INNOCENZO IX, papa
Giovanni Antonio Facchinetti nacque a Bologna il 20 luglio 1519 da una famiglia di origine ossolana, i Nocetti o della Noce. Il padre, Antonio, proveniva da Cravegna (valle di Antigorio nell'alta Val d'Ossola), nella diocesi di Novara, così come la madre, Francesca Cini, originaria della confinante località di Croveo (parrocchia di Baceno).
Secondo P. Litta, l'arrivo a Bologna di Antonio risalirebbe al 1514, appena cinque anni prima della nascita del Facchinetti. Dalla secondogenita, Antonia, sposata con Antonio Titta di Trento, ebbe origine la discendenza dei nipoti e pronipoti del futuro papa, in seguito adottati con il cognome Facchinetti. Fin dall'arrivo a Bologna, Antonio fu in relazione con la famiglia senatoria dei Lambertini.
Il Facchinetti non mancò di ricordare in vari modi l'origine ossolana e il nome della casata, soprattutto nello stemma, che rappresenta un albero di noce in campo d'argento. Inoltre nel 1547 ottenne un canonicato nella chiesa dei Ss. Gervasio e Protasio di Domodossola e da pontefice tenne come suo cappellano Giovanni Pietro di Varzo; restò in contatto con altri ossolani e lasciò un'eredità alla chiesa di Cravegna con l'obbligo di creare un collegio a Bologna per i giovani della valle di Antigorio. La rivendicazione dell'origine ossolana della famiglia Facchinetti avanzata da L. Pellanda nel 1953 si accorda con quanto riportato da quasi tutte le biografie, dal XVII al XIX secolo, ma si giustifica per la circostanza che varie opere della prima metà del Novecento hanno invece dato credito, sulla base di un articolo di L. Bergamaschi del 1906, a un'origine veronese della famiglia derivante dalla confusione di Novara con Nogara e da un fraintendimento del testo del rapporto degli ambasciatori del duca di Mantova che, al momento dell'elezione del Facchinetti al pontificato, annunziavano in patria che il nuovo papa era loro "vicino".
Malgrado l'umile condizione della famiglia, il Facchinetti ebbe la possibilità di dedicarsi a studi letterari, filosofici e soprattutto giuridici, conseguendo il dottorato in utroque iure l'11 marzo 1544. Ricevuta l'ordinazione sacerdotale prima della laurea, nei mesi successivi si trasferì a Roma al servizio del cardinale Niccolò Ardinghelli, segretario di Paolo III. Morto Ardinghelli (1547), il Facchinetti entrò nella "famiglia" di Alessandro Farnese, che lo inviò ad Avignone, dove il cardinale era legato e arcivescovo, come suo vicario e amministratore diocesano e dove restò per quattro anni. Il Facchinetti continuò il servizio per A. Farnese a Roma (l'8 luglio 1556 inviò una relazione sulle tensioni tra la Spagna e la S. Sede sul confine napoletano), a Firenze e a Parma, dove si distinse come governatore soprattutto nel difficile periodo della guerra contro gli Estensi (1558). Tornato a Roma, fu nominato da Paolo IV referendario utriusque signaturae nel 1559 e ricoprì il ruolo di abbreviatore delle lettere apostoliche. Il 26 genn. 1560 Pio IV gli affidò la diocesi di Nicastro, anche se un documento del 6 luglio 1559 (segnalato da B. Katterbach) farebbe risalire la nomina all'anno precedente. Primo vescovo dopo trent'anni a risiedere a Nicastro, il Facchinetti lasciò la diocesi per recarsi al concilio di Trento, dove giunse al più tardi l'8 ott. 1562 restandovi fino alla chiusura, nel 1563.
