LEONE XII, papa
Annibale della Genga Sermattei nacque a Monticelli di Genga, nel distretto e diocesi di Fabriano, il 22 ag. 1760. Figlio del conte Ilario e della contessa Maria Luigia Periberti, la cui famiglia era originaria di Matelica, apparteneva a un casato che da secoli aveva tratto i propri titoli di nobiltà dal feudo pontificio di Genga e da un castello sul quale si inalberava l'insegna di famiglia, un'aquila coronata d'oro in campo azzurro, che il futuro papa, in un bando del 1824, avrebbe arricchito di un nuovo particolare: una corona a tre punte. Col tempo i della Genga avevano preso a gravitare verso l'Umbria, facendo della zona di Spoleto il luogo abituale della loro dimora e il centro d'irradiazione dei loro interessi sociali ed economici.
Sesto di dieci figli, la stessa nascita e una tradizione familiare di presenza nel clero - destinata con lui a consolidarsi - predisponevano il della Genga alla carriera ecclesiastica; e infatti, educato a partire dai tredici anni nel collegio Campana di Osimo e passato a diciotto nel Collegio piceno di Roma, dopo aver conseguito tra il 1782 e il 1783 il suddiaconato e il diaconato, il 14 giugno 1783 fu ordinato sacerdote. Era questo solo il primo passo di una selezione che la condizione sociale del della Genga indirizzava fatalmente verso i gradi superiori della prelatura o della diplomazia; a ciò del resto lo preparava l'ingresso nella Pontificia Accademia dei nobili ecclesiastici, che egli avrebbe frequentato fino al 1790.
Fino ad allora si era messo in luce, oltre che per le doti intellettuali e per l'origine sociale, per certe qualità che, pur in un ambiente ovattato e presumibilmente sensibile alla trascendenza come quello della capitale del cattolicesimo, non erano passate inosservate: qualità come la solennità della figura, la fierezza del portamento, l'eleganza innata e la bellezza dei tratti fisici. A proposito di quest'ultima caratteristica Stendhal avrebbe insinuato un giorno che il della Genga non sempre aveva "saputo resistere alle seduzioni alle quali veniva esposto da questa sua qualità"; ed è certo che, soprattutto negli anni della giovinezza e della prima maturità, al tempo delle lunghe missioni diplomatiche in Germania e dei soggiorni all'estero, più e più volte l'ecclesiastico avrebbe dovuto lasciare che sul proprio conto si diffondessero voci anche molto pesanti che lo colpivano nella più coltivata delle proprie manie: il piacere della vita di società e delle conversazioni salottiere, nel corso delle quali i suoi modi aristocratici accentuavano agli occhi del pubblico presente, e a quanto sembra soprattutto di quello femminile più volte ricordato nella sua corrispondenza privata, il fascino di un personaggio che, come lui, non si privava mai del piacere di stimolarne curiosità e frivolezze. Un'altra passione, da lui perseguita con pari accanimento, era e sarebbe rimasta a lungo la caccia.
Al culmine degli anni della formazione giunse un segnale dell'attenzione con la quale a Roma si seguiva e favoriva la sua ascesa: nell'agosto del 1790 Pio VI in persona gli affidò l'incarico di pronunziare nella cappella Paolina del Quirinale l'orazione in morte dell'imperatore Giuseppe II, che tanti problemi aveva provocato alla Chiesa con il suo giurisdizionalismo. Pur costretto dall'intervento preventivo del papa a sfumare talune espressioni critiche del suo testo e a sorvolare su qualche passaggio particolarmente delicato, il della Genga non tradì le attese: fu compensato con un canonicato nella basilica di S. Pietro che gli dischiuse l'accesso in Curia, un passaggio importante per il completamento della sua preparazione e in funzione dell'ingresso in diplomazia. Ancora quattro anni, e il 21 febbr. 1794, con la nomina a prelato domestico e con la consacrazione ad arcivescovo di Tiro in partibus, sarebbe arrivata la designazione a titolare della nunziatura della Germania renana, con residenza a Colonia. L'antica e spinosa questione dei rapporti con la popolazione protestante e il non meno difficile problema del controllo su un episcopato quale quello tedesco assai geloso della propria indipendenza da Roma - il tutto sullo sfondo di un'epoca travagliata dai contraccolpi della Rivoluzione e, di lì a poco, dall'avanzata delle armate francesi - erano indubbi fattori di turbamento per la missione di un giovane diplomatico vissuto fino ad allora nell'atmosfera tranquilla e ben protetta della Santa Sede.
Dall'analisi di questa fondamentale esperienza, che si sarebbe protratta per otto anni, emergono alcuni elementi destinati a caratterizzare profondamente in futuro l'azione dell'uomo di Chiesa e finanche quella del pontefice. Tra quelli materiali sono ad esempio da sottolineare una certa fragilità fisica, una predisposizione alle pause valetudinarie, non escluse quelle dovute al logorio nervoso e a un senso di insufficienza provocato da un accumulo di tensione non facile da smaltire, e infine una tendenza a muoversi con una certa lentezza e a prendersela comoda negli spostamenti imprevisti, per i quali le esigenze del suo ufficio avrebbero piuttosto consigliato maggiore sollecitudine. Quanto all'azione dell'uomo di Chiesa, esplicata a contatto con la grave condizione del clero e dei vescovi tedeschi, si profilava invece nel della Genga una concezione di estremo rigorismo, di natura per la verità più politica che teologica, come quella che all'inizio del 1795 gli faceva intravedere nella secolarizzazione del patrimonio della Chiesa locale non un pericolo per la sopravvivenza della struttura ecclesiastica ma un'occasione per la correzione dei vizi che l'affliggevano: vizi quali l'attaccamento eccessivo ai beni terreni, la corruzione e il lassismo verso i fedeli, abbandonati a loro stessi dai loro presuli per una precisa scelta di disimpegno pastorale.
