PASQUA
. La Pasqua ebraica. - Nome. - Il nome della Pasqua è in ebraico pesah, diventato nell'aramaico-giudaico pisḥā (siriaco peṣḥā), che poi fu traslitterato in greco in πασχα, ϕάσχα, e ϕασέκ; ne la Vulgata latina è pascha (neutro) e phase.
Questo nome, nel racconto di Esodo, XII, 11-27, è messo in relazione col verbo pāsaḥ, la cui radice si ritrova anche in arabo, e che appare sia nel significato di "zoppicare" e "saltare", sia in quello di "passar oltre (saltando qualche cosa)": donde la traduzione di "pasqua" con ὑπέρβασις, ὑπερβασία, in Aquila e in Flavio Giuseppe. Questo secondo significato è attestato anche dal nome della città di Tiphsaḥ (I [III] Re, V, 4), chiamata Thapsacus dai Greco-Romani, che era il punto ove abitualmente le grandi carovane attraversavano, cioè "passavano oltre", il fiume Eufrate. Tuttavia molti filologi moderni respingono la derivazione del sostantivo "pasqua" dal suddetto verbo, reespingendo insieme la storicità del racconto biblico (v. appresso), pur confessando di non essere in grado d'assegnare una plausibile derivazione etimologica al sostantivo; solo alcuni pochi pensano alla radice siriaca pĕṣaḥ (che però può essere un verbo denominativo tardivo), mentre tutti indistintamente riconoscono che la formazione sostantivale è di origine antichissima.
Il racconto della Bibbia. - In Esodo, XII, la celebrazione della prima Pasqua ebraica è narrata sostanzialmente così (per i connessi v. ebrei; mosè). Il faraone, che impediva agli Ebrei stanziati in Egitto di partirne, non era rimasto scosso neppure dalle prime nove calamità che Mosè aveva attirate taumaturgicamente sul paese (le "piaghe d'Egitto") per ottenere il permesso di partenza; perciò Mosè, per ordine di Dio, provocò la decima ed ultima piaga intimamente connessa con la Pasqua ebraica. Correva il mese di Abīb, detto più tardi di Nisān, che era il primo mese dell'anno e corrispondeva circa al nostro marzo-aprile, e Mosè diede ordine che ogni famiglia ebraica, nella notte fra i giorni 14 e 15 di detto mese, immolasse in casa propria un agnello maschio, di un anno di età e immune da ogni difetto; il sangue dell'animale immolato doveva essere sparso sulla soglia e gli stipiti della casa rispettiva; le sue carni dovevano essere arrostite, e si dovevano mangiare insieme con pane non fermentato (azimo) e con erbe amare; questo pasto doveva essere consumato in maniera frettolosa, e coloro che vi partecipavano dovevano essere in veste e atteggiamento di viandanti. Perciò la vittima, e con essa tutto il rito, furono chiamati "pasqua", ossia "passar oltre" (v. sopra); in quella stessa notte, infatti, il Dio degli Ebrei, Jahvè, percorse l'Egitto penetrando nelle case ad uccidervi tutti i primogeniti, sia degli uomini sia degli animali, ma davanti alle case degli Ebrei cosparse del sangue della vittima chiamata "passar oltre" egli realmente passò oltre senza entrarvi a compiere la strage. Onde Mosè ammaestrò il popolo, in vista del tempo futuro, in cui sempre si sarebbe dovuto ripetere quel rito, spiegandolo con queste parole: "Se i vostri figli vi diranno: Che significato ha per voi questo rito? Voi risponderete: È il sacrificio del "passar oltre" (pasqua) per Jahvè, il quale passò oltre dalle case degl'Israeliti in Egitto, allorché percosse l'Egitto, e preservò le nostre case" (Esodo, XII, 26-27).
Interpretazioni critiche. - A questo racconto biblico i critici indipendenti non attribuiscono, comunemente, un vero fondamento storico: il racconto non sarebbe altro che un'interpretazione ufficiale e tardiva di una festa antichissima nel popolo d'Israele, in cui a una certa epoca fu sovrapposto il valore di commemorazione dell'esodo dall'Egitto, mentre il suo significato primitivo sarebbe stato del tutto differente. Nel fissare questo significato i pareri sono discordi.
Secondo alcuni la Pasqua doveva essere costituita in origine dal sacrificio dei primogeniti del gregge. Un popolo essenzialmente nomade e pastorizio come il popolo ebraico, specialmente prima del suo insediamento nel Canaan, entrava appunto al principio della primavera in un periodo di grande importanza per i suoi greggi, giacché allora i pascoli diventavano pingui e nascevano i primi agnelli. Era quindi naturale che la Divinità fosse propiziata con riti particolari a quel periodo, per assicurarne la protezione sul gregge: il principale di tali riti sarebbe stata l'offerta appunto delle primizie del gregge, cioè degli agnelli primogeniti recentemente nati. A tale usanza si crede trovare dei paralleli, sia in ciò che la Bibbia stessa narra di Abele che offriva i primogeniti del suo gregge (Genesi, IV, 4), sia nella pratica delle popolazioni del Canaan, che offrivano talvolta anche i primogeniti umani (v. palestina). Le altre particolarità del rito così interpretato vengono spiegate con ulteriori ipotesi: che il rito fosse compiuto di sera, è spiegato con qualche relazione a fasi lunari; che il sangue della vittima immolata fosse sparso sulla soglia e sugli stipiti, sarebbe avanzo di un antico uso con cui si volevano allontanare dal gregge le pestilenze, i cattivi genî e così di seguito.
