PAPAFAVA DEI CARRARESI, Francesco
– Nacque a Padova il 2 gennaio 1864 da Alberto e da Margherita Cittadella Vigodarzere, appartenenti a due delle più antiche, prestigiose e facoltose famiglie dell’aristocrazia veneta.
Visse buona parte dell’infanzia e adolescenza a Firenze, dove si diplomò presso il ginnasio scolopio delle Scuole pie fiorentine. Nel 1881 si iscrisse alla facoltà giuridica romana, presso cui si laureò il 2 luglio 1886. Dopo la laurea approfondì lo studio di Herbert Spencer e iniziò a muoversi autonomamente nella cerchia delle amicizie fiorentine del padre: Violet Paget (alias Vernon Lee), Emilia Peruzzi, Elena Cini French, Mary e Bernard Berenson, Arturo Linaker e Vilfredo Pareto. Nel 1887 compì un viaggio a Londra, dove conobbe Constance Black, scrittrice e traduttrice, nonché attivista socialista, e due delle sue sorelle, Grace e Clementina, entrambe socialiste, che lo introdussero nel mondo del nascente laburismo e negli ambienti culturali progressisti della capitale britannica. A Londra fece amicizia con Henry Hyde Champion e con Albert Ball, due dei principali esponenti del laburismo britannico. In Inghilterra iniziò a leggere Marx, del quale si procurò Il Capitale e Miseria della filosofia. Da Londra prese contatti con Ernesto Teodoro Moneta, direttore del quotidiano milanese Il Secolo, per ottenere un lavoro manuale nella tipografia del giornale. L’esperienza durò solo pochi giorni, come confessò in una lettera al padre, in cui però aggiunse: «le mie simpatie per gli operai e il mio interesse nelle questioni sociali non sono che accresciute» (Londra 1° settembre 1887).
A Milano frequentò Osvaldo Gnocchi Viani, leader del socialismo operaista; lesse opere destinate a influenzarlo – I miserabili di Victor Hugo, gli scritti di Aleksandr Ivanovič Herzen, i grandi romanzieri russi e la pubblicistica filantropico-sociale –, si coinvolse nella battaglia pacifista di Moneta aderendo alla Società lombarda della pace, e partecipò ad alcune embrionali commissioni arbitrali promosse dal partito di Gnocchi Viani. Rientrato a Padova, condivise il progetto di Leone Wollemborg per la fondazione di casse rurali che, sul modello mutualistico liberal-moderato di Luigi Luzzatti, alimentassero una rete cooperativa di prestiti come quella ideata in Germania da Friedrich Wilhelm Raiffeisen con l’obiettivo di arginare e combattere i fenomeni usurai che soffocavano le attività agricole. Alla fine del 1887 fu eletto presidente della Cassa rurale di Montemerlo; l’anno successivo entrò nell’ufficio di presidenza della Federazione nazionale delle casse rurali assieme allo stesso Wollemborg e a Vincenzo Stefano Breda. Si procurò una buona conoscenza del cooperativismo inglese e apprezzò il disinteresse personale dei suoi ispiratori e dirigenti, quali George Jacob Holyoake, il più popolare e combattivo «social missionary» del solidarismo protolaburista inglese (George Jacob Holyoake, in La cooperazione agraria, 15 settembre 1888, pp. 141-145).
Tra il 1887 e il 1888 la sua consuetudine con Pareto uscì dal convenzionalismo dei salotti fiorentini e iniziò a diventare vera e propria amicizia intellettuale e laborioso tirocinio di apprendimento dei principi dell’economia politica e del metodo dell’analisi sociologica e politica. Pareto lo richiamò con insistenza e successo all’impegno militante: «per chi ha avuto la sorte di nascere come lei, è un dovere lottare» (lettera di Pareto a Papafava del 9 dicembre 1888, in V. Pareto, Œuvres complètes, a cura di G. Busino, XXIII, 1981, pp. 603 ss.). Il 7 giugno 1890 Papafava sposò Maria Meniconi Bracceschi, bella, spigliata, colta e spregiudicata aristocratica romana, frequentatrice di Gabriele D’Annunzio, Giuseppe (Gegé) Primoli e degli ambienti della «Roma bizantina» (Mogavero, 2010, pp. 36, 51-63).