Un atteggiamento di così severo distacco, se generava qualche complicazione nei rapporti con l'episcopato e se non sempre era approvato a Roma da coloro che collegavano la sopravvivenza del cattolicesimo in Germania a una strenua difesa degli interessi materiali del clero locale, conferiva d'altra parte all'azione diplomatica del della Genga una più ampia libertà di manovra e una maggiore attenzione agli interessi generali della Chiesa rispetto a quelli particolari di un ceto ecclesiastico non proprio sensibile al problema dell'incremento della fede. Costretto a barcamenarsi di volta in volta nel conflitto tra Francia e Austria, il della Genga spingeva la propria spregiudicatezza fino a elaborare lo schema di un avvicinamento del Papato alla Russia ortodossa: più di tutto gli premeva di salvaguardare l'autonomia del pontefice al vertice di una Chiesa che auspicava unita e non condizionabile dall'esterno, e per ottenere tale risultato era disposto anche a favorire una variante rispetto alla tradizione che attribuiva alle potenze cattoliche la tutela degli affari politici della Santa Sede. D'altronde il mutare continuo delle situazioni e l'ampiezza stessa del territorio affidatogli (nel 1795 aveva dovuto gestire anche la nunziatura di Monaco e badare perfino alle questioni fiamminghe), mentre gli facevano desiderare una sede più tranquilla, lo costringevano a continue emergenze e a faticose trattative che la crisi del Papato temporale, messo in ginocchio dall'intervento francese in Italia, certamente non rendeva più facili.
Attestato su tale indirizzo, il della Genga faceva un po' parte a sé e, se anche cercava e otteneva il consenso dei gesuiti, non di rado incontrava l'opposizione di altri esponenti della Curia: taluni, come il cardinale Giovan Francesco Albani, risoluti a conservare l'antico legame con l'Austria, talaltri, come il segretario di Stato cardinale E. Consalvi, inclini a spingere la Chiesa verso scelte più propriamente politiche, capaci di garantire la sicurezza del potere temporale.
Se pur non pregiudizialmente ostile al rigorismo zelante, Consalvi era ben lungi dal caricare l'azione futura della Chiesa dello stesso significato restauratore e controrivoluzionario che intendeva conferirgli il della Genga, al quale, non a caso, il 6 dic. 1800 indirizzava la celebre lettera in cui enunziava la tesi dell'impossibilità di un ritorno puro e semplice al passato. Nelle sue parole l'idea della rivoluzione come diluvio che aveva cambiato il mondo costituiva la premessa per quel riformismo amministrativo cui si sarebbe ispirato all'indomani del congresso di Vienna e che certo non avrebbe avuto nel della Genga uno dei suoi più fervidi sostenitori.
Negli anni iniziali dell'epopea napoleonica il confronto tra i due si mantenne tuttavia su toni meno "ideologicamente" conflittuali e implicò, nel Consalvi, un'operosità e una concretezza che il della Genga non possedeva, troppo spesso insofferente ai disagi delle sue missioni, troppo incline a compensare la stanchezza della lontananza da Roma (e l'attesa sempre delusa di un avanzamento di carriera che credeva meritato) con il fasto dispendioso di una nunziatura presto oberata di debiti. Elementi, questi, che oscurano l'immagine di grande assertore del risveglio della spiritualità che qualche storico ha voluto cucirgli addosso e suggeriscono piuttosto l'esistenza nel della Genga di un carattere ora lamentoso, ora inconcludente, e comunque poco portato a concepire o favorire disegni di rinnovamento reale della Chiesa, in Germania come a Roma.
Ben poco gli capitò infatti di portare a termine dopo che ebbe rinunciato, alla fine del 1801, alla nunziatura. A nulla erano valse, in quella circostanza, le pressioni esercitate su di lui da Pio VII e da Consalvi per indurlo a restare. Stanco di promesse vaghe e mai mantenute, il della Genga respinse la proposta di una missione diplomatica a San Pietroburgo e di propria iniziativa tornò a Roma, risentito contro un segretario di Stato che aveva mostrato di non amarlo e che però lo teneva in serbo come esperto di problemi tedeschi. Quando lo utilizzò di nuovo, inviandolo a metà 1806 in Baviera per trattare, in una Germania ormai allo sfascio, un concordato che consolidasse i vincoli tra S. Sede e cattolici tedeschi, il della Genga dimostrò che nemmeno l'obiettivo di una limitazione severa delle temporalità, che tanto gli era stato a cuore in passato, gli interessava più: propose infatti un'ipotesi di concordato che assegnava rendite altissime alle sedi vescovili e riconosceva loro la piena facoltà di acquisto di beni che un tempo gli era parsa assai dannosa. Ma erano significativi anche altri punti del suo progetto, come la censura sui libri e il controllo dei vescovi sull'istruzione pubblica, su cui comunque, vista l'opposizione della controparte, il rappresentante pontificio dovette tornare con atteggiamento più moderato ma con risultati che, a dispetto della lunga permanenza sul posto (un anno), furono ugualmente negativi. Non ebbe miglior sorte il viaggio compiuto subito dopo a Parigi per convincere Napoleone ad aderire al progetto di una lega difensiva con Roma. Ripartito per l'Italia all'inizio del 1808 e appresa per strada la notizia dell'occupazione di Roma a opera delle truppe francesi, il della Genga deviò per la Germania e vi si trattenne per qualche tempo; quando tornò in Italia, nell'autunno del 1808, non lo fece che per rinchiudersi nell'abbazia di Monticelli, nei luoghi dove aveva trascorso l'infanzia.
Fu solo dopo la caduta di Napoleone, quando fu inviato a Parigi in qualità di rappresentante pontificio presso gli alleati e di nunzio straordinario in Francia, che il della Genga tornò sulla scena. Le istruzioni che si era fatto dare dal papa Pio VII a Cesena il 7 maggio 1814 contenevano richieste decisamente eccessive perché, oltre a reclamare la restituzione allo Stato pontificio dei territori perduti (tra i quali anche Avignone e il Contado Venassino), pretendevano anche che in Francia, cancellato il concordato del 1801, il restaurato Luigi XVIII restituisse alla religione il posto che le spettava, tutelandola da principî quali la libertà di culto e di stampa e dichiarandola "dominante nei domini francesi come lo era sotto gli antichi re" (La missione Consalvi…, I, p. 27). Su questa base, e nel parallelo vagheggiamento di un ritorno a istituti medievaleggianti che annullavano completamente le conquiste della Rivoluzione e anche quelle dell'età dei lumi in materia di rapporti Chiesa-Stato, si delineava un orientamento di stampo ultramontano che avrebbe creato gravi problemi innanzitutto alla Francia. L'intervento di Consalvi, però, tagliò le gambe al progetto: fornito di istruzioni datate 20 maggio 1814 e ispirate a maggior realismo e senso del limite, il segretario di Stato si precipitò a Parigi dove arrivò il 2 giugno, preceduto di soli quattro giorni dal della Genga, partito molto prima di lui e subito sollevato dall'incarico dopo un diverbio in cui, a quanto si disse, Consalvi gli rinfacciò di aver pregiudicato con i suoi ritardi gli interessi della Chiesa in un momento di grande delicatezza come quello della conclusione del trattato di pace.
