PARROCCHIA e PARROCO
Il termine parochus (da παρέχειν) o copiarus indica il preposto agli ospizî (cfr. Hor., Sat., I, 546) dove, in Italia e nelle provincie, i magistrati in viaggio trovavano vitto e alloggio. Ma i vocaboli "parrocchia" e "parroco" hanno un'altra origine, da παροικία, circoscrizione territoriale (cfr. Dig. L, 16, de verb. sign., 239, 2; Pomponio: "Incola est qui aliqua regione domicilium suum contulit: quem Graeci πάροικον appellant). Il termine a lungo ha designato la diocesi, e soprattutto il territorio della città vescovile e solo molto tardi "parrocchia" fu usato nell'attuale significato; ancora nelle decretali di Gregorio IX, al lib. III, tit. XXIX, de parochis et alienis parochianis, il termine sta a designare promiscuamente la circoscrizione territoriale ecclesiastica, diocesana e parrocchiale. Le fonti medievali, per designare le parrocchie e le chiese parrocchiali, parlano di baptismales ecclesiae e di plebes (pievi).
Storia. - È noto che nei primi secoli della Chiesa non si ebbe che un clero cittadino, raccolto intorno al vescovo. Paolo scrive a Tito (Tito, I, 5), che lo lascia a Creta, perché costituisca κατὰ πόλιν πρεσβυτέρους. Ignazio e Cipriano nelle loro lettere mostrano sempre l'esistenza soltanto di un clero cittadino, senza uffici o chiese staccati dall'ufficio del vescovo e dalla chiesa vescovile; almeno nei tre primi secoli non si ebbero in alcun luogo chiese parrocchiali. Pertanto, se la Chiesa ha condannato (Auctorem fidei) l'opinione sostenuta già da Guglielmo di Sant'Amore e poi più volte ripetuta, ancora nel Settecento da giansenisti francesi e italiani, che i parroci fossero d'istituzione divina, successori dei settantadue discepoli di Cristo (opinione che apriva la porta a rivendicazioni di diritti dei parroci nei confronti dei vescovi), la critica alla sua volta deve respingere tentativi di far risalire l'origine dei parroci oltre il sec. IV.
Nel sec. IV si comincia a trovare qualche sporadica traccia di chiese con ecclesiastici proprî; ma solo più tardi si ha la dispersione del clero, dapprima raccolto presso il vescovo; al principio del sec. V una lettera d'Innocenzo I a Decenzio vescovo di Gubbio ci mostra che a Roma non c'erano chiese di campagna, ma che nella città si davano preti addetti ai cimiteri, con facoltà conficiendi fermenta (l'Eucaristia?) e preti addetti a chiese (tituli) privi di tale facoltà e che ricevevano i fermenta dal vescovo. A metà del sec. V il concilio di Calcedonia, sess. 15, can. 17, parla di παροικίαι, dicendo che, se sorga contestazione tra due vescovi sull'appartenenza di una parrocchia di campagna (il canone ne distingue due tipi, ἀγροικικαί e ἐγχώριοι), si dovrà stare a ciò che si è praticato nei trent'anni, la disposizione è ripetuta da Graziano, c. 1, C. XVI, qu. 3, e che, se l'imperatore fondi una città, la divisione delle parrocchie ecclesiastiche dovrà essere calcata su quella civile.
L'evoluzione dovette essere dappertutto nel senso che a lungo certe cerimonie e certi sacramenti (soprattutto nella loro amministrazione in forma solenne) restarono riservati al vescovo, e solo in successivi momenti passò ai preti preposti a singole chiese; dal concilio di Aquisgrana dell'836 appare che l'evoluzione era a questo momento compiuta.
