NICCOLO II, papa
NICCOLÒ II, papa. – Poco si conosce di Gerardo prima della elevazione al pontificato. Per il Liber pontificalis (1886-92, II, p. 280) e Guido di Ferrara (1891, pp. 551 s.) veniva dalla Borgogna. Di nascita illegittima parla solo Benzone d’Alba (1996, p. 594), polemico con il gruppo dei riformatori, mentre la notizia di una monacazione a Cluny, da un obituario d’inizio XII secolo (Wollasch, 1968, pp. 209-218), non trova altri riscontri.
Compare per la prima volta quale vescovo di Firenze il 9 gennaio 1045 (ultima notizia del predecessore il 23 agosto 1038).
L’ipotesi (Hägermann, 2008, p. 67) di una sua appartenenza al capitolo cattedrale fiorentino, almeno dal 1036 come canonico e dal 1038 come arciprete, va respinta perché basata sull’omonimia con due personaggi attestati in altri atti del capitolo cronologicamente incompatibili con i dati riguardanti il futuro papa.
Gli interventi ai sinodi romani indetti da Leone IX (aprile 1049 e aprile-maggio 1050), dove si presero provvedimenti contro la simonia e il concubinato degli ecclesiastici, rappresentano i primi rapporti noti con il papato.
Nel 1055 Vittore II tenne significativamente a Firenze un importante sinodo, ma la notizia di Bonizone (1891, p. 590) che nell’occasione fu deposto, tra altri, anche il vescovo fiorentino è ritenuta frutto di una confusione con il successore. Il papa tornò a Firenze nel giugno 1057: la città aveva acquistato importanza in quanto residenza di Goffredo, duca dell’Alta Lorena, il quale, sposata nel 1054 Beatrice, vedova di Bonifacio di Canossa, e divenuto marchese di Tuscia, era allora la potenza egemone dell’Italia centrale. Non stupisce pertanto che, morto Vittore II ad Arezzo il 28 luglio 1057, venisse eletto papa l’abate cassinese Federico fratello di Goffredo, che prese il nome di Stefano IX. L’alleanza stabilitasi tra la casa marchionale di Tuscia e il gruppo riformatore romano certo contribuì a far conoscere in un’ampia cerchia il vescovo fiorentino e a metterne in luce le doti.
Pier Damiani (ep. 58; 1988-89, p. 110), secondo il quale Gerardo era di intelletto vivace e di buona cultura, casto e generoso nelle elemosine, lodava anche il suo spirito di servizio, ricordando che da papa lavava ogni giorno i piedi a dodici poveri sull’esempio di Gesù. Nella sua diocesi si impegnò a migliorare le condizioni di chiese e monasteri e promosse la vita comune del clero, soprattutto nei centri pievani, assicurando alle pievi i mezzi necessari (un quarto delle decime, la metà dei lasciti testamentari e l’intero ammontare di primizie e offerte).
L’improvvisa morte di Stefano IX a Firenze il 29 marzo 1058 determinò una situazione confusa. Infatti il papa aveva fatto giurare ai cardinali vescovi, al clero e al popolo di Roma che, qualora fosse morto, per la designazione del successore avrebbero atteso il rientro da una missione in Germania del suddiacono della Chiesa romana Ildebrando (Pier Damiani, ibid.). Ma alcuni esponenti della nobiltà romana approfittarono del decesso del papa per riprendere il controllo dell’elezione pontificia e riuscirono a nominare il 5 aprile, mediante la forza e il denaro, il vescovo di Velletri Giovanni Mincio (Benedetto X).
Pier Damiani e gli altri cardinali vescovi fuggirono da Roma per non dover intronizzare l’eletto, intenzionati a concordare una diversa nomina al ritorno di Ildebrando, che è attestato in Italia già il 16 maggio 1058 al fianco di Goffredo di Lorena, verosimile suggeritore della candidatura del vescovo fiorentino. Ildebrando, dopo aver consultato ambienti ecclesiastici e laici romani, inviò infine un’ambasceria presso la corte tedesca, che a Pentecoste (7 giugno) si trovava ad Augusta, per ottenerne il consenso. L’assenso alla scelta di Gerardo fu accompagnato dall’invito a Goffredo di scortare a Roma il nuovo papa, il quale mantenne la guida della diocesi fiorentina. Alcune fonti parlano di una formale elezione a Siena (Benzo von Alba, 1996, pp. 594-596; Bonizone, 1891, p. 593) o a Firenze (AnnalesRomani, 1886-92, p. 334; Chronica monasterii Casinensis, 1980, p. 373): in ogni caso questi avvenimenti dovrebbero collocarsi tra tarda primavera e inizio estate del 1058 (Hägermann, 2008, pp. 74-82).
La tradizionale ipotesi di un’elezione avvenuta il 6 dicembre poggia sulla supposizione che Gerardo avrebbe scelto il nome del santo del giorno in cui sarebbe stato elevato alla cattedra di Pietro; nel nome potrebbe invece vedersi un voluto riferimento al predecessore Niccolò I, assertore del primato romano, o un richiamo al patrono del luogo di origine del pontefice.