Emarginato dalla scena sulla quale aveva sperato di avere un ruolo di primo piano, il della Genga trascorse a Parigi un altro brutto periodo, in una condizione che A. Omodeo ha descritto come di "torpore misto a disturbi di salute parte reali, parte immaginari" (p. 399). I piccoli ma incessanti attriti col Consalvi, la scarsa considerazione in cui questi lo teneva, l'attesa snervante di una nuova destinazione lasciatagli intravedere (si era parlato del suo invio al congresso di Vienna) ma mai formalizzata e alla fine rifiutata da lui stesso perché - sembra - poco remunerativa, lo riprecipitarono nei mali di cui soffriva da tempo e dai quali parve non potesse più risollevarsi. L'11 dicembre ricomparve a Roma: era "in uno stato da far compassione" (Pacca a Consalvi, 12 dic. 1814, in La missione Consalvi…, II, p. 354), prostrato nel fisico e nel morale dalla consapevolezza dei successi consalviani e dal temporaneo fallimento del proprio zelantismo. Avrebbe voluto imprimere alla Chiesa una linea aliena da ogni compromesso con i processi di secolarizzazione in atto: dovette rassegnarsi, invece, a veder sorgere sullo Stato pontificio un'epoca nel corso della quale gli aspetti burocratico-amministrativi di stampo riformistico sarebbero stati decisamente privilegiati rispetto allo sperato e per lui fondamentale ritorno a una religiosità pervasiva e a un disegno di riaffermazione (o riconquista) del primato del potere religioso su tutti gli altri poteri. Nella solitudine di Monticelli, in cui il della Genga si rifugiò di nuovo, poco lo consolò vedere come, dietro l'apparenza della riorganizzazione centralistica consalviana, lo Stato ecclesiastico permanesse sostanzialmente nell'arretratezza civile ed economica e assistesse invece alla rifioritura dello spirito sanfedistico.
A scuoterlo dalle sue meditazioni fu ancora una volta Pio VII, che lo elevò al cardinalato (8 marzo 1816) e lo destinò alla diocesi di Senigallia. Afflitto dalle sue croniche infermità, il neoporporato non raggiunse mai la sua sede vescovile e già a settembre annunziava la decisione di farsi da parte (ma dovette aspettare quasi due anni perché fosse designato il suo successore). Almeno in parte ristabilitosi, ebbe il titolo presbiteriale della basilica di S. Maria in Trastevere e assunse quindi le cariche di prefetto della congregazione dell'Immunità ecclesiastica (9 maggio 1820) e di cardinale vicario (12 maggio 1820), entrambe così rilevanti nella gerarchia di Curia da corroborare l'impressione che, lungi dall'essere sconfitto, l'intransigentismo zelante avesse ancora molto da dire nella vita della Chiesa. L'impronta che il della Genga si sforzò di dare alla propria attività ebbe infatti il significato inconfondibile del trasferimento, nel governo di Roma, di una concezione che le vicende pubbliche e quelle personali avevano reso anche più rigoristica che in passato. Ciò si verificò soprattutto attraverso l'esaltazione e il costante incremento delle funzioni e degli interventi della congregazione vicariale tramite la quale si esercitava la giurisdizione criminale: tali attribuzioni il cardinale le interpretò in termini di severissima sorveglianza sui costumi, di accentuato fervore persecutorio, di esemplare e rapido iter processuale, di inflessibile esecuzione delle condanne. Colpendo spietatamente e al riparo da ogni ombra di garantismo i delitti contro la morale (inosservanza delle feste, violazione del precetto, vagabondaggio, concubinato, prossenetismo ecc.), il della Genga inseguiva quella che è stata definita la sua "utopia punitiva" (Bonacchi, p. 198); il resto lo faceva risacralizzando la città e avvolgendola in una cappa di occasioni di culto quasi senza soluzione di continuità. Mentre si veniva logorando il modello consalviano, a Roma l'ossessiva presenza del sacro espiava gli anni "francesi" e con un lavacro di spiritualità, più imposta dall'alto che sinceramente sentita, purificava i luoghi profanati dalla Rivoluzione e preparava la rigenerazione dell'umanità.
Su tale scenario cadde la notizia della morte di Pio VII, avvenuta il 20 ag. 1823. Quando pochi giorni dopo si aprì il conclave, fu subito chiaro che si fronteggiavano due tendenze, la zelante e la politicante: fedele, la prima, al programma di risveglio spirituale, attestata, la seconda, sulla linea del riformismo del Consalvi. Se l'elezione fosse stata un affare esclusivo del Sacro Collegio, gli zelanti non avrebbero avuto difficoltà a imporre uno dei propri rappresentanti. Siccome, però, la designazione del nuovo pontefice costituiva da tempo anche un importante punto di convergenza degli interessi delle potenze cattoliche, il conclave si rivelò il luogo in cui si scontravano da una parte l'esigenza francese di avere un papa sicuramente ostile all'Austria e, se possibile, moderatamente riformatore, dall'altra la preoccupazione austriaca di portare al trono un candidato di sicura fede legittimistica, allineato sui principî della Santa Alleanza e come tale disposto anche a sacrificare parte dell'indipendenza della Chiesa. Questa contrapposizione, mentre confermava il ruolo d'interdizione del cosiddetto partito delle corti, minacciava di bloccare l'esito delle votazioni in uno stallo dal quale si sarebbe potuto uscire con un'unica soluzione: quella di un candidato di passaggio e con una non lunga prospettiva di vita, la cui elezione avrebbe consentito di prendere tempo in attesa che si risolvessero le diatribe delle potenze.