Il Facchinetti svolse un ruolo di primo piano in varie occasioni, schierandosi insieme ad altri canonisti "zelanti" - come Giambattista Castagna, Gabriele Paleotti e Ugo Boncompagni - in difesa delle tesi filopapali propugnate dal legato pontificio cardinale Ludovico Simonetta, ad esempio riguardo al potere giurisdizionale dei vescovi sulla loro diocesi e all'obbligo della residenza dei vescovi stessi. In questo caso il 10 genn. 1563 il Facchinetti prese una posizione più sfumata, espressa insieme con G. Paleotti, in un progetto di compromesso che si asteneva dalla valutazione sulla questione della derivazione di tale obbligo dal diritto divino o da quello canonico, concetto respinto dagli zelanti. Il Facchinetti difese senza riserve il primato pontificio ancora nel 1563, quando svolse un ruolo importante nella commissione sugli abusi del sacramento dell'ordine e in quella sulla revisione della riforma.
Durante l'esperienza tridentina il Facchinetti rinsaldò i legami di amicizia personale con prelati che avranno un ruolo importante in Curia. Del concilio il Facchinetti fu anche un importante testimone, come rivela il suo carteggio con A. Farnese. Da tale corrispondenza si evince anche la sua non florida condizione economica: spesso protestava con il Farnese per i ritardi nell'invio del sussidio per il suo mantenimento a Trento. Tornato alla diocesi di Nicastro riprese ad applicarsi alla cura pastorale con grande disciplina, esercitando con successo la predicazione, compiendo la visita diocesana, ammettendo nuovi ordini religiosi (frati minori conventuali, carmelitani) e instaurando buoni rapporti con i vescovi calabresi, come il cardinale Guglielmo Sirleto, al quale chiese copie di vari libri, a dimostrazione della prosecuzione della sua attività di studio anche durante l'ufficio pastorale. È forse di questo periodo o del precedente soggiorno a Trento un trattatello di diritto canonico indirizzato a Carlo Borromeo, De causis quae tractari debent in curia et de quibus ordinari cognoscere possunt (in Biblioteca apost. Vaticana, Borg. lat., 61, cc. 161-174v).
Nel 1566 il nuovo pontefice, Pio V, nominò il Facchinetti nunzio pontificio a Venezia (brevi del 13 e del 22 marzo) in sostituzione di Pietro Antonio Di Capua, e gli concesse una sovvenzione di 300 scudi. Presentandolo all'ambasciatore veneziano Paolo Tiepolo, il pontefice espresse grande apprezzamento per la sua attività vescovile. La nunziatura veneziana si rivelò esperienza piena di difficoltà e non esente da qualche amarezza, a parte l'esaltante periodo della Lega santa e della vittoria cristiana a Lepanto (7 ott. 1571). I compiti affidati al Facchinetti riguardavano soprattutto il rispetto delle norme tridentine, con particolare attenzione alla riforma del clero e al risanamento morale dei monasteri femminili, al buon funzionamento del S. Uffizio e alla salvaguardia dell'immunità ecclesiastica. Secondo H. Jedin la figura del Facchinetti mostra esemplarmente la trasformazione del ruolo del nunzio da rappresentante del papa a promotore della riforma tridentina. L'applicazione della riforma (concili provinciali, costumi del clero) fu seguita dal Facchinetti in particolare sul tema della residenza del clero, sul quale nel luglio 1568 pubblicò la bolla di Pio V. Malgrado queste premesse, l'azione intransigente del nunzio si scontrò con l'autorità veneziana sull'immunità ecclesiastica, sulla giurisdizione temporale del papa su Ceneda e sulla reticenza veneziana a condannare gli eretici nell'Inquisizione, soprattutto se stranieri e di elevata condizione sociale.