Nel periodo carolingio troviamo molte disposizioni intese a proteggere i parroci dalle vessazioni degli arcidiaconi (c. 3, D. XCIV), ad assicurare che ogni parrocchia abbia un rettore solo e permanente; che questi sia un sacerdote, canonicamente assegnato dal vescovo; che i fedeli possano rivolgersi solo al loro parroco per l'adempimento dei propri doveri religiosi (cfr. le palee che costituiscono i c. 4 e 5, C. IX, qu. 2). Vi sono a quest'epoca accanto alle chiese parrocchiali anche oratorî creati, come dice L. A. Muratori, ad commoda saepius piorum divitum, quam ad usum plebis; il concilio di Pavia dell'855 prega Ludovico II perché sia tolto l'abuso che i magnati corrispondano le decime non alle chiese parrocchiali, ma a questi oratorî, esistenti nei loro fondi; Graziano riporta (c. 35, D. I, de cons.) una disposizione del principio del sec. VI, secondo cui i padroni di oratorî devono recarsi almeno nelle feste principali nelle chiese parrocchiali, ed è fatto divieto agli ecclesiastici di celebrare in tali feste negli oratorî. Nel sec. IX si sente già parlare di archipresbyteri, come dei preposti alle parrocchie primarie dove s'impartiva il battesimo, contrapposti ai rettori, a capo dei minores tituli o capellae, che potevano celebrare le cerimonie sacre e confessare, ma non battezzare: spesso le fonti parlano di baptismales ecclesiae cum capellis suis (c. 54, C. XVI, qu. 1). Queste cappelle diverranno poi alla loro volta parrocchie, sottoposte a patronato. Nelle chiese primarie c'era in molti casi un collegio di preti (collegiate plebane). Ma l'istituto delle chiese figlie, il cui rettore sarebbe stato nominato dal vescovo dietro presentazione del rettore della chiesa madre o matrice, fu regolato in modo generale assai più tardi (in particolare da Alessandro III, c. 3, X, de eccl. aedific., III, 48).
Urbano II nel 1095 stabilisce che, dove ci sono conventi, il popolo non sia retto dai monaci, ma da un cappellano istituito dal vescovo (c. 1, X, III, 37). Innocenzo III nel IV Concilio lateranense del 1215 denuncia gl'inconvenienti che largamente si verificano, e prescrive che il parroco debba avere una porzione sufficiente dei frutti della chiesa, che i parroci debbano adempiere personalmente al proprio ufficio, salvo che siano dignitarî o canonici, nel qual caso potranno avere un vicario, cui siano però assegnati redditi bastanti; già Alessandro III aveva dato la stessa prescrizione a favore dei vicarî di chiese parrocchiali annesse a monasteri (cc. 12 e 30, X, III, 5). Il concilio di Trento, sess. XXIV de ref. c. 13, vietò unioni di parrocchie a monasteri o canonicati o benefici semplici, e stabilì la revisione delle unioni seguite dal 1507; diede norme per assicurare in ogni caso ai parroci un reddito minimo, fissò che le parrocchie dovessero avere in ogni caso confini ben determinati, ordinò che venissero erette le parrocchie nelle città e nei luoghi dove ancora non esistevano. Anche il potere statale (in particolare i re di Francia: editto del 1679) pose rimedio agli inconvenienti derivanti dalle unioni di parrocchie a capitoli o conventi, stabilendo che in tali casi le parrocchie dovessero avere un vicario con mezzi proprî; la giurisprudenza dei parlamenti dichiarava incompatibile il cumulo degli uffici di canonico e di parroco.
Diritto vigente. - Nella definizione del can. 451 del Cod. iur. can. il parroco è o un sacerdote nominato dal vescovo, o una persona morale. Ma la persona morale può solo avere la cura di anime abituale, mentre l'attuale spetta a un vicario, presentato dalla persona morale e istituito dal vescovo. Se parroco abituale sia un capitolo, ad esso spetta curare la chiesa parrocchiale e l'amministrazione dei suoi beni. È vietata la comparrocchialità, ossia l'esistenza di più parroci in una stessa parrocchia. La parrocchia è circoscrizione territoriale; ma, in via affatto eccezionale, può darsi appartenenza a parrocchia per privilegio familiare (cosiddette parrocchie gentilizie) o esistenza di più parrocchie sullo stesso territorio per fedeli di rito o anche di lingua e di nazione diversa. Al parroco spetta la cura d'anime; sono funzioni a lui riservate il conferimento solenne del battesimo, il portare il viatico agl'infermi, l'amministrare l'estrema unzione, l'effettuare le pubblicazioni matrimoniali e quelle relative alle ordinazioni, l'assistere ai matrimonî, il benedire le case, l'accompagnare il cadavere dei proprî parrocchiani e il celebrare il loro funerale. Il parroco deve tenere i libri parrocchiali (dei battezzati, dei confermati, dei matrimonî, dei defunti: v. appresso); gl'incombe l'obbligo di celebrare la missa pro populo la domenica e le altre feste di precetto. I parroci possono essere inamovibili o amovibili: ma dopo il decreto Maxima cura del 20 agosto 1910, anche i primi possono essere rimossi in via amministrativa, anche per causa a loro non imputabile (così per l'odium plebis, quamvis iniustum et non universale, dummodo tale sit, quod utile parochi ministerium impediat, o la permanens infirmitas mentis aut corporis).
