Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Raffinato interprete dell’età della Maniera, Parmigianino è uno degli artisti più originali e influenti della prima metà del Cinquecento. Apprezzato già in vita per il suo stile aristocratico e prezioso, diventa dopo la morte un riferimento per quei pittori che, come Giorgio Vasari e Francesco Salviati, ricercano una via alternativa al Rinascimento, mirando a fondere grazia e bellezza, monumentalità e naturalismo, sensualità e intellettualismo.
Se agli occhi di Giorgio Vasari Correggio rappresenta il pittore della "vaghezza", Parmigianino è il pittore della "grazia". Il legame anche concettuale che i due vocaboli possiedono nella terminologia artistica cinquecentesca indica l’identità e la differenza tra i due protagonisti dell’arte emiliana della prima metà del secolo.
Celebrato già in vita e ancora nel Seicento – per quella “particolare maniera sua propria, che in sveltezza, spirito vivace, et graziosa leggiadria ha superato ogni più eccellente pittore” (F. Scannelli, 1657) –, l’artista vede scemare la sua fama nel Settecento a causa dell’assenza di espliciti riferimenti classici nelle sue opere. Riscoperto agli inizi del Novecento, nel clima anti-classico delle avanguardie storiche e in fase di recupero critico dell’età della Maniera, Parmigianino riacquista un ruolo tra i grandi del Cinquecento.
Francesco Mazzola (questo il vero nome di Parmigianino) entra giovanissimo nella bottega degli zii paterni Pier Ilario e Michele Mazzola. L’opera più antica del suo catalogo sembra essere il Battesimo di Cristo, pala d’altare già nella chiesa della Nunziata a Parma e ora alla Gemäldegalerie di Berlino, dove è evidente il debito nei confronti del Correggio della fase pre-romana e la curiosità nei confronti della pittura nordica. La datazione intorno al 1519, quando l’artista aveva solo 16 anni, trova conferma in Vasari, il quale racconta che la pala è stata realizzata “di suo capriccio”, come sorta di saggio della sua bravura, e che la “condusse di maniera, che ancora chi la vede resta maravigliato che da un putto fusse condotta sì bene una simil cosa”.
Nella cosiddetta Pala di Bardi (1521, Bardi, Santa Maria), dipinta per la chiesa di San Pietro di Viadana (Mantova), Parmigianino mostra già molte delle caratteristiche che lo renderanno famoso. Le figure tendono ad allungarsi e gli atteggiamenti dei personaggi si caricano di un’enfasi quasi irreale, disponendosi nello spazio in modo non convenzionale, come nel san Giovanni di profilo o nella Madonna col Bambino che pare tentare di fuggire dalla prospettiva forzata imposta dal pittore. Il legame di Parmigianino con Correggio ha un fondamento storico, essendo i due artisti attivi nello stesso momento nella chiesa di San Giovanni Evangelista. Gli affreschi che gli si riconoscono con certezza – la decorazione dei sottarchi delle prime due cappelle a sinistra, databile intorno al 1522-1523 – mostrano la sua capacità di comprensione dello stile correggesco così come viene a configurarsi dopo la svolta romana. Nella Sant’Agata e il carnefice della prima cappella, e ancora di più nel San Vitale della seconda, Parmigianino non guarda solo alla nuova flessuosa monumentalità correggesca, ma anche a modelli nuovissimi e più inquieti, dalla critica definiti protomanieristici, come gli affreschi del Pordenone nel duomo di Cremona.