Nel 1892 si avvicinò alla rivista L’Idea liberale (1892-1906), fondata a Milano da Alberto Sormani, Guido Martinelli e Domenico Oliva (Rizzo, 1982, pp. 19-70; Bagnoli, 2000, pp. 17-24, 52-70, 86-119). Iniziò a collaborare al nuovo periodico, presentatosi con un’adesione forte al liberalismo gladstoniano, criticando le letture di Spencer che cercavano di rendere compatibile l’«inconoscibile» del filosofo britannico con ipotesi di «selezione naturale» del corpo sociale e con azzardate tentazioni nazionalistiche (Spencer e la religione dell’inconoscibile, in L’Idea liberale, I (1892), 27, pp. 5-6; Morale, ibid., III (1894), 21, pp. 2-3).
Il ritorno di Crispi al potere nel 1893 gli ispirò un cauto attendismo, presto dissoltosi alla luce della proclamazione dello stato d’assedio in Sicilia (3 gennaio 1894) e dall’approvazione delle leggi eccezionali del successivo luglio. Il 12 agosto 1893 nacque la primogenita Margherita. L’opposizione di Papafava a Crispi assunse rapidamente toni molto risoluti (Quel che avrebbe dovuto essere la relazione di Crispi al Re, in L’Idea liberale, III (1894), 51, pp. 2-3). Giudicò come un tradimento irrimediabile degli ideali della Destra storica l’accodamento di Ruggiero Bonghi a Crispi: «se bisognasse [...] scegliere tra essere repubblicani o crispini io sarei repubblicano, e non sarei il solo» (Bonghi e Crispi, in L’Idea liberale, IV (1894), 3, p. 6). Nel 1895 conobbe Gaetano Salvemini, con il quale avrebbe intrattenuto per tutta la vita la sua più importante amicizia, quella che, sul piano umano e affettivo, sarebbe stata senz’altro la più intensa e coinvolgente, destinata peraltro a essere ereditata da moglie, figli, parenti e amici (Mogavero, 2010, pp. 31-36, 46-95, 199 ss.). Contrastò con decisione la deriva etico-deista che vide consertarsi all’autoritarismo dilagante «nello stato d’assedio, nei tribunali militari, nelle leggi eccezionali di pubblica sicurezza» (Stato cristiano, in L’Idea liberale, IV (1895), 27, p. 2). Per debellare l’Italia crispina, in cui interagivano «una democrazia per burla, una stampa per burla, un’opinione pubblica per burla, un uomo di stato per burla», sollecitò un compromesso nazionale tra le forze popolari, in analogia con quello che aveva reso possibile la «guerra di liberazione nazionale» del Risorgimento, ponendo al re la secca alternativa «di perdere la corona o di darsi alla libertà» (Il meno male, in L’Idea liberale, V (1896), 7, pp. 98-100). La necessità di sradicare la «monarchia crispina» (v. Pareto a Papafava, lettera dell’11 aprile 1895, in V. Pareto, Œuvres complètes, a cura di G. Busino, XXX, 1989, p. 269) non gli impedì di considerare l’istituto regio come un «male necessario», da conservare per evitare lo scioglimento del nesso patria-monarchia-popolo e lo svuotamento del patriottismo costituzionale di matrice pattizia. Contro la retorica della cieca obbedienza polemizzò duramente con Matilde Serao (Madri rettoriche, in L’Idea liberale, V (1896), 12, pp. 190 s.). Caduto Crispi, sperò che Antonio di Rudinì compisse finalmente un deciso «tentativo di conciliare le istituzioni della borghesia col popolo dei lavoratori» (La libertà e i conservatori, in L’Idea liberale, V (1896), 20, p. 300). Rapidamente delusa quest’aspettativa, le sue pubbliche scelte, la rinnovata adesione al radicalismo liberale democratico e antiautoritario, la difesa dei socialisti e dei repubblicani e del ruolo da essi svolto fin dal Risorgimento, le critiche sempre più aspre alle interferenze politiche della monarchia e dei capi militari, la difesa della libertà di stampa e della legalità, l’ostilità a qualsiasi ipotesi di rivincita africana, lo portarono a essere additato dalla «consorteria» come un antipatriottico denigratore dell’onore militare italiano (L’onorevole Rudinì e il signor Pappafava [sic], in La Nazione, 13 marzo 1896). Nel confronto con Salvemini, egli aggiornò il suo liberalismo, arricchendolo di una passione per la storia contemporanea largamente derivatagli dalla lettura degli scritti dello storico molfettese e dal condiviso interesse per Hippolyte Taine, per le sue Les origines de la France contemporaine e per il tentativo di fondazione di una storiografia come psicologia applicata (Ippolito Taine di Giacomo Barzellotti, in L’Idea liberale, IV (1895), 47, pp. 1-3).