Agli inizi di gennaio, il marchese Goffredo accompagnò verso Roma Niccolò II il quale, giunto a Sutri, riunì un sinodo con i cardinali che lo avevano eletto e con vari vescovi di Lombardia e Tuscia. In esso Benedetto X venne dichiarato invasore e scomunicato. Poco dopo, grazie alle milizie di Goffredo e ad appoggi interni ottenuti da Ildebrando, Niccolò II entrò in Roma accolto da clero e popolo, prese possesso del Laterano e venne intronizzato e incoronato in S. Pietro il 24 gennaio 1059, mentre il suo antagonista abbandonò la città rifugiandosi presso i propri sostenitori.
Le linee fondamentali caratterizzanti il pontificato emersero subito: un deciso impegno per la riforma e una virata della politica papale nel Mezzogiorno. Il 6 marzo, nel corso di un viaggio nell’Italia centrale, creò cardinale prete di S. Cecilia Desiderio abate di Montecassino e gli conferì la benedizione abbaziale nominandolo suo delegato per la riforma dei monasteri dell’Italia meridionale. Grazie alla mediazione di Desiderio, cercò di coniugare l’alleanza con i capi normanni con lo sviluppo al Sud degli obiettivi religiosi del papato riformatore.
Il 13 aprile 1059 a Roma aprì un affollato sinodo nel corso del quale Berengario di Tours fu condannato al ripudio della sua dottrina eucaristica, dichiarata eretica. Quanto alla riforma, furono adottati provvedimenti a difesa del matrimonio, dei deboli, dei patrimoni ecclesiastici, e vennero affrontati gli abusi che minavano il regolare svolgimento della vita religiosa presso il clero e i monaci, in particolare simonia e concubinato. A tal fine fu vietato ai chierici di ricevere chiese e beni ecclesiastici da laici, affermando per la prima volta un principio da cui non si sarebbe più potuto prescindere. Venne poi presa in esame la vita comune del clero: non fu accolta la proposta rigorista di Ildebrando, intesa a superare la regola di Aquisgrana, ritenuta permissiva, e a imporre una rigida vita comune in completa povertà, tuttavia i canonici vennero invitati a vivere in castità presso le loro chiese, mangiando e dormendo insieme e godendo in comune dei beni materiali. La principale decisione sinodale riguardò la procedura di elezione del papa, richiesta dagli eventi seguiti alla morte di Stefano IX e presa allo scopo di evitare in futuro il ripetersi di casi simili.
La norma fissata per la regolare successione nella Sede apostolica non aveva finalità antimperiali – ormai la storiografia su questo punto è concorde – bensì intese opporsi a una visione troppo particolaristica del papato diffusa soprattutto nella nobiltà romana, per quanto in seguito sia servita per assicurare l’indipendenza del papato dall’imperatore. Nella versione autentica del decreto (Die Konzilien..., 2010, pp. 352-407) si legge che non avendo la sede romana sopra di sé un metropolita, poiché superiore a tutte le altre, i cardinali vescovi per l’elezione del papa fungevano da metropoliti scegliendo un candidato che, accettato dai restanti cardinali, il clero e il popolo avrebbero poi acclamato. Così l’elezione, affidata precipuamente ai cardinali vescovi, venne sottratta al controllo delle famiglie romane. Disposizioni aggiuntive, con chiaro riferimento alle circostanze dell’elezione di Niccolò II, quasi a volerla giustificare a posteriori, stabilirono che qualora fosse impossibile in Roma una libera elezione, questa potesse avvenire altrove; che l’eletto non dovesse necessariamente appartenere al clero romano; che chi fosse stato eletto fuori Roma avesse pieni poteri anche prima dell’intronizzazione. Quanto ai diritti spettanti al futuro imperatore Enrico IV, il testo, con espressione ambigua, si limitò ad assicurare il rispetto dell’onore e della riverenza a lui dovuti, aggiungendo che la concessione era fatta al re in carica e che i successori avrebbero dovuto chiederne il rinnovo.
Dopo il sinodo iniziarono a manifestarsi i frutti della nuova politica verso i Normanni. Ildebrando, recatosi a Capua a sollecitare aiuto contro Benedetto X e i suoi sostenitori, ottenne che Riccardo di Aversa, giurata fedeltà alla Chiesa romana e ricevuta l’investitura del principato capuano, inviasse al papa 300 cavalieri. La prima spedizione (maggio 1059) contro Giovanni Mincio rifugiatosi a Galeria non ebbe esito, ma un secondo attacco (giugno 1059) lo costrinse alla resa.