Diritto dello stato. - La legislazione del Risorgimento fu favorevole alle parrocchie e ai parroci. Le prime vennero esentate dalla conversione dei beni immobili (art. 11 legge 7 luglio 1866) e dalla tassa straordinaria del 30% (art. 18 legge 15 agosto 1867); ai secondi venne assicurato il supplemento di congrua (v.). Le disposizioni del Concordato relativo alle parrocchie e ai parroci sono: a) quella dell'art. 21, per cui le nomine degl'investiti dei benefici parrocchiali devono essere dalle competenti autorità ecclesiastiche comunicate riservatamente al governo (al prefetto, che deve però riferire al ministro dell'Interno, se creda di doversi opporre), che, ove gravi ragioni si oppongano alla nomina, può manifestarle riservatamente all'autorità ecclesiastica; inoltre, sopraggiungendo gravi ragioni che rendano dannosa la permanenza di un parroco in un dato beneficio, il governo comunicherà tali ragioni all'ordinario, che, d'accordo col governo, prenderà nei tre mesi le misure appropriate; b) quella dell'art. 18, per cui ove si debba, per disposizione dell'autorità ecclesiastica, raggruppare comunque più parrocchie, lo stato manterrà inalterato il trattamento economico dovuto a ciascuna delle parrocchie raggruppate.
Ai parroci è assicurato dal fondo per il culto un supplemento di congrua che garantisce l'entrata minima di L. 3500 (salvo la riduzione del ventesimo del supplemento) e di L. 6000 per i parroci di Roma; i parroci che percepiscono il supplemento di congrua godono poi anche di un assegno per spese di culto pari al 15% della congrua, ove le spese stesse siano sostenute in effetto dall'investito (testo unico 29 gennaio 1931, n. 227). Per la legge matrimoniale 27 maggio 1929, n. 847 spetta al parroco chiedere le pubblicazioni, in unione agli sposi, e trasmettere all'ufficiale dello stato civile l'atto di matrimonio.
Bibl.: L. Thomassin, Vetus et nova Ecclesiae disciplina, I, Parigi 1691, p. 287 segg.; L. A. Muratori, Antiquitates italicae, Milano 1742, VI, diss. 74, "de paroeciis et plebibus"; M. Lupus, De parochiis ante annum Christum millesimum, Bergamo 1788; L. Nardi, Dei parrochi, Pesaro 1830; U. Stutz, Geschichte d. Benefizialwesens von d. Anfängen bis auf d. Zeit Alexanders III., Stoccarda 1895; id., Die Eigenkirche als Element d. mittelalt.-german. Kirchenrechts, Berlino 1895; id., Pfarre, in Realencycklopädie für protestantische Theologie und Kirche, 1904; id., Das Eigenkirchenvermögen, in Festschrift Gierke, Weimar 1911; J. B. Sägmüller, Die Entwickelung des Archipresbyterats und Dekanatas bis zum Ende des Karolingerreichs, Tubinga 1898; P. Imbart de la Tour, Les paroisses rurales dans l'ancienne France du IVe au XIe siècle, in Revue hist., XXI (1898), fasc. 2; id., L'organisation eccl. de l'ancienne France, Parigi 1907; G. Forchielli, Collegialità di chierici nel Veronese, Venezia 1928; id., La pieve rurale (con ricca bibliografia regionale), Roma 1931. Per il nome, v. A. Schiaffini, in Studi danteschi, 1922, pp. 99-131; id., in Arch. stor. ital., 1924, pp. 65-83.
Libri parrocchiali.
Sono quelli in cui i parroci devono registrare gli atti più importanti della vita spirituale dei loro fedeli. Il Codice di diritto canonico (can. 470) ne prescrive quattro principali, quelli cioè dei battesimi, delle cresime, dei matrimonî e dei morti; ai quali è da aggiungersi il libro dello stato di anime, ossia l'elenco delle famiglie domiciliate nel territorio parrocchiale e degl'individui che le compongono, con le annotazioni relative all'osservanza delle leggi ecclesiastiche che regolano la famiglia cristiana. Nelle fonti del diritto canonico particolare sono pure menzionati il libro dei benefici; l'effemeride dei legati pii; il liber chronicus, in cui vengono registrati i principali avvenimenti della parrocchia, non solo religiosi, ma anche civili. I libri parrocchiali hanno precorso di secoli l'introduzione dei registri civili e le loro norme si trovano già fissate negli atti del concilio di Trento (sess. XXIV) e nello stesso Rituale romano, che ne prescrive i formularî (tit. X, c. 2, 6). Il parroco ha l'obbligo di usare in essi un timbro speciale e di custodirli in un archivio; alla curia vescovile si deve trasmettere ogni anno una copia dei libri parrocchiali (cfr. Codex iur. can., canoni 470, 777, 1103, 1107).