Secondo altri, invece, la Pasqua ebraica sarebbe stata originariamente, più che un rito pastorizio, una festività agricola; questa interpretazione, pertanto, mette in primo piano, più che l'immolazione dell'agnello, gli altri riti che entravano nella legislazione integrale riguardante la pasqua (v. appresso), specialmente l'uso degli azimi e l'offerta delle primizie. In tale ipotesi, l'antica Pasqua non sarebbe caduta in un giorno ben determinato, ma sarebbe stato un ḥag (festa), ossia un periodo di tempo a limiti vaghi, che coincideva con una data epoca della vita campestre. Si è fatto perciò notare che le altre due massime solennità dell'antico Israele, cioè la festa della "Pentecoste" (v.) e quella dei "Tabernacoli" ossia delle "capanne", rispondevano egualmente a due importanti periodi della vita agricola, cioè rispettivamente al termine della mietitura e al termine della vendemmia: quindi la Pasqua sarebbe stata la festività dell'inizio della messe, quando cominciano ad apparire le prime spighe (l'antico nome del mese di Abīb, v. sopra, significa anche "spiga"). Di qui l'uso, nella legislazione della Pasqua, di offrire un manipolo di novelle spighe come primizia: come, d'altra parte, l'uso degli azimi sarebbe un avanzo dell'antica utilizzazione delle primizie fatta in fretta e alla meglio, senza l'impiego del fermento. Questa ipotesi perciò ritiene che la Pasqua sia in Israele meno antica del suo periodo di vita puramente pastorizia, che essa sarebbe stata desunta dai Cananei, agricoltori sedentarî, e quindi sarebbe posteriore all'insediamento degli Ebrei nella Palestina (v.).
Ma questi asseriti significati originarî della Pasqua a una certa epoca passarono in linea affatto secondaria, e il significato che rimase in rilievo quasi assoluto fu quello di commemorare l'esodo d'Israele dall'Egitto secondo il racconto della Bibbia (v. sopra). Ma anche qui regna incertezza: alcuni critici ritengono che questo significato commemorativo possa essere molto antico, benché al principio d'importanza secondaria; più comunemente si ritiene che la prevalenza di questo significato sia in rapporto con la metodica codificazione ufficiale del patrimonio di tradizioni ebraiche, che poi avrebbe dato origirie al cosiddetto Codice Sacerdotale (v. pentateuco).
Riti. - La Pasqua ebraica, come ci appare nella sua completa legislazione della Bibbia, comprendeva tre tipi di riti.
Il primo è quello dell'agnello (v. sopra), che era scelto il giorno 10 di Nisān e sacrificato alla sera tra il 14 e il 15, quindi cotto e mangiato con le formalità suddette: in tutta la cerimonia non si doveva rompere alcun osso alla vittima, e le sue carni dovevano mangiarsi insieme con le erbe amare e il pane azimo. L'altro rito era quello dell'azimo, il solo pane lecito durante tutta la solennità della Pasqua, in cui nessun pane fermentato domva esistere nelle case degli Ebrei. L'ultimo era il rito delle primizie, che venivano offerte il giorno 16 sotto forma di un manipolo di spighe, mentre era proibito di servirsi in alcuna maniera dei nuovi prodotti agricoli prima di questa offerta ufficiale. L'intera solennità durava sette giorni, cominciare dalla sera fra il 14 e il 15 Nisān, e poiché in tutto questo periodo permaneva l'obbligo del pane azimo, era anche chiamata "festa degli azimi"; il primo e l'ultimo di questi giorni importavano anche il riposo sabatico. La partecipazione al rito della Pasqua era di stretto obbligo per tutti gli Ebrei: chi ne era impedito, da qualche irregolarità legale o da impossibilità fisica, era tenuto a celebrarlo nel mese successivo.
La Pasqua, con la Pentecoste e i Tabernacoli (v. sopra), era una delle cosiddette feste di "pellegrinaggio", perché in essa tutti gli Ebrei adulti erano obbligati a compiere il pellegrinaggio al tempio di Gerusalemme, il quale in tale circostanza si affollava enormemente (Tito, nel 70 dopo C., iniziò l'assedio della città appunto quand'era affollata di pellegrini pasquali). Il rito doveva essere compiuto da gruppi non inferiori a 10 persone, né superiori a 20, composti anche di non parenti, e riunitisi occasionalmente.
In tempi tardivi, verso l'epoca cristiana, i riti della Pasqua furono accresciuti con talune cerimonie secondarie. I partecipanti al rito si radunavano vestiti con solennità, il capo di famiglia (o del gruppo) pronunciava la benedizione, e gli astanti allora bevevano una prima coppa di vino nero. Quindi tutti si lavavano le mani, pronunciando altre preghiere, e si portava a tavola l'agnello pasquale arrostito e i pani azimi; si passavano poi in giro le erbe amare rituali e una salsa speciale (hărōseth) e si beveva da tutti una seconda coppa di vino. Allora, alla domanda convenzionale fatta dal figlio del capo di famiglia o da un altro degli astanti circa il significato della festa (cfr. Esodo, XII, 26), il capo di famiglia rispondeva tenendo un breve discorso su tale significato, e poi si recitava la prima parte del Hallel (cioè i Salmi CXIII-CXIV). Dopo di ciò il capo spezzava i pani azimi, vi poneva sopra le erbe intinte nella salsa, e li distribuiva; tutti ne mangiavano insieme con le carni dell'agnello e con quelle di altre vittime sacrificate per la festa (ḥagigāh); si beveva quindi una terza coppa di vino, e si recitava la preghiera di ringraziamento dopo il pasto; dopo una quarta coppa, si recitava il resto del Hallel (cioè i Salmi CXV-CXVIII) e con ciò il rito era terminato (cfr. Matteo, XXVI, 30: Et hymno dicto [cioè l'Hallel] exierunt). In tempi successivi, si aggiunse un'altra torta azima o una parte delle precedenti (aphīqōmen) e talvolta una quinta coppa di vino, col canto di altri salmi. Più tardi ancora, nelle varie regioni s'infiltrarono altre usanze particolari.