Più morbida fu la posizione del Facchinetti riguardo alle proteste dei librai veneziani contro il monopolio delle edizioni del catechismo tridentino, del breviario e del messale, riservato dal papa ai tipografi romani. Secondo il Facchinetti l'imposizione del monopolio (misura per lui di mero carattere economico) avrebbe sfavorito il ben più importante e sostanziale controllo inquisitoriale sul contenuto dei libri. Sulla questione egli quindi era incline alla tolleranza e consigliò Roma a muoversi con prudenza senza danneggiare il commercio librario, denunciando invece i molteplici sotterfugi per introdurre affermazioni eretiche nelle edizioni veneziane. Nel 1568 il Facchinetti fu incaricato da Pio V di provvedere di libri la biblioteca del convento domenicano di S. Croce di Bosco Marengo. Egli inviò a Roma alcune liste (alle quali avrebbe contribuito lo stampatore veneziano Giovanni Maria Giunta) che si rivelano sorprendentemente ricche di libri proibiti, in particolare di stampatori di Basilea. Anche se è probabile che il Facchinetti non conoscesse bene tutte le opere incluse, si può supporre, come osserva U. Rozzo, che in quegli anni vi fosse una tolleranza verso libri non ortodossi e stranieri anche tra prelati di alto rango e che tale atteggiamento fosse necessario se si voleva organizzare una buona biblioteca.
Sui temi giurisdizionali i conflitti con la Serenissima raggiunsero l'acme nel 1568, in occasione dell'emanazione della bolla In coena Domini con un incidente diplomatico che sarebbe costato al Facchinetti il richiamo da parte del pontefice se non fosse intervenuto in suo favore il cardinale Gianfrancesco Gambara, cui il Facchinetti aveva fatto in precedenza dei favori. Quando la minaccia turca si fece tanto impellente da consigliare Venezia al compromesso, il Facchinetti ebbe occasione di mettersi in buona luce: appoggiandosi ai senatori filopapali contro i "giovani" come Nicolò Da Ponte e Leonardo Donà, il Facchinetti si adoperò per impedire accordi particolari tra il Turco e la Serenissima e per inserire Venezia nel concerto degli Stati cattolici. Il Facchinetti dovette muoversi accortamente per evitare contrasti tra Spagnoli e Veneziani, mentre i Turchi premevano in Dalmazia al punto che egli chiese di reclutare soldati per Venezia anche nello Stato pontificio. Malgrado la freddezza dei Veneziani, il Facchinetti riuscì a far concludere l'accordo e a convincere Pio V a concedere dei benefici alla Serenissima. Il suo successo raggiunse l'apice con la vittoria di Lepanto, che tuttavia illuse il rappresentante pontificio. Muovendo da uno spirito di crociata, nel contesto di un papato aggressivo come quello di Pio V, il Facchinetti sognava che la Lega si trasformasse in un fronte stabile antiprotestante sotto l'egida pontificia. Questa posizione intransigente, mantenuta anche con il nuovo papa, Gregorio XIII, gli impedì di cogliere la realtà veneziana nei mesi successivi alla vittoria, nel momento in cui l'entusiasmo si era raffreddato e la Serenissima si allontanava dalla Spagna. Quando Venezia decise di stringere la pace separata con il Turco (7 marzo 1573), la notizia creò sorpresa, sconcerto e sdegno a Roma e costò al Facchinetti un rimprovero da parte di Tolomeo Galli, segretario del nuovo papa. Le informazioni fornite dal Facchinetti nel periodo 1571-73 non avevano reso al papa la reale immagine della situazione. Troppo tardi il Facchinetti spiegò al pontefice che per mantenere buoni rapporti con la Serenissima occorreva staccarsi dall'abbraccio con Filippo II per evitare che l'antispagnolismo si trasformasse in antipapalismo. Ma Gregorio non percorse questa strada e sostituì il Facchinetti con Giambattista Castagna.