Nell’osservazione acuta e attenta dei drammatici processi politici degli ultimi anni dell’Ottocento, egli seppe vedere con lungimirante tempismo la progressiva degenerazione della polemica antiparlamentaristica in distruttivo ed eversivo rifiuto delle istituzioni liberali tout court, in concomitanza con l’affermarsi del nazionalismo spiritualistico e imperialistico che, con la direzione di Giovanni Borelli, si era impadronito anche della prediletta rivista L’Idea liberale. Egli dedicò la massima attenzione a ogni tentativo e proposta di allargamento della base di selezione della classe politica e lavorò a favorire un’equilibrata interazione tra individualismo etico-culturale borghese e liberalismo politico d’impronta gladstoniana. Dismessa la collaborazione a L’Idea liberale, tra il 1897 e il 1899, accogliendo le sollecitazioni rivoltegli da Antonio De Viti De Marco, iniziò a scrivere per Il Giornale degli economisti. In parallelo, confermando sue predilezioni etico-politiche più antiche e rafforzandole alla luce del dibattito europeo allora in corso sui prodromi del nazionalismo e sui modelli costituzionali tedesco e inglese dopo l’estromissione di Bismarck dal potere, confermò la sua decisa opzione per il sistema costituzionale britannico e per i suoi meccanismi di check and balances, con l’esplicito obiettivo di arrivare anche in Italia all’instaurazione di una costituzionale «armonia tra gl’interessi dell’individuo e i più alti ideali della nazione» (Bismark e Gladstone, in La libertà e la pace, II (1898), 7-10, pp. 123-131). Dal 1° settembre 1899 assunse la titolarità della rubrica Cronaca de Il Giornale degli economisti, una finestra sul dibattito politico-sociale italiano ed europeo resa celebre già dai precedenti titolari (Ugo Mazzola, Pareto e De Viti De Marco) e che fino al 1° aprile 1909 gli avrebbe fornito il suo spazio d’intervento più congeniale.
Il 1° giugno 1899 gli era nato, intanto, il secondogenito, Novello.
La perdurante crisi politica e il continuo riaffiorare di ipotesi di governi non vincolati alla fiducia parlamentare mantennero vigile e reattiva la sua attenzione; contro i liberali disposti a schierarsi «per la monarchia anche contro la libertà», sostenne la necessità che prevalessero i liberali schierati «per la libertà anche contro la monarchia» (Dieci anni di vita italiana (1899-1909), I, Bari 1913, p. 1). Non si limitò però soltanto all’attività pubblicista. Il 2 luglio 1899 fu eletto consigliere comunale di Padova nelle liste dell’Associazione Cavour, che pochi mesi dopo abbandonò per aderire all’Associazione Cairoli fondata da Giulio Alessio. Alle nuove elezioni, che si tennero il 28 gennaio 1900, fu eletto nella coalizione dei partiti popolari. Alle elezioni politiche del 3 e 10 giugno 1900 accettò di candidarsi alla Camera accollandosi l’impossibile missione di contrastare il potente parlamentare uscente e candidato della consorteria Leone Romanin Jacur. Poiché Il Giornale degli economisti, cui pensò di affidare il suo appello «a votare contro il Governo [...] per salvare le istituzioni, l’unità d’Italia, l’ordine, la società», sarebbe arrivato ai lettori a urne aperte, si rivolse al «solo lettore» raggiungibile in tempo, il tipografo (Al tipografo, in Il Giornale degli economisti, XI (1900), p. 592), con un testo breve e appassionato che in un’altra drammatica congiuntura avrebbe meritato una lunga citazione da parte di Benedetto Croce (Storia d’Italia dal 1871 al 1915 (1928), Bari 1966, p. 348). Guardò con speranza alla svolta politica liberaldemocratica del 1900-01, intravedendo nell’ascesa al trono di Vittorio Emanuele III e nella più o meno contestuale formazione del ministero Zanardelli-Giolitti, una concatenazione di eventi tale da fargli percepire «nella nostra vita politica come un fermento di primavera» (Premiati e protetti, in Il Giornale degli economisti, XII (1901), p. 404).