Bibl.: È necessario vedere i commenti al libro dell'Esodo (v. ivi) e gli studî sull'ebraismo (v. ebrei, XIII, specialmente la bibliografia a pp. 344 e 346); per il giudaismo post-cristiano il trattato Pesaḥim della Mishnāh (v.); in genere la voce Pasqua nelle varie enciclopedie bibliche e giudaiche (v. bibbia, VI, p. 916).
La Pasqua cristiana.
Dal giudaismo la Pasqua (ted. Ostern; ingl. Easter) passò al cristianesimo, che nella festa dell'Antico Testamento ravvisa la prefigurazione di quella del Nuovo; connessione illustrata, come vedremo, dalla liturgia. Ma la celebrazione cristiana è dovuta soprattutto al fatto che durante la festa giudaica avvennero la morte e la risurrezione di Gesù Cristo, che già S. Paolo chiama "il nostro agnello pasquale" (τὸ πάσχα ἡμῶν, I Corinzî, V, 7). Tuttavia, sia sul significato fondamentale della celebrazione e per conseguenza sul rito da seguire, sia sul modo di fissarne la data - stante la necessità di adeguare il calendario lunare degli Ebrei al calendario giuliano - vi furono divergenze di opinioni, che diedero luogo a discussioni abbastanza vivaci e a una serie di tentativi di stabilire un computo pasquale soddisfacente.
In base a passi di antichi scrittori (per es., Tertulliano, Adversus Iudaeos, 10: "Moyses... adiecit Pascha esse Domini, id est, passionem Christi" che tra l'altro presuppone la spiegazione del termine in base alla falsa etimologia dal gr. πάσχειν "patire"; cfr. Ireneo, Adv. haer., IV, x,1; Lattanzio, Div. inst., IV, 26) si è sostenuto con argomenti abbastanza forti che in origine la Pasqua fosse precipuamente, anche se non esclusivamente, commemorazione della crocifissione di Gesù Cristo. Nella controversia che agitò la chiesa di Laodicea, essendo proconsole d'Asia "Servilio" (cioè: L. Sergio) Paolo (164-166), sappiamo che Melitone di Sardi scrisse un'opera Intorno alla Pasqua, disgraziatamente perduta. Tuttavia è probabile che si riferisca alla medesima questione l'opera omonima del suo contemporaneo e vicino Apollinare di Gerapoli, un frammento della quale, conservato nel Chronicon paschale (ed. L. Dindorf, Bonn 1832, I, p. 32), polemizza contro alcuni, i quali sostengono che "il 14 (Nisān) il Signore mangiò l'agnello pasquale insieme con i discepoli" e per conseguenza patì il giorno dopo; e interpretavano in questo senso il racconto di Matteo, col quale concordano gli altri due Vangeli sinottici. Apollinare di Gerapoli insiste sul concetto che "il 14 è la vera Pasqua del Signore... sepolto nel giorno dell'agnello pasquale", e questo computo concorda con quello di Giovanni (XVIII, 28; XIX, 14; 31), accettato anche da Clemente alessandrino (in Chron. pasch., ed. cit., p. 14). Ma questi, indotto a scrivere la sua opera Sulla Pasqua da quella di Melitone, mette in evidenza anche l'altro concetto, che cioè Gesù stesso è l'agnello pasquale, la vera Pasqua. Allo stesso modo ragiona Ippolito romano, in un frammento del suo Syntagma contro le eresie (in Chron. pasch., ed. cit., p. 12), nel quale polemizza contro un ignoto che ragionava così: "Il Signore fece Pasqua nel giorno determinato, e patì; perciò, a quel modo che fece il Signore, devo fare anch'io"; Ippolito soggiunge ch'egli s'inganna, "perché Cristo non mangiò l'agnello pasquale secondo la legge; infatti egli era il vero agnello pasquale". Si è creduto di poter desumere dall'insieme di questi passi l'esistenza di un gruppo - evidentemente di giudeo-cristiani - secondo il quale non solo si sarebbe dovuto celebrare la Pasqua il 14 Nisān, mentre la Passione sarebbe avvenuta il 15, ma la celebrazione avrebbe dovuto farsi secondo il rito ebraico. Se il ragionamento, che si fonda sulla "sfumatura" (Duchesne) che intercorre tra l'affermazione di Apollinare che "il 14 è la vera Pasqua" e quella di Clemente alessandrino e Ippolito, che "il Signore è la vera Pasqua", pecca forse di eccessiva sottigliezza, non si può negare che esso trovi un certo sostegno nel passo di Ippolito. Converrebbe dunque distinguere i giudeo-cristiani che avrebbero conservato il banchetto pasquale giudaico dai "quattuordecimani" (v. sotto). A parte ciò, la questione è collegata con l'altra, se cioè l'ultima Cena di Gesù avesse, o no, nel racconto dei Vangeli sinottici, e altresì nell'interpretazione data ad esso dai primitivi cristiani, il carattere del banchetto pasquale: questione, che qui si accenna soltanto.