Conclusa con qualche amarezza l'esperienza veneziana, nel 1574 il Facchinetti era di nuovo a Nicastro, dove si adoperò per promuovere il rispetto dei decreti tridentini e per procedere contro i vescovi ortodossi "vagabondi". Fu anche incaricato di organizzare l'arrivo dei gesuiti. Ammalatosi, rinunciò alla diocesi e tornò a Roma, portandosi un ricordo positivo della sua esperienza pastorale in Calabria e ricevendo una pensione di 400 scudi. Il 14 dic. 1576 fu nominato patriarca di Gerusalemme e riprese la sua attività curiale presso l'Inquisizione e la Consulta. Gregorio XIII, dopo l'incidente veneziano, tornò a riporre molta fiducia in lui e gli affidò incarichi nella Segnatura. Il 12 dic. 1583 lo nominò cardinale del titolo dei Ss. Quattro Coronati, nella medesima promozione di Giambattista Castagna e Niccolò Sfondrati (futuri Urbano VII e Gregorio XIV). In qualità di cardinale, il Facchinetti divenne membro degli organismi di Curia presso i quali aveva prestato attività: S. Uffizio, S. Consulta e Segnatura. Con Sisto V il Facchinetti dovette abbandonare la Segnatura e spostarsi alla congregazione dei Vescovi e regolari. Entrò anche in una commissione di cinque cardinali incaricata di decidere se togliere la censura a Enrico III dopo l'uccisione del cardinale di Guisa, ma l'assassinio di Enrico rese superflua la commissione stessa.
Intanto, per la stima di cui godeva presso Sisto V, il Facchinetti poteva giocare in Curia un importante ruolo di protezione degli interessi di Bologna. Per questo motivo le autorità felsinee favorirono la fulminante ascesa sociale della famiglia, accettando anche che il nipote Cesare prendesse in Senato il posto spettante a un'altra famiglia. Il Facchinetti ripagò queste attenzioni raccomandando ai legati inviati a Bologna le giuste misure per una buona amministrazione in accordo con l'oligarchia e restando in costante contatto con gli ambasciatori bolognesi a Roma. La sua posizione di protettore del Tribunale della concordia gli consentì di nominarne i membri. Inoltre intervenne per moderare le controversie, anche se non riuscì a stabilire le capitolazioni della sua città con Roma durante il pontificato sistino. Nel 1588 appoggiò inutilmente un'iniziativa mirante ad aumentare il potere dei Quaranta rispetto a quello del legato e fu infine coinvolto nelle difficili, talora burrascose, trattative per l'ampliamento del Senato bolognese.
Nel conclave che elesse Urbano VII, il Facchinetti era tra i papabili del partito spagnolo, ma dietro G.B. Castagna. La situazione si ripeté poche settimane dopo nel conclave che elesse Gregorio XIV. Anche in questa occasione il Facchinetti era tra i candidati filospagnoli (avendo ottenuto anche l'appoggio dei cardinali d'Aragona, Salviati, Laureo e Caetani), ma dopo Sfondrati, che infatti ebbe la meglio. Soprattutto in questo secondo caso potrebbe aver pesato il timore di una scarsa malleabilità dell'intransigente Facchinetti.
Con Gregorio XIV il Facchinetti tornò in Segnatura, dirigendola a causa del cattivo stato di salute del papa. Mantenne altresì il posto nella congregazione per la Riforma che intendeva affrontare il grave problema della mancata applicazione a Roma dei decreti tridentini e la riforma della Dataria. Il Facchinetti fu anche impegnato nella congregazione di Francia, dove si oppose a spese eccessive per l'esercito pontificio, e nella congregazione per la successione ad Alfonso II di Ferrara. L'elezione del Facchinetti al soglio di S. Pietro fu il risultato dell'accordo tra il partito spagnolo e il cardinale Montalto, Alessandro Peretti, inizialmente favorevole a Giulio Antonio Santori. Dopo l'intervento mitigatore di Filippo II del 5 dic. 1590, il partito spagnolo non aveva un candidato ma esprimeva un gruppo di papabili, nel cui novero stava anche il Facchinetti, ma che vedeva in prima fila Ludovico Madruzzo, considerato "tedesco". Inoltre il partito spagnolo (sul quale faceva pressione anche Enrique de Guzmán, conte d'Olivares) voleva un conclave breve cosicché il cardinale Giovanni Mendoza propose a Montalto un candidato di compromesso come il Facchinetti, di qualità inoppugnabili quanto a moralità, erudizione, esperienza di Curia e di amministrazione dello Stato, già in età avanzata e di salute poco buona.