Il conclave dell'autunno del 1823 seguì appunto questo schema. I turni iniziali delle votazioni videro uno sterile testa a testa tra il cardinale A.G. Severoli, ex nunzio a Vienna, zelante ma poco gradito all'Austria (che infatti, memore del suo antigiuseppinismo, avrebbe più tardi posto il veto sul suo nome), e il cardinale F.S. Castiglioni, considerato un sostenitore del riformismo consalviano e gradito alla Francia anche per la sua natura incline alla moderazione. Nessuno dei due raggiunse il numero di voti che occorrevano per essere eletti, perché la forza di tutti gli schieramenti in campo stava nell'impedire l'elezione del candidato avverso ma non nel far vincere il proprio. Allorché fu chiaro che si doveva trovare un accordo su un altro nome, gli zelanti e il Severoli per primo proposero quello del della Genga, rimasto fino ad allora sullo sfondo quasi a ostentare la propria condizione di uomo molto autorevole - e dunque anche papabile - ma gravemente malato. Bastò che in seno al conclave circolasse la notizia della sua candidatura perché si trovassero i trentaquattro voti (uno più del minimo indispensabile) per eleggerlo, cosa che avvenne il 28 sett. 1823. Il nuovo papa scelse il nome di Leone XII, secondo una tradizione per riallacciarsi al precedente glorioso di Leone Magno, secondo altri per gratitudine verso Leone XI che, nei pochi giorni in cui era stato pontefice, nel 1605, aveva donato alla sua famiglia il feudo della Genga.
L'uomo che saliva sul soglio di Pietro apparteneva sicuramente alla corrente degli zelanti, della quale aveva condiviso e condivideva ancora il programma di austera ripresa della spiritualità. Non era però privo di personalità: poco noto al vasto pubblico della capitale, poco amato dalla popolazione che aveva sperimentato per tre anni la durezza dei suoi metodi di amministratore della giustizia e sentiva molto distante, godeva però di un sicuro prestigio negli ambienti ecclesiastici e diplomatici, nei salotti e nelle accademie, dove aveva spesso esibito lo spessore dei suoi interessi culturali e la rigidità della sua dirittura morale. È vero, come è stato sottolineato da R. Colapietra, che aveva nella sua biblioteca i testi dell'illuminismo europeo e le opere degli esponenti del razionalismo e del giusnaturalismo; ma, se anche li aveva letti, non se ne trova traccia - nel passato e meno ancora a partire dal 1823 - nelle manifestazioni del suo pensiero e nel suo operare pratico, dove è invece evidente l'influsso degli scrittori della Restaurazione e dell'apologia che pubblicisti come L.-G.-A. de Bonald, J. de Maistre e da ultimo F.-R. de Lamennais avevano fatto della teocrazia pontificia. Come zelante, non gli sarebbe certo dispiaciuto lavorare al risveglio religioso della società e realizzare l'ideale di una "Christianitas" presente in ogni angolo della vita umana, anche in quelli considerati ormai acquisiti alla società civile. Sebbene ve lo predisponesse la forma mentis e per quanto forte potesse essere il suo disgusto per l'indifferentismo religioso, L. XII non volle tuttavia essere il papa degli zelanti né volle caratterizzarsi come colui che, appena giunto al potere, aveva cancellato tutte le realizzazioni di Consalvi. Piuttosto, proprio in riferimento alla linea del segretario di Stato di Pio VII, che egli si era affrettato a licenziare subito dopo l'elezione sostituendolo con il cardinale G.M. della Somaglia, era apparso chiaro che, mettendosi al fianco un uomo di ottantaquattro anni, il nuovo papa era intenzionato a muoversi con la massima libertà e senza che la gerarchia intralciasse l'idea di Chiesa che era risoluto a portare avanti, con l'ambizione di essere eventualmente seguito e non di seguire.
Un altro segnale in questa direzione venne subito dopo, allorché L. XII confinò nell'inoperosità, fino a farla morire di morte naturale, la congregazione cardinalizia che con funzioni consultive (e anche di controllo sui suoi atti) gli era stata affiancata dai suoi elettori. Quanto a Consalvi, il fatto che poco dopo avere indossato la tiara L. XII si affrettasse a riceverlo, ne ascoltasse con deferente commozione il punto di vista sul futuro della Chiesa e gli attribuisse per giunta la prefettura di Propaganda Fide prova che per un momento il suo intransigentismo era stato intaccato e non era più visto come l'unico schema sul quale si sarebbe mosso il Papato. Si può dire perciò, che proposito iniziale del papa fosse quello di impostare senz'altro la propria azione futura su un risveglio spirituale della società - di tutta la società, e del popolo innanzitutto - recuperando però, o almeno tenendo presenti, alcune delle ragioni del riformismo consalviano. Punto d'incontro con l'antico segretario di Stato, cui non restavano che pochi mesi di vita (sarebbe morto il 24 genn. 1824), era stata l'idea della compatibilità dello zelantismo con il riformismo, in una visione che collegava la riuscita dell'azione spirituale di riscossa della Santa Sede a una sua migliore qualificazione sul piano dei rapporti internazionali (alla quale poteva essere funzionale il mantenimento della struttura centralizzata che Consalvi aveva cercato di dare allo Stato). Il problema era fondere questi due indirizzi in modo da renderli produttivi. Tutto il pontificato di L. XII sarebbe stato una lunga, faticosa e poco felice ricerca dell'asse di equilibrio tra due tendenze non facili da conciliare. Le due parti in cui esso si può dividere dimostrano infatti che, privilegiando nella prima gli aspetti dottrinali e costringendosi (o essendo costretti) nella seconda a una dimensione decisamente più burocratica, i sei anni del suo governo non soddisfecero alcuna delle grandi speranze da lui stesso probabilmente concepite all'esordio del pontificato. Per realizzare un piano del genere sarebbe occorsa ben altra duttilità, una virtù che a L. XII mancava del tutto: perfino lo storico papalino G. Spada gli avrebbe rinfacciato di aver voluto "prender tutto di fronte, con modi aspri e severi" (p. 729).