Ma anche sotto un altro aspetto la Pasqua è collegata con l'Eucaristia, in quanto nell'una e nell'altra viene celebrata la risurrezione di Gesù. Questa era avvenuta in giorno di domenica e veniva regolarmente commemorata ogni domenica, come ogni venerdì era consacrato a un digiuno, in memoria della Passione. In quale giorno, dunque, avrebbe dovuto terminare quel digiuno pasquale, che ci è attestato da diverse fonti? E che cosa soprattutto conveniva di celebrare, la Passione o la Risurrezione? Se il trapasso - dato che si tratti effettimmente di evoluzione, come molti pensano - per cui si venne a sottolineare la seconda in confronto della prima, il πάσχα ἀξαστάσιμον (Pascha resurrectionist) in confronto con il πάσχα σταυρώσιμον (Pascha crucifixionis), si è verificato generalmente e abbastanza presto, è nella diversa risposta data alle domande indicate la causa della seconda, e più grave, controversia pasquale, che commosse la Chiesa al tempo di papa Vittore. Se infatti ignoriamo molte cose intorno alle discussioni di Laodicea, è certo che l'uso di celebrare la Pasqua il 14 Nisān (uso "quattuordecimano") verso la fine del sec. II si era diffuso in tutte le chiese dell'Asia. Ma nel frattempo si era affermato anche un uso diverso, di celebrarla cioè la domenica successiva. Ai motivi già indicati si dové aggiungere anche quello di non solennizzare la ricorrenza insieme con gli Ebrei, dai quali i cristiani tenevano sempre più a distinguersi. Quest'uso vigeva in Roma dal tempo di papa Sisto, ed era stato accolto da numerose altre chiese. Del resto, circa la durata del digiuno pasquale differenze notevoli durarono a lungo, poiché ancora alla fine del sec. II alcuni facevano durare il digiuno un giorno solo, altri due, altri ancora di più. In Roma, dove convenivano cittadini da tutte le parti dell'Impero, si dovette rilevare assai presto la differenza tra l'uso locale e quello degli Asiatici; anzi, allorché vi giunse Policarpo vescovo di Smirne, il papa Aniceto cercò invano d' indurlo ad abbandonare l'uso quattuordecimano. Si è anzi supposto che la stessa controversia di Laodicea fosse stata provocata da questa discussione; ma essa, come s'è visto, dovette riguardare altre questioni. E tuttavia probabile che a Roma, appunto per la presenza di gruppi formati da cristiani provenienti da regioni diverse, che conservavano le proprie tradizioni, quella discordanza nella data della Pasqua attirasse ben presto l'attenzione, a causa degli inconvenienti cui dava luogo; e che già il papa Sotere sospendesse l'uso d'inviare l'Eucaristia agli Asiatici ivi residenti. Certo è che della questione si occupò il papa Vittore, preoccupandosi di stabilire un'osservanza unica per tutti i cristiani di Roma e anzi per tutte le chiese. Si riunirono pertanto dei sinodi, e sappiamo che riunioni di vescovi tenute nella Palestina, in Roma, nel Ponto e nell'Osroene, come anche varî altri vescovi, fra cui Bacchillo di Corinto, e la chiesa di Alessandria si dichiararono in favore dell'uso romano. Tuttavia, le chiese dell'Asia resistettero; e Policrate di Efeso scrisse a Vittore una lettera (in Eusebio, Hist. Eccles., V, xxiv, 2-8) difendendo l'uso quattuordecimano in base a una tradizione accolta anche da altre chiese e risalente fino a S. Giovanni evangelista. In seguito a questa opposizione, Vittore prese il gravissimo provvedimento di scomunicare, come se avessero abbandonato la retta fede, tutte le chiese dell'Asia e altre, rimaste fedeli all'osservanza quattuordecimana. Tuttavia, questa severità provocò una reazione da parte di molti vescovi, ai quali parve eccessiva; e Ireneo di Lione, tra gli altri, scrisse a Vittore una lettera (in Eusebio, Hist. Eccles., V, xxiv, 11-17), nella quale, pur aderendo all'usanza romana, pregava il papa di non rompere l'unità della Chiesa a proposito d'una semplice questione di rito, ricordandogli tra l'altro che Aniceto non aveva affatto scomunicato Policarpo.