Già il 27 ott. 1591 Girolamo Ragazzoni aveva descritto le caratteristiche auspicabili nel futuro papa: soprattutto doveva essere sostenitore dell'attuazione dei decreti tridentini e della lotta al protestantesimo in Francia, un ritratto che si adattava bene alla figura del Facchinetti. Al conclave, apertosi il 28 ottobre, presenziarono cinquantasei cardinali e fin dalla prima votazione il Facchinetti ottenne un buon numero di voti (ventitré contro i dodici di Santori) che salirono a ventotto la mattina seguente. Questo risultato convinse la maggior parte dei cardinali e, dopo una giornata spesa a convincere Montalto, a tarda notte si giunse all'elezione (29 ott. 1591). Il Facchinetti assunse il nome di Innocenzo IX, richiamandosi al più illustre dei giuristi assurti al rango pontificio, Innocenzo III. Lui stesso attribuì il suo successo all'appoggio spagnolo in conclave e al placet di Filippo II.
Pur con i suoi settantadue anni, il suo fisico provato, "pelle e ossa", e il suo colorito cinerino, il nuovo papa era personaggio rispettabile e rispettato: "cortigiano vecchio, gran pratticone in tutte le cose e in tutti i carichi e congregationi, sodo nelle deliberationi" (Biblioteca apost. Vaticana, Urb. lat., 1059/II, c. 346). Le sue prime mosse furono all'insegna della morigeratezza e del rigore di impronta tridentina. Il 3 novembre fu incoronato dal cardinale diacono Andrea d'Austria in una cerimonia in forma privata sotto le logge della basilica vaticana e non sulle scale di S. Pietro.
I. IX non mostrò invece alcuna fretta di beneficiare i parenti, limitandosi a nominare coppiere Marc'Antonio Lambertini, suo nipote per parte di madre. Il nipote destinato al cardinalato fu invece lasciato a Bologna a terminare i suoi studi. Questi provvedimenti lo resero popolare, anche perché il 2 novembre emanò disposizioni per obbligare i baroni a consegnare al prefetto dell'Annona ingenti quantità di grano per il popolo romano. Il cardinale P.E. Sfondrati fu costretto a far rientrare a Roma il grano che aveva mandato fuori e a restituire doni di grande valore. Il 4 novembre si svolse il primo concistoro con il giuramento. In quel giorno I. IX (con la bolla Quae ab hac Sancta Sede) confermò e inasprì il divieto di vendere i possedimenti ecclesiastici e di rinnovare le concessioni dei feudi pontifici decaduti. Inoltre decise di costituire una riserva monetaria in Castel Sant'Angelo (250.000 scudi) soprattutto per sopperire alle necessità militari in Francia, evitando i prestiti, cui egli era pregiudizialmente contrario. Infine restaurò l'antica prassi della comunicazione diretta della notizia della nomina ai patriarchi, agli arcivescovi, ai vescovi e ai prelati.
In due occasioni I. IX si concesse agli aspetti cerimoniali del suo ufficio. L'8 novembre ebbe luogo la cerimonia del possesso della basilica del Laterano (descritta da Giovanni Paolo Mucanzio e Paolo Alaleone) durante la quale I. IX cavalcò una mula secondo il cerimoniale e poi si recò in lettiga nella sua chiesa titolare dei Ss. Quattro Coronati, cadendo in quel giorno la festa patronale. Altra uscita pubblica fu quella per la consegna della berretta cardinalizia a Odoardo Farnese, nominato dal suo predecessore nel marzo 1591, celebrata con gran pompa nel palazzo di famiglia e nelle strade adiacenti: I. IX partecipò alla festa come segno di ringraziamento verso la famiglia che lo aveva protetto in gioventù. Nel frattempo si creò la fama di grande lavoratore, di costumi frugali (mangiava solo una volta al giorno) e dedito al bene del popolo di Roma, i cui rappresentanti riceveva spesso in udienza il lunedì. A beneficio della città, provvide a fissare il prezzo massimo delle vettovaglie più comuni (che però ben presto scomparvero dal mercato) e a intensificare la lotta ai banditi.