Fu, comunque, un esordio di insospettabile e imprevedibile energia. Il cardinale che aveva ricevuto varie volte il viatico e che, prescelto come papa, si era quasi schermito dicendo: "Avete eletto un cadavere" (Leflon, p. 678) si mise subito all'opera ritrovando dopo pochi mesi di regno la salute che molti avevano ritenuta compromessa (F.-A.-R. de Chateaubriand, ambasciatore di Francia a Roma nello scorcio finale del pontificato di L. XII, annoterà nei Mémoires… [V, p. 134] la reazione indispettita dei cardinali a questa ripresa: "Della Genga s'étant divisé de vivre, ils l'ont détesté cordialement pour cette tromperie"). Le prime uscite, dedicate come era consuetudine a gesti di pietà e alla visita di ospedali, monasteri e altri luoghi sacri, ebbero carattere edificante e furono l'accattivante premessa al programma di restaurazione religiosa della società che trovò presto il suo manifesto nell'enciclica Ubi primum del 5 maggio 1824. In questa L. XII individuava nelle teoriche rivoluzionarie, nel liberalismo e nello spirito di tolleranza l'origine dell'indifferentismo che affliggeva il mondo moderno; di qui il suo invito ai sovrani "a tradurre in norme coercitive le condanne papali", la sua esortazione a ricreare il clima morale dell'ancien régime, e l'appello successivo a Luigi XVIII, re di Francia, a promuovere un "nuovo ordine mondiale caratterizzato dal ricorso al papa e alla gerarchia per la definizione di questioni temporali" (Menozzi, p. 53). Era, questa, una linea assai delicata e non facilmente percorribile per via del nesso che era suscettibile di attivare con l'ultramontanismo. Chi in Francia l'accettò e la sostenne non fu dunque il potere civile che Roma pretendeva in tal modo di aiutare a consolidarsi, ma furono soprattutto alcuni settori dell'episcopato, qualche teologo e, più di tutti, Lamennais.
Con il pensiero di questo abate bretone L. XII era in quasi totale sintonia da quando egli aveva denunziato i mali dell'indifferentismo. All'inizio del pontificato girò la voce, e Lamennais ne fu lusingato, che potesse anche crearlo cardinale. Nel viaggio a Roma (1824), nell'udienza che in tale occasione gli concesse e, più tardi, nei contatti che furono mantenuti attraverso la nunziatura di Parigi (e nelle notizie che da più parti gli giungevano), L. XII ebbe la prova che l'oltranzismo di Lamennais, per quanto sincero e bene orientato, potesse accrescere le difficoltà della Chiesa accentuandone il distacco da una realtà secolare cui non ci si poteva accostare predicando la totale insufficienza della ragione umana, come appunto faceva Lamennais. Il papa era convinto che questa fosse in gran parte la strada giusta, ma non riteneva di dover esasperare i contrasti legittimando una dottrina che oltretutto stava assumendo, attraverso la costante esaltazione dei meriti del popolo, i contorni della democrazia, sia pure di una democrazia di stampo millenaristico. Perciò, fermo nel suo progetto di rilancio della funzione della Chiesa e di promozione della Santa Sede e della città che l'ospitava a centro d'irradiazione della suprema autorità morale, L. XII chiamò a sé altri collaboratori, ridando vigore al Giornale ecclesiasticodi Roma, che dall'inizio del 1825 si qualificava come organo della battaglia antigallicana e massimo veicolo della propaganda integralista tra i cattolici italiani ed europei. A guidarlo era un lamennaisiano, il teatino siciliano G. Ventura, che tra i collaboratori aveva l'abate empolese G. Marchetti: entrambi favoriti da L. XII, entrambi campioni del più coerente intransigentismo e assertori accaniti del primato papale, il primo anche docente di istituzioni di diritto ecclesiastico alla Sapienza, il secondo arcivescovo di Ancira, fervente polemista di grande esperienza, vicario apostolico a Rimini (1822) e da ultimo chiamato a Roma dal papa in persona per rafforzare la pattuglia dei redattori del Giornale ecclesiastico.
Furono soprattutto questi i teorici e insieme gli esecutori del progetto leoniano, un progetto che, ribadito nel 1825 con l'enciclica Quograviora, ebbe almeno altri due punti di forza nella costituzione Quod divina sapientia del 28 ag. 1824 e nella Super universam del 1° nov. 1824. Con la prima si riformava l'istruzione pubblica, in particolare quella universitaria, ponendola sotto il controllo di una congregazione degli Studi e accentrandone il funzionamento con grande rigidità e in assenza di ogni respiro culturale, in modo da "stendere una pesante cappa di indottrinamento su tutti i gradi del sistema scolastico" (Venzo, p. 185) ed educare la popolazione e soprattutto il futuro ceto dirigente al massimo conformismo (tra l'altro un peso importante era attribuito ai gesuiti, cui veniva riconsegnato il Collegio romano); con la seconda si riprendeva e portava a conclusione un piano di riforma della struttura delle parrocchie romane già elaborato al tempo di Pio VII con la partecipazione dell'allora cardinale della Genga, e qui l'obiettivo era quello di "adeguare l'assetto parrocchiale al ruolo di preminenza religiosa assegnato alla Chiesa di Roma, allo scopo di consolidare quest'ultimo e di riaffermarlo come una costante della prospettiva cattolica" (Rocciolo, p. 354).
La sanzione definitiva dell'avvenuta riedificazione di Roma come città santa e della sua piena proiezione ecumenica la si aveva con il giubileo del 1825, solennemente indetto da L. XII con la bolla Quod hoc ineunte saeculo del 24 maggio 1824 e celebrato a cinquant'anni dall'ultimo. Dopo un inizio abbastanza stentato, l'anno santo si rivelò un'iniziativa fortunata sotto il profilo dell'afflusso dei pellegrini, che riempirono la città mettendo a dura prova le strutture predisposte per l'accoglienza. Chi si era aspettato che anche dall'estero potesse arrivare una risposta positiva in termini di affluenza restò comunque deluso, in quanto sulle circa 95.000 presenze che si riscontrarono in città nell'anno santo gli stranieri registrati presso la Trinità dei Pellegrini non andarono oltre le 3400 unità, riducendo l'evento a qualcosa di essenzialmente italiano. È difficile dire, inoltre, quanto tutto ciò servisse di stimolo a una ripresa reale del sentimento religioso: è certo comunque che nel 1825 si fece di Roma un grande, unico spazio sacro, teatro di continue funzioni religiose, prediche, missioni (e Marchetti fu uno dei protagonisti più seguiti di tali celebrazioni). D'altro canto, le molte restrizioni in fatto di moralità pubblica e di divertimenti esasperarono la popolazione privandola dei consueti mezzi di sostentamento derivanti dal turismo; non mancarono, perciò, le contestazioni e le provocazioni di tipo settario, che diedero ragione a quanti, soprattutto tra i diplomatici stranieri, avevano criticato l'iniziativa al momento in cui la si era annunziata e si erano detti preoccupati per i disordini che ne sarebbero potuti scaturire. Per converso l'attivismo misticheggiante del papa e dei suoi collaboratori non aveva mancato di ridare fiato a una cultura decisamente reazionaria, capace con la propria intolleranza e col rifiuto di ogni mediazione di mettere in allarme anche le più conservatrici tra le cancellerie europee.