Fino a questo punto le discussioni si erano aggirate intorno al giorno della celebrazione; ma si era sempre accettato come termine il 14 Nisān, ossia un giorno fisso, secondo il calendario ebraico. Ma questo calendario lunare, per essere adattato all'anno solare, doveva subire delle intercalazioni. Il desiderio di non ricorrere agli Ebrei per la determinazione del giorno festivo e il bisogno di sapere in precedenza in quale giorno del calendario solare giuliano sarebbe caduta la Pasqua, fece sentire ai cristiani il bisogno di stabilire un "ciclo pasquale", cioè il numero degli anni solari dopo il quale la Pasqua sarebbe caduta nuovamente nello stesso giorno che nell'anno iniziale. Il primo tentativo del genere di cui abbiamo notizia è quello fatto da Ippolito romano nel suo libro Intorno alla Pasqua (frammento in Chron. pasch., loc. cit.), mentre il suo "ciclo" ci è conservato inciso nella celebre statua di lui. Ippolito si era fondato sulla ottaeteride (gruppo di 8 anni), unendone due in un ciclo di 16 anni, cioè 5844 giorni, corrispondenti a 835 settimane, meno 1 giorno. Pertanto, se la Pasqua del primo anno cade di domenica, nel sedicesimo essa ricorre di sabato, nel trentaduesimo in venerdì, e così via: di modo che il periodo completo è di 112 anni. Tuttavia il computo era sbagliato, perché egli aveva calcolato un anno solare di circa 5 ore, in media, più lungo del lunare: bastavano 10 anni perché il suo 14 Nisān cadesse tre giorni dopo quello reale. Un ignoto scrittore, l'autore dello pseudo-ciprianeo De Pascha computus, cercò di porvi rimedio col ritardare l'inizio di 3 giorni, considerando che la creazione del Sole e della Luna, con i quali comincia il tempo astronomico, è avvenuta non nel primo ma nel quarto giorno (Genesi, I, 14-19). Di qualche anno posteriore è il computo contenuto nel cosiddetto laterculus di Augustale, ricostruito da B. Krusch. Egli prendeva come base un ciclo di 84 anni giuliani, pari a 30.681 giorni e corrispondenti a 1039 mesi lunari, ossia 30.682 giorni e 1/4, con uno scarto molto minore di Ippolito. Il ciclo di Augustale fu adottato a Roma e vi rimase in vigore fino al 312, quando venne soppiantato dalla cosiddetta computatio romana vetus. Sembra che non ammettesse la celebrazione della Pasqua prima dell'equinozio di primavera (nel calendario giuliano, 25 marzo), né dopo il 21 aprile.
In Oriente, dopo il computo di Dionisio d'Alessandria (in Eusebio, elist. Eccl., VII, xx) che fissava un ciclo di otto anni (o forse una doppia ottaeteride, come Ippolito?) e sosteneva non doversi celebrare la Pasqua innanzi l'equinozio di primavera, si ebbe quello di Anatolio di Laodicea, il quale (in Eusebio, Hist. Eccl., VII, xxx11, 14-19) accettava in sostanza il ciclo decennovenale di Metone, ponendo nel primo anno il novilunio del primo mese al 19 marzo e negando che si potesse, senza grave errore, celebrare la Pasqua prima dell'equinozio di primavera, cioè appunto prima del 19 marzo. Appare già da questo che vi dovevano essere differenze nella fissazione della data: e in un frammento dell'opera sua Sulla Pasqua (in Chron. pasch., cit.) Pietro d'Alessandria assicura un tal Tricenzio che fino alla distruzione del Tempio gli Ebrei hanno celebrato la Pasqua correttamente, cioè dopo l'equinozio di primavera.
Queste differenze davano luogo a inconvenienti così gravi, poiché le varie chiese non celebravano la Pasqua nello stesso giorno, che il sinodo di Arles (314) cercò di rimuoverli, stabilendo (can. 1°) che la data accolta da tutti fosse quella stabilita e resa nota dalla chiesa di Roma. Tuttavia questa disposizione non venne accolta dovunque e tra le altre materie proposte al concilio di Nicea vi fu anche questa: se cioè si dovesse accogliere il computo in uso presso gli Ebrei (cioè anche prima dell'equinozio di primavera, come accadeva dal sec. II in poi, allorché le intercalazioni erano regolate senza tener conto degli equinozî) ovvero "osservare esattamente il tempo". Il concilio stabilì che la celebrazione non potesse avvenire prima dell'equinozio, conformemente all'uso romano e alessandrino. Le chiese che non vi si attenevano - cioè quelle della Siria, della Mesopotamia e della Cilicia, in tutto o in parte - conservarono, per lo meno alcune, l'usanza antica, giacché il concilio antiocheno della Dedicazione (341) minacciò (canone 1°) la scomunica a coloro che non si fossero attenuti alle prescrizioni di Nicea.
Continuavano tuttavia a esistere differenze notevoli tra i computi in uso ad Alessandria e a Roma. Non solo i cicli adottati avevano durata diversa, ma differente era la data dell'equinozio; inoltre a Roma non si ammetteva la celebrazione prima del sedicesimo giorno della lunazione, ad Alessandria invece già nel quindicesimo. Una differenza venne eliminata allorché anche a Roma l'equinozio primaverile venne fissato al 21 marzo. Cionondimeno talvolta la Pasqua venne a cadere in giorni diversi, e, nonostante i tentativi di accordarsi, cedendo volta a volta l'una o l'altra delle due chiese, negli anni 387 e 417 si ebbero celebrazioni discordanti. Una nuova differenza si sarebbe avuta nel 444, allorché il papa S. Leone Magno, dopo avere interpellato il vescovo Pascasino di Lilibeo, accolse il computo alessandrino difeso da S. Cirillo, e in quell'anno il 21 aprile, Venerdì Santo, furono sospesi i giuochi in occasione del Natale di Roma. In seguito a ciò, il papa ordinò una revisione del computo romano. Cionondimeno, una nuova differenza si ebbe nel 455; e questa volta Leone Magno se ne preoccupò per tempo, non potendo accettare che si violasse anche per l'anniversario della Passione la regola romana, secondo la quale non era lecito scendere al di là del 21 aprile. Dopo lunghe trattative anche presso l'imperatore Marciano, Leone cedette per amore di pace; ma ord) nò che si facesse una nuova correzione del computo romano. Questa fu fatta dall'arcidiacono Ilario, con l'aiuto di un aquitano, Vittorio o Vittorino, stabilendo un periodo di 532 anni (moltiplicando il ciclo decennovenale per quello solare di 28 anni); i termini estremi furono fissati tra il 22 marzo e il 24 aprile, diversi da quelli alessandrini (rispettivamente il 22 e il 25). Quindi, benchk ci si fosse con ciò grandemente avvicinati al computo alessandrino, qualche differenza rimase. La cosa fu palese nell'anno 501, durante lo scisma laurenziano, allorché il papa Simmaco accolse la data del vecchio computo romano (25 marzo), mentre il vescovo Pietro d'Altino, inviato da Teodorico, celebrò nuovamente la Pasqua il 22 aprile. Come a proposito di altre questioni, i partigiani di Simmaco non esitarono, per combattere il canone di Vittorino, a fabbricare canoni e lettere, attribuiti al papa Silvestro. Ciò valse a ridare nuova autorità al ciclo romano di 84 anni.