Nel riordino degli uffici di Curia intervenne con iniziative degne di menzione, che tuttavia restarono allo stato embrionale. Si ricorda soprattutto la suddivisione tra tre segretari, secondo un criterio geografico, delle materie di Stato. I. IX evitò quindi la concentrazione in un solo personaggio degli affari politici ma creò un ufficio più complesso nel quale a Giovanni Andrea Caligari, vescovo di Bertinoro, era affidata la sezione su Francia e Polonia, a Giovanni Francesco Zagordi, suo segretario in minoribus, quella su Spagna e Italia e a Minuccio Minucci quella sulla Germania. Altri personaggi formavano la sua segreteria, il più illustre dei quali fu il latinista Antonio Boccapaduli, assegnato alle lettere latine e alle lettere ai principi. Al contempo funzionavano le congregazioni cardinalizie per i vari paesi che egli mantenne, ripristinò o stabilì ex novo (Francia, Germania, Polonia).
La congregazione della Riforma, cui il Facchinetti aveva a lungo partecipato da cardinale, non recuperò sotto il suo papato la primitiva energia, malgrado la presidenza di G. Paleotti, esaurendosi poi definitivamente con Clemente VIII. Restarono quindi sul tappeto grandi progetti di impulso alle missioni, come la proposta del vescovo di Tournai, Jean de Vandeville, di creare a Roma un seminario per la preparazione del clero missionario, che pure aveva incontrato l'interesse di Innocenzo IX. Inoltre il papa tolse alla congregazione il compito della riforma della Dataria nelle materie beneficiali, indirizzandola verso questioni di morale come le misure contro le prostitute e verso l'elaborazione di nuove disposizioni sull'abito del clero.
Non cedette invece il passo l'attività inquisitoriale del tribunale del S. Uffizio che I. IX presiedeva il giovedì, dopo averne fatto a lungo parte come consultore e poi membro. Tra le sette "giustizie" eseguite nei due mesi del suo pontificato cinque derivavano da accuse di eresia e apostasia dalle quali i condannati non riuscirono a scampare neppure con l'abiura. Nella politica estera I. IX si trovò di fronte a situazioni difficili in Polonia a causa della ribellione dei nobili contro il re Sigismondo III Vasa, che fu seguita con attenzione a Roma nella apposita congregazione da lui stabilita. In Francia la guerra che l'esercito pontificio conduceva contro Enrico di Navarra gravava pesantemente sulle casse della Chiesa, senza portare a nulla e producendo anzi qualche incomprensione con l'alleato spagnolo. Il 13 nov. 1591, sulla base di rapporti negativi sull'azione dell'esercito, I. IX decise, anche per ragioni di bilancio interne, di limitare le spese rispetto al suo predecessore fissando a 50.000 scudi il contributo alle truppe guidate da Ercole Sfondrati, duca di Montemarciano, ed esaminando l'ipotesi di ridurlo ulteriormente. Inoltre fu posto il termine del 15 dicembre per l'auspicato intervento dal Belgio delle truppe di Alessandro Farnese, in mancanza del quale l'esercito pontificio sarebbe stato disciolto, decisione poi evitata in extremis.
Non mancarono iniziative nell'amministrazione temporale dello Stato pontificio, con particolare attenzione al risanamento delle saline di Cervia, dei porti del litorale laziale e di Ancona e con interventi in favore della città di Roma come la regolazione del corso del Tevere, la sistemazione del Borgo, il completamento della cupola di S. Pietro.
