paranzino
s. m. Chi fa parte di un’organizzazione criminale e malavitosa, come quella raccontata dallo scrittore Roberto Saviano nel libro «Paranza dei bambini».
• Le pagine più direttamente narrative del romanzo [«La paranza dei bambini»] son dominate dall’uso pressoché assoluto del dialetto (lingua?) napoletano, prevalente nei dialoghi, che del resto occupano a loro volta uno spazio dominante nel racconto. [Roberto] Saviano dichiara onestamente in nota di aver goduto della consulenza dei professori Nicola De Blasi, di Napoli, e Giovanni Turchetta, di Milano, nell’allestimento di questa complessa e smisurata officina dialettale. Mi permetto di ipotizzare (e qui entriamo nel merito dei risultati «letterari» del libro) che, se questa collaborazione scientifica è stata, come lui stesso dice, preziosa, la carica reinventiva originalissima di questo dialetto in pieno XXI secolo, quando sembra che ogni tipo di linguaggio sia stato assorbito e omologato alla media tecnologica, sia da attribuire sostanzialmente alla spinta fortemente emotiva ed immaginativa di Saviano (senza trascurare il contributo rilevante che il linguaggio televisivo e telematico apporta ai modi di pensare e di dire dei «paranzini»). (Alberto Asor Rosa, Repubblica, 11 novembre 2016, p. 46, Cultura) • I protagonisti del suo ultimo libro [«Bacio feroce»] sono ancora una volta «i paranzini», ragazzi nati in una terra di assassini e assassinati, disillusi dalle promesse di un mondo che non concede niente. (C. Cab., Secolo XIX, 15 ottobre 2017, p. 24, Genova) • Tra le nuove leve dei paranzini, i «ragazzini si pettinavano tutti alla Genny Savastano». (Giuseppe Antonelli, Corriere della sera, 6 novembre 2017, p. 30, Cultura).
- Derivato dal s. f. paranza con l’aggiunta del suffisso -ino2.