Intanto la necessità di continuare la tavola pasquale alessandrina di Anatolio, già proseguita dai vescovi Teofilo e Cirillo fino al 531, aveva indotto un vescovo Petronio a rivolgersi al monaco Dionigi, soprannominato il Piccolo, affinché la completasse. Il che egli fece, nel 525, per gli anni dal 532 al 626, ammettendo la celebrazione al 15° giorno della lunazione (termini estremi, 22 marzo e 25 aprile) e inaugurando per il computo degli anni la nuova era, da lui fissata, con errore di 2 anni, dalla nascita di Gesù Cristo. Allo stesso Dionigi si rivolsero, nello stesso 525, il primicerio Bonifazio e il secondicerio Bono, incaricati dal papa Giovanni I dî rivedere il computo romano. E così, nonostante altre opposizioni - alle quali i fautori della tavola di Dionigi il Piccolo opposero dei falsi canoni di Nicea, un'interpolazione nella vita di papa Vittore nel Liber pontificalis e il De Pascha di Vittore di Capua - il computo alessandrino finì con l'essere accolto da Roma e dalle altre chiese dell'Italia.
Non così altrove. Le chiese della Gallia accolsero il computo di Vittorino, benché talvolta se ne scostassero: per es., nel 577 Gregorio di Tours la celebrò il 18 aprile, anziché il 25 con i Greci e il 21 marzo, secondo il più antico computo, con gli Spagnoli; ma nel 590 accolse la data del 2 aprile (invece del 26 marzo), per non attenersi all'uso giudaico, di solenizzarla nel 150 giorno della lunazione. L'uso del ciclo di Dionigi il Piccolo divenne generale soltanto al tempo di Carlomagno. Dal canto loro, le chiese celtiche conservarono la computatio vetus, che S. Colombano mantenne anche allorché si stabilì a Luxeuil, venendo così a trovarsi assai spesso in disaccordo con le chiese locali: onde polemiche vivaci, delle quali abbiamo notizia da sue lettere a Gregorio Magno, e a un sinodo di vescovi delle Gallie.
Una controversia analoga scoppiò in Inghilterra, dove le chiese britanniche, fedeli alla vecchia supputatio romana, non vollero accogliere il canone alessandrino, secondo le tavole di Dionigi, portato da Agostino di Canterbury, che Gregorio Magno aveva mandato ad evangelizzare gli Anglosassoni. Anche Lorenzo, successore di Agostino nell'episcopato, non riuscì a convincere i vescovi celti del Galles e neppure quelli dell'Irlanda meridionale. Questi ultimi, tuttavia, dopo l'intervento del papa Onorio e una loro missione inviata a Roma, verso il 631, finirono per adottare l'uso romano e della Chiesa universale. Lo stesso fecero i vescovi dell'Irlanda settentrionale, qualche decennio più tardi. Ma mentre nel corso del sec. VII il nuovo computo romano conquistava le chiese celtiche, il vecchio canone dei Celti si diffondeva tra gli Anglosassoni, trasportatovi dai missionarî irlandesi. Soltanto Vilfredo, abate di Ripon, il quale era stato a Roma, incominciò a sostenere l'adozione del canone di Dionigi il Piccolo. Nella Northumbria esso fu accettato da un sinodo presieduto dal re Oswy; nelle altre parti dell'Inghilterra e della Scozia fu accolto soltanto nel corso del secolo VIII. Alla fine del quale veniva così raggiunta l'unità nella celebrazione della Pasqua in tutto il mondo cristiano.
La regola è dunque che la Pasqua deve cadere in domenica, e precisamente nella prima domenica susseguente il 14° giorno del primo mese (Nisān) del calendario lunare ebraico, cioè del mese lunare il cui 14° giorno coincide con l'equinozio di primavera (il 21 marzo) o lo segue immediatamente: se il 14 Nisān fosse domenica, la celebrazione è spostata alla domenica successiva, affinché essa non venga compiuta nello stesso giorno degli Ebrei. Questa regola è conosciuta generalmente come quella del concilio di Nicea, benché, come si è visto, non risalga ad esso: l'attribuzione al Niceno può essere dovuta a un equivoco, in quanto una determinazione analoga, e corrispondente al computo di Dionigi il Piccolo, è contenuta nei canoni del falso concilio romano che avrebbe approvato quello di Nicea.