Anche per questo il malcontento che già prima serpeggiava nella parte settentrionale dello Stato pontificio, soprattutto nelle Legazioni e in Romagna, da quando L. XII era stato fatto papa era andato crescendo. Le vessazioni del malgoverno, il non brillante andamento economico-finanziario dell'amministrazione pontificia e più di tutto il ruolo privilegiato che la città di Roma si era visto riconoscere all'interno del disegno papale avevano rappresentato un ottimo catalizzatore per la diffusione in provincia dello spirito settario, contrastato dalle autorità con misure unicamente poliziesche che avevano più l'effetto di accelerarne l'espressione che di eliminarlo. Alcuni dei primi provvedimenti presi in materia finanziaria da L. XII, come il "superficiale e precipitoso alleviamento fiscale" (La politica economica della Restaurazione romana, a cura di R. Colapietra, Napoli 1966, p. XLIX) deciso con l'editto del 4 ott. 1823 o come il velleitario sostegno che si pensò di offrire all'economia dello Stato, riguardando prevalentemente i ceti possidenti e la nobiltà non favorirono lo sviluppo e non ebbero carattere strutturale, tanto da provocare le critiche o la freddezza della stessa classe dirigente pontificia. Ne risultarono aggravate le condizioni di abbandono delle popolazioni tra le quali si radicarono più facilmente il brigantaggio, stroncato senza pietà tra la Ciociaria e il mare, e lo spirito sovversivo, peraltro già forte nel settentrione. Allo stillicidio di congiure e attentati L. XII rispose inviando nelle Legazioni il cardinale A. Rivarola, uno zelante, che alla testa di una commissione dotata di amplissimi poteri scatenò una dura repressione giudiziaria - facilitata da delazioni e promesse di impunità - che si concluse il 31 ag. 1825 con una sentenza che colpiva più di cinquecento imputati. L'onda lunga della violenza arrivava poi anche a Roma, dove nell'anno del giubileo due cospiratori, A. Targhini e L. Montanari, venivano arrestati per il ferimento di una spia, condannati a morte dopo un processo sommario e decapitati in piazza del Popolo il 23 nov. 1825. Anche la Romagna non avrebbe tardato ad avere le sue condanne a morte, puntualmente eseguite.
L'esemplarità delle pene e la loro spettacolarizzazione non erano fatte per avvicinare a L. XII la gente comune, che imparava così a temerlo ben più che ad amarlo. Un sentimento del genere aveva preso a diffondersi, sia pure con altre motivazioni, nella gerarchia ecclesiastica e nel Sacro Collegio, dove si annidava un senso di frustrazione che, tra gli zelanti, traeva origine da una politica papale giudicata troppo personale, e che si alimentava trasversalmente dell'insoddisfazione con cui era accolto un orientamento che, come ha dimostrato Ph. Boutry, in fatto di nomine e promozioni tendeva ad esempio a privilegiare l'alto clero originario delle regioni cui il papa era più legato - Umbria e Marche - penalizzando quello romano e quello, in passato assai influente, del basso Lazio. Se l'intento di partenza era lodevole perché mirava a ringiovanire l'episcopato, favorire la carriera diplomatica di monsignor G.M. Mastai Ferretti (il futuro Pio IX) o conferire la porpora ai marchigiani T. Bernetti e G.G.A. Benvenuti, minacciava di alterare però gli equilibri su cui si reggeva tradizionalmente il governo della Chiesa.
Qui stavano le ragioni di quello che sarà il fallimento del progetto teocratico e antimoderno di L. XII, qui e nella diffidenza degli Stati stranieri, per i quali l'ultramontanismo di fondo della concezione del pontefice non costituiva di certo una garanzia per un esercizio libero della sovranità, quali che fossero le ragioni di politica interna che potevano consigliare ai regnanti l'accordo con il potere religioso. Per non parlare, poi, della mancata risposta dell'opinione pubblica, specialmente di quella romana, con la quale non si era mai realizzata la saldatura ideale indispensabile per dare corpo alle utopie leoniane, che pochi avevano condiviso e pochissimi avevano avuto il coraggio di sostenere apertamente. Così il 1825, che di tali utopie avrebbe dovuto celebrare il trionfo, rimase nella memoria collettiva dei Romani come l'anno che, già prima che il giubileo avesse inizio, aveva scatenato la fervida fantasia del direttore generale di polizia, monsignor T. Bernetti, e del cardinale vicario P. Zurla nel perseguimento di una perfetta sterilizzazione della città e del suo ordine pubblico. Ed erano venuti i provvedimenti che avevano cancellato tutte le feste popolari, e l'editto che aveva limitato l'attività dei teatri e sottoposto a rigido controllo gli spettacoli, e quello che il 18 ag. 1825 aveva regolato con pari severità la produzione e la circolazione dei libri e dei periodici, e l'altro, il più impopolare di tutti, che il 31 marzo 1824 aveva disciplinato l'accesso alle osterie con i famosi "cancelletti", poi sbeffeggiati da G.G. Belli in uno dei tanti sonetti (I sonetti, a cura di M.T. Lanza, Milano 1965, n. 152) da lui dedicati con toni del tutto irriverenti a questo papa di cui era fatale si ignorassero le buone intenzioni e si ricordassero solo il fanatismo misoneista (simboleggiato dal boicottaggio alla vaccinazione antivaiolosa), il ripristino di fidecommessi e maggioraschi, la soppressione dei tribunali collegiali, il conferimento di ogni autorità alle congregazioni ecclesiastiche, il sostegno dato a corporazioni e confraternite religiose. In questo quadro avente come cornice l'esaltazione del potere e del magistero papale rientrava anche il rilancio delle mai sopite persecuzioni antiebraiche, con conseguente ampliamento del ghetto romano, successiva sua chiusura con obbligo di trasferimento al suo interno delle attività commerciali precedentemente svolte in città e censimento finale di tutte le botteghe gestite dagli ebrei.