I primi anni del Novecento e l’emergere del giolittismo lo posero di fronte a due realtà inquietanti: l’adeguarsi di larghi ambienti latamente liberali e liberisti alle logiche dei blocchi protetti e la corsa della piccola borghesia e dei ceti professionali e tecnici emergenti agli impieghi offerti dall’industria assistita. Senza raggiungere i toni delle invettive salveminiane, Papafava guardò con netta contrarietà alla parabola ascensionale del giolittismo, cercando di serbare, nonostante tutto, una sua peculiare fedeltà ad alcuni principi fondamentali quali il rispetto della legalità, la lotta alla corruzione politica e finanziaria, l’opposizione ai monopoli e alle provvidenze statali, la riforma tributaria e l’abolizione dei dazi, ritrovandosi sempre più sulla linea delle corrosive critiche rivolte dallo storico molfettese al sistema di potere di Giolitti e alla capacità di attrazione che esso esercitò sui socialisti (I pretoriani di S. M. la Plebe. I socialisti hanno avuto paura. La politica del bilancere, in Il Giornale degli economisti, XVIII (1907), pp. 1121-1124). Tra gli scioperi del 1904, la conferenza di Algeciras (1906) e l’annessione austriaca della Bosnia-Erzegovina (1908), il suo quadro di osservazione della realtà e dei processi storici e politici in atto, rimasto sempre ancorato a valori e strumenti di analisi laici ed empirico-liberali, sembrò assorbire elementi di involuzione e ambiguità del giudizio politico rispetto al tradizionale nucleo antimilitarista. Dedicò gli ultimi interventi pubblici alla riforma della scuola media (1908) e al timore antiaustriaco, che affrontò anche attraverso l’analisi del nascente irredentismo: sulla prima e sul secondo, però, l’intreccio dei testi e dei carteggi lo mostra ancora in dialogo diretto o indiretto con Salvemini (Dieci anni di vita italiana, cit., II, pp. 713 ss., 747-757). Nonostante tutto, non perse interesse all’edificazione della «città nuova». Circa la «speranza che i socialisti ci diano “la nuova città più giusta e più umana”», osservò che essa era «la speranza di tutti i socialisti in buona fede e di tutti coloro che in buona fede sono alleati dei socialisti», anche se «in molti la speranza s’è, negli ultimi anni, rapidamente illanguidita per l’esperienza dei fatti» (Socialismo riformista (1908), in Dieci anni di vita italiana, cit., II, p. 730). Tra il 1910 e il 1911 il silenzio di Papafava fu quasi totale. Il peggioramento delle condizioni di salute e i gravi problemi che avevano compromesso la sua vista lo tennero fuori dal dibattito e spensero quasi del tutto anche il suo gusto per il carteggiare.
Morì a Padova il 30 marzo 1912.