L'uniformità della celebrazione è tuttavia venuta a mancare nuovamente, non avendo la chiesa ortodossa accolto la riforma gregoriana del calendario, accettata invece gradatamente da quasi tutto il mondo civile (v. calendario, VIII, p. 402; per il computo astronomico della Pasqua nel calendario Gregoriano, vedi appresso). Ma è da osservare che, per quanta importanza si desse, specialmente con la riforma gregoriana, all'esattezza dei computi astronomici, questa non fu mai la preoccupazione prevalente; e che la fissazione della Pasqua venne sempre considerata come una questione di disciplina ecclesiastica, mirando soprattutto ad assicurare l'uniformità della celebrazione.
Dalla Pasqua dipendono alla loro volta tutte le altre feste mobili dell'anno liturgico. Fin dall'antichità la Pasqua appare strettamente collegata con la riconciliazione dei penitenti, la distribuzione di elemosine, soprattutto il battesimo dei catecumeni (cfr. Tertulliano, De bapt., 19; Diem baptismo solemniorem Pascha praestat). Questa cerimonia, compiuta dal vescovo, durava tutta la notte; più tardi, la maggior parte dei riti fu trasportata al mattino del Sabato Santo, con la benedizione del fonte battesimale, ecc. (v. settimana santa). Ma ne rimane ancora una traccia nell'Hanc igitur della Messa pasquale: pro his quoque, quos regenerare dignatus es ex aqua et Spiritu sancto, tribuens eis remissionem omnium peccatorum. D'altra parte l'acqua del fonte benedetto è usata lo stesso Sabato Santo per la benedizione delle case, in cui è riconoscibile il ricordo della Pasqua ebraica, come pure nell'Exultet pasquale, che rammenta il passaggio del Mar Rosso, l'agnello pasquale e la colonna di fuoco che guidò gli Ebrei nel deserto. Ma caratteristico della liturgia pasquale è il canto della sequenza Victimae paschali, dalla quale si sono sviluppate poi le sacre rappresentazioni della Risurrezione. Preceduta fin dall'antichità cristiana da un digiuno, la Pasqua è a sua volta seguita da un periodo di giubilo (tempo pasquale); e con le antiche cerimonie di riconciliazione dei penitenti è collegato l'obbligo, sancito dal IV concilio lateranense, di compiere la confessione sacramentale almeno una volta l'anno, precisamente in occasione della Pasqua (precetto pasquale).
Con la cerimonia della benedizione delle case si ricollega il costume, diffusissimo, di compiere nella circostanza della Pasqua una pulizia generale e più accurata della casa e dei suoi arredi. Ma a sua volta quest'uso potrebbe essere collegato con costumanze risalenti a innocui riti catartici dei pagani. E anche altre antiche consuetudini sono passate nelle diverse manifestazioni di giubilo che accompagnano la festa cristiana: come prova fra l'altro il nome ch'essa ha assunto in inglese, e che deriverebbe, secondo Beda, da quello di una dea Ostra (certo è collegato con la radice indoeuropea donde il greco ἕως, il lat. aurora e il nome ingl. East, ted. Ost, dell'Oriente); in Germania, la forma plurale (in realtà, un dativo) deriva dal fatto che si designava con esso l'intera ottava di Pasqua (cfr. anche il fr. Pâques). In alcune lingue, essendo la maggior festa dell'anno, e venendo designata spesso col nome completo di Pasqua di Resurrezione, il suo nome è divenuto sinonimo di festa: così lo spagnuolo ha pascua florida (domenica delle Palme); pascua de la Natividad, ecc.; e in alcune regioni d'Italia si chiama Pasqua o "pasquetta" l'Epifania, così come si distingue (Toscana) la "Pasqua di ceppo" (Natale) dalla "Pasqua d'uovo". Quest'ultimo appellativo deriva dal fatto che le uova, anticamente vietate durante la Quaresima, ricomparivano sulla mensa a Pasqua insieme con il salame, l'agnello o il capretto, e focacce, per le quali è tradizionale in varî luoghi la forma dell'agnello (talvolta di colomba, evidentemente per una specie di contaminatio con la Pentecoste). Ma l'usanza di giocare con le uova, di colorirle in vario modo, ecc., può a sua volta derivare da antiche costumanze pagane.
Computo della Pasqua nel calendario gregoriano. - Nel calendario giuliano (v. calendario) il computo della Pasqua era fatto partendo dal ciclo lunare e dal numero d'oro. Il ciclo lunare è un periodo di diciannove anni, durante il quale gli antichi credevano avvenissero tutte le possibili variazioni fra i giorni del mese e le fasi lunari; e si diceva numero d'oro di un dato anno quello ad esso competente nel ciclo suddetto. Il numero d'oro, che servì nei tempi più remoti per determinare i giorni dei mesi in cui cadevano i novilunî, e poi alla Chiesa cattolica, prima della riforma gregoriana, per stabilire iI plenilunio da cui dipende la festa di Pasqua, è rimasto ora, nel calendario gregoriano, come semplice nota cronologica ed elemento del computo ecclesiastico.
La riforma di papa Gregorio XIII stabilì che la Pasqua cada nella domenica seguente al primo plenilunio ecclesiastico dopo il 21 marzo (equinozio di primavera), e che per il computo delle lunazioni ecclesiastiche si abolisse il numero d'oro, adottando in sostituzione l'epatta, numero che indica l'età della luna al 1° gennaio e che perciò va da 0 a 29.