Nel 1523, a vent’anni, Parmigianino è ormai un artista affermato, come prova la commissione da parte del conte Galeazzo Sanvitale della decorazione della propria rocca gentilizia di Fontanellato presso Parma. Il tema, Diana e Atteone, richiama da vicino il precedente correggesco della Camera di San Paolo. E, in effetti, il Mazzola esegue l’incarico come un esplicito ripensamento del celebre modello, dal quale riprende l’idea di sviluppare il racconto nelle lunette e di sovrastarle con un pergolato scandito da putti festosi. L’esempio correggesco è però superato dall’idea di "spalancare" il soffitto simulando al centro una veduta a cielo aperto. I segni di un graduale ma sempre più deciso allontanamento da Correggio si colgono anche nelle figure, sottoposte a un processo di allungamento e dipinte all’insegna di un’eleganza meno carnale e più intellettuale. È questo un momento di particolare intensità sperimentale, che vede Parmigiano alternare a composizioni sacre da cavalletto (ad esempio l’incantevole Circoncisione, 1522-23, Detroit, Institute of Art) a ritratti di grandissimo fascino, come il Ritratto di Galeazzo Sanvitale, databile intorno al 1524, conservato al Museo di Capodimonte di Napoli. Testimonia questa inquietudine e la ricerca di nuove forme il celeberrimo Autoritratto allo specchio (1524 ca., Vienna, Kunsthistorisches Museum) dipinto su una tavola emisferica per rendere meglio la raffigurazione della propria immagine deformata da un specchio ricurvo: si tratta di una vera e propria sfida ai canoni tradizionali di rappresentazione, a testimonianza di una predilezione per le forme eleganti e allungate oltre che della capacità di Parmigianino di cimentarsi con i principi stessi della visione.
L’artista è cosciente di aver realizzato un capolavoro e considera l’Autoritratto allo specchio talmente esemplare del suo stile che, giunto a Roma nel 1524 – forse anche grazie alla mediazione dei Sanvitale –, decide di farne dono a papa Clemente VII. Il fine è quello di dimostrare al pontefice, vorace amante delle "cose belle", le proprie capacità. Le premesse per un grandioso successo ci sono tutte: Parmigianino viene indicato come un nuovo Raffaello – come testimonia Vasari – a causa della preziosità della sua pittura e anche del suo bell’aspetto. Il papa in persona promette di assegnargli gli affreschi della sala dei Pontefici nell’Appartamento Borgia, ma tanta attesa e tanta fama non si traducono nel successo sperato: l’ambiente pontificio risulta abbastanza chiuso, con inclinazioni di gusto tosco-romane; preferisce artisti come Giulio Romano, Rosso Fiorentino e Perin del Vaga, escludendo il pittore dalle commissioni più prestigiose.
Può sembrare paradossale che, pur partecipando marginalmente al gusto della Roma papale definito dallo storico dell’arte francese André Chastel "stile clementino", spetti a Parmigianino l’opera simbolo di questa breve ma intensa stagione: la Visione di san Girolamo, commissionatagli a Città di Castello ma dipinta a Roma e ora conservata alla National Gallery di Londra. Parmigianino vi lavora con passione (come testimoniano i numerosi disegni preparatori), dando vita a una pala di grande eleganza caratterizzata da sottili contrappunti compositivi: dal san Giovanni in primo piano, messo teatralmente in posa, alla raffinatezza della Vergine, fino al Gesù Bambino in cui la nozione stessa di grazia, tanto cara alla civiltà della Maniera, trova una vera e propria incarnazione pittorica. Francesco Mazzola è ancora al lavoro sull’opera quando i lanzichenecchi entrano a Roma nel 1527. Le conseguenze del Sacco, che pone fine all’età dell’oro clementina, costringono Parmigianino a riparare a Bologna, mentre non abbandona Roma – almeno per qualche anno – il suo capolavoro, che viene conservato e venerato dagli artisti in Santa Maria della Pace, inconsapevole simbolo di una sfortunata esperienza.
Il delicato equilibrio tra natura e intelletto raggiunto con la Visione di san Girolamo è il principio ispiratore di tutta l’attività bolognese che si protrae fino al 1530. In questo periodo di straordinaria creatività Parmigianino realizza disegni e incisioni (è tra i pochi pittori del tempo a incidere personalmente) che saranno importantissimi per la scuola emiliana del Cinque e Seicento, ma anche per le nuove leve dell’allora nascente manierismo.