Dal 1826 aveva quindi inizio il ripensamento della politica di Leone XII. Rientrati tutti i propositi di fare del Papato il centro di gravità spirituale del mondo ed emarginati i personaggi come Marchetti e Ventura, ci si orientava, probabilmente su pressione del cancelliere austriaco Metternich (che per un equivoco, come racconta egli stesso, per poco non era stato fatto cardinale), verso un più modesto tentativo di rimettere ordine nelle strutture temporali dello Stato. Si creavano così alcune congregazioni e commissioni, alla ricerca di un'efficienza che non sarebbe mai arrivata per via dell'adozione di un centralismo che era molto burocratico e poco funzionale e che aveva i maggiori limiti nel suo carattere autoctono, così come quello consalviano aveva avuto i suoi pregi nel richiamo - per quanto cauto - alla cultura amministrativa francese. E comunque una congregazione della Vigilanza, istituita il 27 febbr. 1826, ebbe il compito di intervenire sulla pubblica amministrazione per regolarne il lavoro e reprimerne gli abusi, mentre il 27 dic. 1827 un motu proprio avviava l'impianto della Direzione generale delle dogane e del dazio di consumo, pensata per frenare il contrabbando e incrementare le entrate. Più tardi, il 21 dic. 1828, sarebbe nata la congregazione di Revisione dei conti, destinata a sottoporre a controllo i disastrati bilanci preventivi e consuntivi della Reverenda Camera apostolica e di tutti gli altri uffici pubblici. A quell'epoca il segretario di Stato della Somaglia aveva da sei mesi lasciato il posto al più giovane, e più pratico di cose mondane, cardinale Bernetti.
Il terreno sul quale il papato di L. XII ottenne i risultati più qualificanti fu però quello dell'assistenza e della carità pubblica, o della beneficenza, come si diceva - con un termine che ricordava il precedente napoleonico - nel testo del motu proprio che il 16 dic. 1826 istituiva la Commissione dei sussidi allo scopo di distribuire gli aiuti alla popolazione indigente ed eliminare mendicità e vagabondaggio. Fare dei poveri la principale risorsa della Chiesa era il vero obiettivo di questa politica che, a differenza di quella francese cui è stata da taluno accostata, non si limitava a curare l'emergenza ma, preoccupandosi solo di disciplinarla e alleviarla, la rendeva strutturale e ne faceva un punto essenziale del dirigismo economico papale, capace di esprimersi anche attraverso altre misure quali il contenimento degli affitti e il blocco degli sfratti prese in prossimità del giubileo, queste ultime norme restarono a lungo nella legislazione pontificia, con disappunto dei pochi liberisti presenti allora nello Stato.
La maggiore novità portata dal deciso cambiamento di rotta del 1826 fu tuttavia quella che ebbe a registrarsi in politica estera e nelle relazioni della Chiesa, dentro e fuori d'Europa. Il ripiegamento sul programma minimo da parte di L. XII aprì la strada a una convergenza d'interessi con le potenze che, com'era già avvenuto in passato, comportò un più franco e diretto coinvolgimento della Santa Sede in una politica che generalmente fu di appoggio alle tendenze controrivoluzionarie allora in atto e che quasi ovunque produsse, in Oriente come in Occidente, nell'Europa cattolica come in quella protestante, una condizione più favorevole all'esercizio del culto. Tramontata l'ipotesi antigallicana, con la Francia furono adoperati toni più concilianti, nella convinzione - disse il papa a un diplomatico francese - "que la paix de l'Église ne pouvait se conserver qu'avec ce système de modération et de réserve" (Maturi, p. 221); con i Paesi Bassi fu concluso nel 1827 un concordato che in qualche modo affievoliva gli attriti determinati dalla dominazione che quel Regno esercitava sul Belgio cattolico; con la Spagna, dopo avere esortato con la bolla Etsi iam diu del 27 sett. 1824 i cattolici del Sudamerica alla fedeltà al re, una volta che le colonie ebbero raggiunta l'indipendenza si trovò un modus vivendi che consentì alla Chiesa di provvedere autonomamente a una gerarchia ecclesiastica con la nomina di due arcivescovi e di cinque vescovi in Colombia e Brasile (1827); con l'Inghilterra, infine, si riuscì a ottenere che la lotta condotta negli anni precedenti dall'irlandese D. O'Connell sfociasse, tra il marzo e l'aprile del 1829, nel voto dato dal Parlamento britannico all'atto di emancipazione dei cattolici.
L. XII morì in Vaticano il 10 febbr. 1829: cinque giorni dopo, compiute le solenni cerimonie di rito, fu seppellito in S. Pietro. Prima del trapasso aveva chiesto che la sua bara fosse tumulata nella cripta dell'altare di S. Leone Magno, il che avvenne il 5 dic. 1830.
Ricevuto in udienza nell'ottobre 1828, Chateaubriand, che dal papa avrebbe ereditato un grosso gatto, lo aveva trovato sereno, malgrado dai lineamenti smunti trasparisse la sofferenza che presto lo avrebbe condotto alla tomba e che tuttavia non gli impediva di praticare un simulacro di caccia sparando qualche colpo di fucile nei giardini del Vaticano; ma la "joie chrétienne" (Mémoires…, V, pp. 22 s.) che egli aveva creduto di intravedere allora nella sua rassegnazione era probabilmente stata offuscata dalla coscienza del fallimento cui, nel "penoso isolamento" rilevato da un esponente della gerarchia (Lambruschini, p. 21), era andato incontro il suo sogno di una grande e integrale restaurazione spirituale del mondo cristiano. Il diplomatico francese avrebbe anche alluso, più tardi, alla sorta di "damnatio memoriae" che al papa appena defunto era stata riservata dai religiosi non meno che dai laici; e anche su questo esito finale il Belli avrebbe dato voce all'incredulità del popolino, convinto in passato di avere avuto in lui un papa di spiccata personalità intellettuale e costretto poi, anche per la delusione di una morte sopraggiunta a sospendere i festeggiamenti del carnevale, ad accettare l'idea che la morte potesse averlo trasformato in "un zomaro, un vorpone, un cazzomatto" (sonetto n. 482, Papa Leone). Un'opinione, questa, che anche il suo successore, Pio VIII, cancellando nei pochi mesi del suo regno gran parte della pletorica legislazione introdotta da L. XII, avrebbe in qualche modo, e con tutto il rispetto, dato l'impressione di condividere.