Lunazioni ecclesiastiche. - Le fasi lunari regolate dall'epatta si dicono lunazioni ecclesiastiche per distinguerle da quelle vere o astronomiche. L'epatta quindi non si riferisce al momento preciso in cui si ebbe la luna nuova, o la congiunzione del Sole con la Luna, ma al giorno in cui si comincia a vedere il filetto luminoso della falce lunare, il che avviene circa 40 ore dopo il momento della congiunzione. Il giorno in cui questo si verifica è preso come primo della lunazione ecclesiastica. Per avere allora il giorno del plenilunio bisogna aggiungere 13 giorni a quello del novilunio, di guisa che esso cade nel quattordicesimo.
Lettera domenicale. - Determinata l'epatta dell'anno, per effettuare il computo della Pasqua occorre conoscere ancora la lettera domenicale. Per trovare la lettera domenicale di un dato anno, conviene indicare ordinatamente con le prime lettere dell'alfabeto i primi giorni dell'anno. Così il 1° gennaio avrà la lettera A, il 2 la lettera B e via di seguito. La lettera che corrisponde alla prima domenica, sarà la lettera domenicale. Se l'anno è bisestile, le lettere domenicali saranno due; e la seconda si trova applicando sempre la lettera D al primo giorno di marzo, e denominando via via gli altri giorni con le lettere successive. La lettera che corrisponderà alla prima domenica di marzo sarà la seconda lettera domenicale.
La Pasqua. - Come abbiamo già detto, la Pasqua cade nella domenica seguente al primo plenilunio ecclesiastico dopo il 21 marzo, per cui essa risulta perfettamente determinata dall'epatta e dalla lettera domenicale. Ove questo plenilunio avvenga proprio il 21 marzo, e il successivo 22 sia domenica, la Pasqua è in questo stesso giorno; ma se il plenilunio avviene prima del 21 marzo bisogna attendere l'altro plenilunio, il quale può avvenire perfino il 18 aprile; per cui, dato il caso che il 18 aprile sia proprio domenica, la Pasqua sarà la domenica successiva 25 aprile. Tale festa può celebrarsi quindi nel limite di 35 giorni, non prima del 22 marzo e non dopo il 25 aprile.
Si vedano a pag. 445 le tavole per trovare le epatte e le lettere domenicali dal 1900 al 3000, e qui sotto la tavola per trovare la data della Pasqua quando si conosca la lettera domenicale e l'epatta. Aggiungiamo pure una tavola della Pasqua dal 1900 al 2009.
Feste mobili. - Le feste mobili sono quelle che dipendono dalla Pasqua. Esse sono: la domenica di Settuagesima, 64 giorni prima della Pasqua; le Ceneri, 47 giorni prima della Pasqua; le Rogazioni, 37 giorni dopo la Pasqua; l'Ascensione, 40 giorni dopo la Pasqua; la Pentecoste, 50 giorni dopo la Pasqua; la SS. Trinità, 57 giorni dopo la Pasqua; il Corpus Domini, 61 giorni dopo la Pasqua.
Nel computo di queste feste si deve contare il giorno di Pasqua.
L'Avvento. - L'Avvento - secondo il rito romano - è di quattro domeniche, la prima delle quali è la più vicina al 30 novembre (festa di S. Andrea), oppure questo stesso giorno, se cade di domenica. Essa può quindi avvenire dal 27 novembre al 3 dicembre (inclusi), per cui, conosciuta la lettera domenicale dell'anno le 4 domeniche dell'Avvento risultano immediatamente note.
Le Quattro Tempora. - I giorni vigiliari delle Quattro Tempora cadono il mercoledì, il venerdì e il sabato dopo i seguenti giorni: prima domenica di Quaresima; Pentecoste; 14 settembre, giorno dell'Esaltazione della SS. Croce; terza domenica dell'Avvento.
Le Feste mobili dipendenti dalla Pasqua nel calendario ambrosiano. - La chiesa cattolica di Milano ha una forma particolare di rito di tipo liturgico gallicano (cfr. IV, p. 804; XXI, p. 310) che si discosta alquanto da quello romano sebbene ne abbia subito l'influenza.
Per quanto riguarda le feste mobili dipendenti dalla Pasqua nel calendario ambrosiano si ha diversità dal rito romano per i computi seguenti:
a) Primo giorno di Quaresima, che cade nella prima domenica di Quaresima (del rito romano) anziché nel precedente mercoledì;
b) le Rogazioni - che prendono il nome di Litanie ambrosiane - avvengono nei giorni di lunedì, martedì e mercoledì che seguono immediatamente la prima domenica dopo l'Ascensione. Nel primo giorno delle Litanie si hanno le Ceneri, mentre secondo il rito romano, esse si praticano nel primo mercoledì di Quaresima;
c) l'Avvento ha sei domeniche invece di quattro, di cui la prima è la più vicina all'11 novembre, festa di S. Martino, o lo stesso giorno 11, se questo capita di domenica.
Bibl.: Buon riassunto delle varie questioni, fino al sec. VIII, di G. Fritz, in Dictionn. de théol. cathol., XI, ii, Parigi 1931, coll. 1948-1970 (con bibl. precedente); J. G. Carleton, art. Calendar (Christian) e Festivals and Feats (Christian), in Hastings, Encycl. of Religion and Ethics, III, Edimburgo 1910, p. 88 segg., e V, ivi 1912, p. 844; H. Williams, ibid., III, p. 637 seg. (Inghilterra); L. Duchesne, La question de la Pâque au concile de Nicée, in Revue des questions historiques, XIV (1880), ii, pp. 1-42; id., Hist. anc. de l'Église, I, Parigi 1906, passim (per le prime controversie); id., Origines du culte chrétien, 5ª ed., ivi 1920.