Fonti e Bibl.: Frassanelle (Padova), Archivio Antonini Papafava dei Carraresi, Conte Alberto; ibid., Conte Francesco. Per i carteggi con Pareto: Carteggi paretiani 1892-1923, a cura di G. De Rosa, Roma 1962, pp. 59-64; V. Pareto, Œuvres complètes, a cura di G. Busino, XXIII, Lettres: 1860-1890, Genève 1981, ad nomen; XXX, Lettres et correspondances. Compléments et additions, Genève 1989, ad nomen. Per i carteggi con vari esponenti della cultura e della politica italiane: E. Franzina, La fronda liberista. Problemi dello sviluppo capitalistico e aspetti della opposizione radicale nell’Italia crispina (1887-1897), tesi di laurea, II, Padova 1972, pp. 1-187, 221-229. Per i carteggi con Salvemini: G. Salvemini, Carteggi, 1895-1911, a cura di E. Gencarelli, Milano 1968, ad nomen, da integrare con gli ampliamenti e le revisioni apportati dall’edizione a cura di S. Bucchi: G. Salvemini, Carteggio 1894-1902, Roma-Bari 1988, ad nomen; Id., Carteggio 1903-1906, Manduria 1997, ad nomen; Id., Carteggio 1907-1909, Manduria 2002, ad nomen; Id., Carteggio 1910, Manduria 2003, ad nomen; Id., Carteggio 1911, Manduria 2004, ad nomen.
Per la bibliografia su Papafava si rimanda a G. Busino, L’Italia di Vilfredo Pareto. Economia e società in un carteggio del 1873-1923, I, Milano 1989, pp. 271-312. Gli scritti apparsi nel Giornale degli economisti si leggono in F. Papafava, Dieci anni di vita italiana (1899-1909), I-II, Bari 1913. Sulla figura e l’opera di Papafava si vedano: G. Salvemini, F. Papafava, in l’Unità, 6 aprile 1912, p. 66; A. Caroncini, F. Papafava. Dieci anni di vita italiana, in La Voce, V (1913), 39, p. 1168; P. Silva, Dieci anni di vita italiana, ibid., 42, p. 1177; P. Alatri, Il ciclo di un radicale (rileggendo le «Cronache» di F. Papafava), in Nuovi Argomenti, II (1954), 6, pp. 118-138; C. Placci, Salvemini e Berenson, in La Nazione, 30 gennaio 1962; S. Lanaro, F. Papafava, in Belfagor, XXIV (1969), 2, pp. 164-202; E. Franzina, La fronda liberista, cit., I, pp. 87-557; A. Galante Garrone, I radicali in Italia (1849-1925), Milano 1973, pp. 308-311; E. Franzina, La «buona stampa» liberista e le premesse ideologiche del liberismo di sinistra agli inizi del periodo crispino (1887-1890), in Critica storica, n.s., XI (1974), 2, pp. 38-93; Id., «I liberisti, Pareto e la Democrazia italiana». (La nascita del nuovo «Giornale degli Economisti), ibid., XIII (1976), 1, pp. 81-128; R. Vivarelli, Il fallimento del liberalismo. Studi sulle origini del fascismo, Bologna 1981, pp. 164 ss.; M.M. Rizzo, Una proposta di liberalismo «moderno». ‘L’Idea liberale’ dal 1892 al 1906, Lecce 1982, passim; A. Cardini, Antonio De Viti De Marco e la democrazia incompiuta 1858-1943, Roma-Bari 1985, ad nomen; S. Majnoni, Tradizione e cultura acquisita nella formazione di F. Papafava, in Rivista storica italiana, XCIX (1987), pp. 15-50; A. Ventura, Padova, Bari 1989, pp. 179 ss.; E. Gentile, L’Italia giolittiana, Firenze 1990, pp. 155 ss.; G. Orsina, Senza chiesa né classe. Il partito radicale nell’età giolittiana, Roma 1998, pp. 121, 245, 252 s.; V. Bagnoli, Letterati e massa. ‘L’Idea liberale’ (1891-1906), Roma 2000, passim; G. Orsina, Anticlericalismo e democrazia. Storia del Partito radicale in Italia e a Roma, 1901-1914, Soveria Mannelli 2002, pp. 91, 226-229; G.A. Cisotto, La ‘terza via’. I radicali veneti tra Ottocento e Novecento, Milano 2008, passim; V. Mogavero, Novello Papafava tra Grande Guerra, dopoguerra e fascismo. Alle radici di un’opposizione liberale (1915-1930), Sommacampagna 2010.