I. IX tolse all'abate commendatario di Farfa e S. Salvatore la giurisdizione temporale sugli ampi territori abbaziali (misura peraltro presto rientrata) e ristabilì per Recanati il rango di città. Anche dai contemporanei fu notata questa attività quasi febbrile del pontefice nelle piccole decisioni, cui si accompagnava invece una prudenza nelle nomine cardinalizie e relative alle funzioni maggiori che fu vista come irresolutezza. La nomina del cardinale nipote, Antonio Facchinetti (pronipote diciottenne), avvenne solo il 18 dic. 1591, una settimana dopo che egli era stato autorizzato a venire a Roma e investito di un protonotariato e di un posto nella Segnatura. La sua nomina non fu però unica: I. IX elevò alla porpora anche il bolognese Filippo Sega, vescovo di Piacenza e nunzio a Parigi, probabilmente anche per l'esigenza contingente di avere un rappresentante del livello di un legato in Francia a causa della delicata situazione politica. Tale coincidenza fu vista però come una diminutio dell'elezione del nipote. Solo alla fine di dicembre si ebbe la nomina di Cesare (senatore bolognese, nipote del papa e padre del cardinale Antonio) come generale della Chiesa. L'altro nipote, Giovanni Antonio, ecclesiastico e già in passato beneficiato di un'abbazia e di una chiesa in Calabria, fu nominato castellano di Castel Sant'Angelo. I. IX mostrò, almeno in apparenza, un certo distacco anche nei confronti delle istanze avanzate dai suoi concittadini: non prima della metà di dicembre ricevette infatti una delegazione bolognese incaricata di rendergli omaggio, ma anche di richiedere una diminuzione dei privilegi degli enti ecclesiastici, in particolare in materia di esportazione di grano dalla città.
I. IX si mosse con prudenza anche nei cambiamenti del personale delle nunziature per le quali si registrarono avvicendamenti a Napoli, dove Pietro Astorgio di San Pietro prese il posto di Germanico Malaspina (21 dic. 1591), e a Venezia, dove si insediò (per nomina del 22 dic. 1591) il bolognese Alessandro Musotti, giurista, vescovo di Imola, già maestro di casa e tesoriere segreto di Gregorio XIII.
Rispetto alla sua attività di amministratore, assunse minor risalto l'impegno verso gli aspetti spirituali del suo ufficio, un punto debole messo in evidenza dal cardinale Santori, che peraltro riteneva che I. IX si fosse prefisso un programma di lavoro eccessivo per le sue forze. In effetti le notizie su iniziative in tal senso sono scarse. Il papa si limitò a promuovere un giubileo plenario simile a quello dell'anno santo (legato peraltro alle aspettative per la fine della guerra in Francia) e a concedere indulgenze per i missionari. Tuttavia la decisione di ottemperare alla popolare devozione del pellegrinaggio delle sette chiese, il 21 dicembre, fu la causa della sua malattia e della morte. Già anziano e debole, e oltremodo sensibile al freddo, cadde malato il giorno successivo, tanto da dover annullare le udienze. Tra il 24 e il 28 la situazione peggiorò irrimediabilmente. Negli ultimi giorni di vita sembra che egli facesse qualche resistenza a beneficiare in extremis i parenti, volendo solo ricevere i sacramenti e prepararsi alla morte, che sopraggiunse nelle prime ore del 30 dic. 1591.
La salma fu oggetto di una prolungata devozione popolare prima di essere tumulata nelle Grotte di S. Pietro. L'orazione funebre fu pronunciata dal gesuita Benedetto Giustiniani.
La produzione letteraria di I. IX non è abbondante ed è rimasta manoscritta. Essa riguarda soprattutto il commento alle opere politiche di Aristotele, le questioni relative al concilio di Trento, la morale e ovviamente le materie giuridiche. In particolare egli si dedicò a una confutazione di Machiavelli, lavoro che forse passò al gesuita Antonio Possevino, da lui chiamato a Roma con un incarico in una congregazione proprio a tale scopo. Tra i letterati e gli eruditi del tempo si ha notizia solo di suoi contatti con Annibal Caro, quando entrambi dimoravano presso la corte di A. Farnese. Nel 1905 sono state pubblicate da L. Frati alcune massime moraleggianti, conservate nella Biblioteca universitaria di Bologna, nelle quali I. IX si mostra pratico in materie che vanno dalla condotta da assumere verso i potenti e i servitori al modo di chiedere favori, dalla condanna del gioco alla discussione sull'amore profano. Per i suoi scritti si veda l'edizione di L. Frati, I ricordi di due papi, in Arch. stor. italiano, s. 5, XXXV (1905), pp. 447-452.
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