Nella stessa estate il papa fu a Montecassino il 24 giugno, poi si addentrò nei domini normanni accompagnato dall’abate Desiderio. Il 23 agosto durante un sinodo a Melfi ribadì la condanna di simonia e concubinato e l’obbligo della castità per i sacerdoti; furono inoltre presi provvedimenti nei confronti di alcuni vescovi della zona. A Melfi furono presenti Riccardo di Aversa e Roberto il Guiscardo, il quale giurò fedeltà alla Chiesa romana e al papa, impegnandosi per il recupero dei possessi di S. Pietro e per ricondurre sotto la giurisdizione di Roma le Chiese dei propri territori. Giurò inoltre di appoggiare il papato, garantendo l’applicazione del decreto sull’elezione papale. Analogo giuramento prestò forse Riccardo, però non si è conservato. Il papa riconobbe a loro le terre usurpate alla Chiesa dietro corresponsione di un censo annuo; concesse a Roberto il titolo di duca di Puglia, di Calabria e anche della Sicilia ancora da conquistare; confermò a Riccardo il principato di Capua. Il riconoscimento papale legittimò le conquiste fatte e garantì la supremazia sugli altri capi normanni. Grazie all’alleanza con i Normanni, Niccolò II poté così affrontare la riorganizzazione delle Chiese latine e tentare di guadagnare a Roma le Chiese e le popolazioni italo-greche dell’Italia meridionale.
A fine agosto 1059, in un sinodo a Benevento intervenne sulla geografia ecclesiastica unificando gli episcopati di Venafro e Isernia (affidati a un monaco cassinese) ed elevando a sede arcivescovile Acerenza (insediando un latino dove prima vi era un vescovo greco); infine sostituì il deposto vescovo di Aquino con un altro monaco cassinese.
Interventi significativi si ebbero pure nei confronti dei regni e delle Chiese d’Occidente. Niccolò II strinse rapporti con la monarchia francese: due legati furono inviati all’incoronazione di Filippo I il 23 maggio 1059 e in ottobre Pier Damiani scrisse alla regina Anna in nome del papa per esortarla a esercitare la sua influenza sul re in favore della Chiesa (ep. 64). Nel 1060 i legati Stefano cardinale di S. Crisogono e Ugo abate di Cluny presiedettero sinodi (rispettivamente a Tours e Vienne e ad Avignone e Tolosa) in cui furono riproposte le disposizioni del sinodo romano del 1059.
Alla fine del 1059 Niccolò II mandò i legati Pier Damiani e Anselmo da Baggio a Milano sconvolta dai conflitti suscitati dai patarini. Agendo con prudenza e senza assumere posizioni troppo rigide, essi riuscirono a far sottoscrivere all’arcivescovo una condanna di simonia e nicolaismo; dal clero ottennero una promessa di emendazione e dal popolo un impegno contro la corruzione ecclesiastica. Ma il maggior risultato fu il riconoscimento di fatto della superiorità della Chiesa romana sulle altre Chiese.
Al successivo sinodo di Roma nell’aprile 1060, l’arcivescovo Guido, nuovamente accusato dai patarini, ottenne l’appoggio del papa. Durante i lavori sinodali Benedetto X fu processato e privato degli ordini ecclesiastici, ma soprattutto si assunse una netta posizione contro i simoniaci, condannati e deposti, salvo chi fosse stato ordinato da un simoniaco senza essere a sua volta reo di pratiche simoniache.
Questi provvedimenti vennero poi probabilmente precisati nel sinodo Lateranense dell’aprile 1061, dove si ribadirono i punti essenziali del decreto sull’elezione papale (Gresser, 2006, pp. 51-56).
All’interno del Patrimonio di S. Pietro il pontefice rimaneggiò la geografia ecclesiastica sopprimendo una diocesi (Trevi) e unendone altre (Sezze, Priverno e Terracina) perché avessero basi economiche e demografiche sufficienti. Infine si preoccupò di crearsi dei punti di appoggio anche militari in Sabina assicurandosi castelli in posizione strategica importante (Roccantica e Montasola).
Non dimenticò la Chiesa di Firenze, di cui rimase vescovo e che amministrò tramite un gastaldo. Fu in città dal 7 novembre 1059 al 20 gennaio 1060 e vi tornò nell’estate del 1061. Nel 1060 confermò precedenti disposizioni a favore della vita comune del clero, provvide alla consacrazione di chiese da lui fatte riedificare e si occupò delle diocesi vicine.
Secondo una testimonianza di Pier Damiani (ep. 89) sul finire del pontificato sarebbe insorto un dissidio con l’Impero: un sinodo tedesco condannò Niccolò II e annullò i suoi deliberati. Restano oscuri i motivi, però Pier Damiani aggiunge che al legato inviato a corte, il cardinale Stefano di S. Crisogono, fu impedito di consegnare le lettere apostoliche di cui era latore (Hägermann, 2008, pp. 213-217).
Tornato a Firenze, Niccolò II vi morì in luglio: secondo autori tedeschi il 27 (Die Chroniken Bertholds, 2003, pp. 190, 390), mentre fonti italiane indicano il 20 e una il 19 (elenco in Annales Casinenses, 1934, p. 1417).
Fu forse sepolto in S. Reparata, presso l’altare di S. Zenobi.
Durante il pontificato di Niccolò II la cancelleria propose nuove formule e immagini per le arenghe dei privilegi, miranti a sottolineare la fondamentale funzione dell’autorità papale nella Chiesa: strumento di Dio per illuminare tutte le Chiese, per dare stabilità alle istituzioni ecclesiastiche, per correggere gli errori e unire le membra al capo.
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