Le pale d’altare prodotte in questi tre anni lo vedono impegnato a ricercare varianti all’iconografia tradizionale, come accade nel San Rocco (1528 ca.) dipinto per la chiesa più importante della città, San Petronio, o ad arricchirla con connotazioni intimiste, come nella Madonna di santa Margherita (1529-1530, Bologna, Pinacoteca Nazionale). Qui il legame con Correggio sembra riaffiorare, seppure in una chiave di raffinatezza intellettualistica, nell’intento di rappresentare il fatto sacro come una manifestazione di tenerezza, soprattutto nel dialogo ravvicinato tra il Bambino e santa Margherita. Tra il 1527 e il 1530 è molto intensa anche l’attività per committenti privati: la Conversione di san Paolo (1528 ca., Vienna, Kunsthistorisches Museum, eseguita per il medico parmense Gian Andrea Albio), o la Madonna della rosa della Gemäldegalerie di Dresda, concepita come un omaggio per papa Clemente VII, giunto a Bologna nel 1529-1530 in occasione dell’incoronazione di Carlo V a imperatore. Nella Bologna divenuta capitale d’Europa per festeggiare questo avvenimento, Parmigianino gioca un ruolo da protagonista. Spiando l’imperatore durante un pasto consumato davanti al pubblico, realizza un Ritratto allegorico di Carlo V in cui l’Asburgo è raffigurato mentre viene coronato dalla fama ed Ercole, suo alter ego iconografico, gli porge il mondo. Carlo V si innamora dell’opera, oggi nota da una copia antica scambiata per l’originale, e offre cifre esorbitanti senza convincere l’artista, insoddisfatto del suo lavoro.
Nel 1531 Parmigianino rientra a Parma, attirato dalla commissione degli affreschi nella chiesa di Santa Maria della Steccata. Pur continuando a mantenere contatti con l’ambiente bolognese (è di questo periodo la Madonna di san Zaccaria, ora agli Uffizi, dipinta per i Gozzadini), l’artista si impegna nella realizzazione del progetto studiando la composizione attraverso numerosi disegni. Il contratto prevede il completamento della decorazione absidale entro l’anno successivo, ma i lavori iniziano solo nel 1535 e non saranno mai portati a termine, visto che l’ingegno di Mazzola appare ora impegnato in un’attività diversa, una passione giovanile che solo adesso trova sfogo: l’alchimia. Egli vi dedica infatti la maggior parte del suo tempo negli anni parmensi, portando all’esasperazione i frati della Steccata, i quali – dopo ripetute sollecitazioni e ricorsi legali – sospendono il mandato al pittore nell’aprile del 1539, e si rivolgono a Giulio Romano e Michelangelo Anselmi.
A queste date Parmigianino ha realizzato solo una piccola parte del progetto, limitandosi all’arcone del presbiterio, concepito come una decorazione globale che molto deve alla visione dei monumenti antichi (la Domus Aurea su tutti): attorno a una doppia fila di rosoni di rame sbalzato si dipanano festoni di frutta, inquadrati ai lati da piccoli nudi monocromi. All’imposta dell’arco si trovano sei figure femminili (tre per lato), che portano anfore sulla testa e lampade (da un lato accese, dall’altro spente). Al di là della complessa iconografia (probabilmente un’allegoria della purezza della Vergine), è possibile riscontrare una rinnovata attenzione agli effetti monumentali che derivano da un’accorta mistura di decorativismo e grandiosità. Al periodo parmense risale anche uno dei suoi capolavori più noti e criptici al tempo stesso: la Madonna dal collo lungo, ora agli Uffizi. Commissionata nel 1534, di questa tela esistono diversi disegni preparatori, a testimonianza del fervore creativo dell’artista. Un fervore però che, come nel caso della Steccata, non produce un’opera compiuta: essa viene posta in loco, la chiesa di Santa Maria dei Servi a Parma, solo nel 1542, dopo la morte dell’artista avvenuta nel 1540. Nonostante ciò, si nota una nuova attenzione per una forma più solida e compatta, lontana dalle morbidezze del periodo bolognese. L’intensità di questa fase è documentata anche dall’algido Ritratto di giovane donna detta "Antea" (1540 ca., Napoli, Museo di Capodimonte), dove l’eleganza della giovane contrasta con la sproporzione del braccio destro “deformazione abnorme che codesta spaurita, dall’aria consunta e rassegnata, ostenta come un penoso sfallo di natura” (F. Bologna).
Le sfortunate vicende della Steccata inducono l’artista a riparare, quasi un esilio, a Casalmaggiore. Qui Parmigianino si spegne a soli 37 anni, stroncato dalla malaria, dopo aver realizzato la Madonna col Bambino, i santi Stefano, Giovanni Battista e il committente (Dresda, Gemäldegalerie), opera che si pone clamorosamente controcorrente nella sua fissità arcaizzante e nell’atmosfera sospesa, a testimonianza di un intelletto disposto a sperimentare fino all’ultimo.