Fonti e Bibl.: L'archivio della famiglia della Genga, conservato presso i discendenti a Spoleto, è stato utilizzato da R. Colapietra per i due ben documentati studi da lui dedicati alla figura del cardinale e poi pontefice, intitolati rispettivamente La Chiesa tra Lamennais e Metternich. Il pontificato di L. XII, Brescia 1963 (a p. 149 n. 38, si accenna all'archivio della famiglia) e La formazione diplomatica di L. XII, Roma 1966. In precedenza era disponibile il lavoro di J.-A.-F. Artaud de Montor, Histoire du pape Léon XII, I-II, Paris 1843 (ed. italiana, I-III, Milano 1843-44), cui si accompagnavano altri medaglioni minori quali quelli disegnati, in ambiente cattolico e con intento apologetico, da G. Baraldi, L. duodecimo e Pio ottavo, Modena 1829, da G. Moroni, Diz. d'erudizione storico-ecclesiastica, XXXVIII, Venezia 1846, pp. 50-83, e da N. Wiseman, Rimembranze degli ultimi quattro papi, Milano 1858; abbastanza critico G. Spada, Storia della rivoluzione di Roma e della restaurazione del governo pontificio dal 1° giugno 1846 al 15 luglio 1849, III, Firenze 1869, pp. 729-732. Risalivano al filone anticlericale i ritratti lasciatici da A. Gavazzi, My recollections of the last four popes, and of Rome in their times. An answer to Dr. Wiseman…, London 1858, pp. 79-167, e da E. About, Storia arcana del pontificato di L. XII, Gregorio XVI e Pio IX…, Milano 1861, pp. 1-35; il punto di vista liberale era rappresentato da L.C. Farini, Lo Stato romano dall'anno 1815 al 1850, I, Firenze 1853, pp. 16-25, e da D. Silvagni, La corte pontificia e la società romana, I-IV, Roma 1971, ad indicem. In seguito la ricerca ha offerto sul personaggio ricostruzioni più ampie o più specifiche, utilizzando le fonti nel frattempo pubblicate: essenziali, tra queste ultime, le fonti diplomatiche e memorialistiche ove spiccano Mémoires documents et écrits diverses laissés par le prince Metternich, a cura di R. de Metternich, IV, Paris 1881, pp. 180 s.; F.A.R. de Chateaubriand, Mémoires d'outre-tombe, a cura di E. Biré, I-VI, Paris s.d., ad ind.; L. Lambruschini, La mia nunziatura di Francia, a cura di P. Pirri, Bologna 1960, pp. 6-160; R. Colapietra, Ildiario Brunelli del conclave del 1823, in Arch. stor. italiano, CXX (1962), pp. 75-146; La missione Consalvi e il congresso di Vienna, I-III, a cura di A. Roveri - M. Fatica - F. Cantù, Roma 1970-73, ad indices; Stendhal [H. de Beyle], Passeggiate romane, con prefaz. di A. Moravia, Roma-Bari 1991, ad indicem. Su tale documentazione si sono basati i successivi lavori che in genere hanno collocato il personaggio di L. XII nel quadro più ampio della storia della Chiesa. Tra i principali si ricordano: U. Oxilia, Tre conclavi, in Atti della Soc. economica di Chiavari, XI (1933), pp. 85-97; L. von Pastor, Storia dei papi dalla fine del Medio Evo, XVI, 3, Roma 1933, pp. 248, 425; J. Schmidlin, Papstgeschichte der neuesten Zeit, I, München 1933, pp. 367-473; E. Vercesi, Tre pontificati. L. XII - Pio VIII - Gregorio XVI, Torino 1936, pp. 19-114; W. Maturi, Il principe di Canosa, Firenze 1944, ad ind.; S. Fontana, La controrivoluzione cattolica in Italia (1820-1830), Brescia 1968, ad ind.; G. Manni, La polemica cattolica nel Ducato di Modena (1815-1861), Modena 1968, ad ind.; A. Omodeo, Studi sull'età della Restaurazione, Torino 1970, ad ind.; G. Pignatelli, Aspetti della propaganda cattolica a Roma da Pio VI a L. XII, Roma 1974, ad ind.; A. Roveri, La S. Sede tra Rivoluzione francese e Restaurazione. Il cardinal Consalvi 1813-1815, Firenze 1974, ad ind.; J. Leflon, in Storia della Chiesa, a cura di A. Fliche - V. Martin, XX, 2, Torino 1975, pp. 671-740; C. Falconi, Il giovane Mastai. Il futuro Pio IX dall'infanzia a Senigallia alla Roma della Restaurazione (1792-1827), Milano 1981, ad ind.; F. Bartoccini, Roma nell'Ottocento, Bologna 1985, ad ind.; D. Menozzi, La Chiesa cattolica e la secolarizzazione, Torino 1993, ad ind.; G. Bonacchi, Legge e peccato. Anime, corpi, giustizia alla corte dei papi, Bari 1995, pp. 198-226; G. Martina, Storia della Chiesa da Lutero ai nostri giorni, III, Brescia 1995, ad ind.; Histoire du Christianisme des origines à nos jours, a cura di J.M. Mayeur et al., X, Paris 1997, ad indicem. Un'analisi molto articolata del riformismo di L. XII si ha nel volume dell'Arch. di Stato di Roma, Roma fra la Restaurazione e l'elezione di Pio IX. Amministrazione, economia, società e cultura, a cura di A.L. Bonella - A. Pompeo - M.I. Venzo, Roma-Freiburg i.B.-Wien 1997, ad ind.: comprende i contributi di D. Rocciolo (La riforma delle parrocchie tra Pio VII e L. XII, pp. 349-372), Ph. Boutry (Les silencieuses mutations de la prélature romaine, pp. 33-54) e M.I. Venzo (La congregazione degli Studi e l'istruzione pubblica, pp. 179-190) citati nel testo.
Tra i repertori si vedano V. Spreti, Enc. storico-nobiliare italiana, IV, s.v.; Diz. del Risorgimento nazionale, III, s.v.; Enc. cattolica, VII, s.v.; Hierarchia catholica, VII, ad ind.; Diz. stor. del Papato, a cura di Ph. Levillain, II, Milano 1996, pp. 858-862.