesión de la Monarquía Hispánica, a cura di J.M. Ares, Córdoba 2007, pp. 255-275; L. Scalisi, La Sicilia degli Heroi. Storia d’arte e di potere tra Sicilia e Spagna, Catania 2008, passim.