GIOVANNI X, papa
Giovanni nacque forse a Tossignano (ora frazione di Borgo Tossignano, nei pressi di Imola). Le notizie relative alla sua vita nel periodo precedente l'elezione alla sede arcivescovile di Ravenna sono poche e provengono da due fonti: l'Antapodosis di Liutprando e l'InvectivainRomam. Secondo la testimonianza di Liutprando, G. sarebbe stato diacono a Ravenna e l'arcivescovo Cailone, consacrato da Giovanni IX, lo avrebbe inviato spesso come suo legato a Roma dove, in occasione dei suoi frequenti viaggi, avrebbe intrecciato una relazione con Teodora, moglie di Teofilatto vertararius, senator Romanorum. In seguito egli fu eletto vescovo di Bologna ma, prima di essere consacrato, fu chiamato, intorno al 905, alla sede di Ravenna, che nel frattempo si era resa vacante. Liutprando attribuisce proprio all'influenza dell'amante Teodora il passaggio a una sede così prestigiosa (come anche poi l'elezione pontificale). Naturalmente non si può accogliere la testimonianza di Liutprando senza riserve, però si può supporre che G. abbia ottenuto la sede ravennate, se non per qualche illecita relazione, grazie all'influenza della famiglia di Teofilatto, con la quale doveva essere in buoni rapporti.
A Ravenna, nel periodo in cui avvenne l'elezione di G., era in atto un conflitto legato al protrarsi, anzi al riaccendersi, con l'ascesa al papato di Sergio III, della discussione sulla validità delle ordinazioni impartite da papa Formoso, ed è probabile che proprio per evitare il prevalere del partito formosiano, Teofilatto e il pontefice Sergio III abbiano appoggiato la candidatura di G., che dovevano conoscere bene grazie agli incarichi che spesso lo avevano portato a Roma - se quanto dice Liutprando è vero - quando era diacono. Con il conflitto tra formosiani e antiformosiani all'interno della Chiesa ravennate si intreccia la vicenda dell'elezione imperiale di Berengario (cui partecipò anche G.) per la quale già da Sergio III erano state avviate trattative, che però dovevano essersi interrotte con la sua morte. In due lettere di G. - la quinta e la sesta contenute nel cosiddetto rotolo opistografo di Antonio Pio (Löwenfeld, 1884), indirizzate una a Berengario, l'altra ai vescovi Adalberto di Bergamo e Ardingo di Brescia - egli affermava che la Chiesa ravennate si trovava in gravi difficoltà ed esponeva la sua teoria sui rapporti tra la Chiesa e il Regno, che dovevano basarsi sull'appoggio reciproco. Poiché è probabile che parlando dei problemi della Chiesa ravennate G. si riferisse proprio allo scisma tra formosiani e antiformosiani, possiamo pensare che Berengario abbia approfittato della ripresa delle ostilità tra le due fazioni per inserirsi "naturalmente su posizioni antiformosiane, in un gioco politico dagli orizzonti più vasti di quelli nei quali si era mosso fino allora e che, prima o poi, gli avrebbe valso la corona imperiale" (Arnaldi, 1967, p. 23). L'ultimo documento che testimonia della presenza di G. a Ravenna è datato 5 febbr. 914: in esso si attesta che papa Landone, suo predecessore, è ancora vivo.
La data precisa dell'elezione di G. a vescovo di Roma è difficile da stabilire, probabilmente essa ebbe luogo nel marzo del 914. Le cause del trasferimento di G. da Ravenna a Roma sono sconosciute. Nonostante i trasferimenti avvenuti dopo la polemica antiformosiana - quello di Stefano VI (896-897) e di Sergio III (904-911) - i canoni che proibivano tale pratica erano ancora in vigore (Giovanni IX aveva ribadito la validità della norma al concilio di Ravenna, nell'898). D'altra parte anche prima dell'elezione di Formoso si erano verificati trasferimenti di vescovi da una sede a un'altra, e più in particolare da altre sedi alla sede romana; ma la polemica antiformosiana, in cui si scontravano interessi di ben più ampia portata, e che aveva preso spunto da questa infrazione per invalidare tutti gli atti di quel papa, nel 914 si era ormai esaurita. Teofilatto e la sua famiglia avevano ottenuto il potere, e ormai in difesa di Formoso scriverà - proprio negli anni di pontificato di G. - soltanto l'autore anonimo dell'Invectiva.
G. dunque non dovette preoccuparsi di giustificare in alcun modo il suo trasferimento presso la sede romana, dove si suppone che sia stato chiamato proprio dagli esponenti dell'aristocrazia locale.
È stata sottolineata da alcuni studiosi una affinità tra il pontificato di G. e quello di Giovanni VIII; il primo elemento a suggerire tale affinità sarebbe l'impegno di entrambi nella lotta contro i Saraceni stanziati nell'Italia meridionale. Giovanni VIII non era riuscito a portare a compimento l'impresa di scacciarli, anzi, secondo alcuni studiosi vi "aveva deposto […] il seme di avvenimenti funesti" (P. Fedele) concedendo a Pandolfo di Capua un territorio che si estendeva dalle colline di Formia al Garigliano. Poiché infatti i Gaetani, in seguito a questa donazione, videro diminuita la loro libertà e chiesero aiuto ai Saraceni di Agropoli che, sconfitti in un primo tempo dai duchi di Gaeta, si insediarono poi sulle colline di Formia, sulla riva destra del Garigliano che costituiva il confine meridionale del Ducato di Gaeta; da qui presero a saccheggiare l'Italia per quasi quarant'anni prima che si formasse contro di loro una alleanza abbastanza forte da cacciarli. Il merito di aver promosso la lega che sconfisse i Saraceni nella battaglia del Garigliano (915) è attribuito da alcuni storici proprio a G.; P. Fedele invece non condivise questa ipotesi e ritenne di doversi attenere strettamente alla testimonianza di Leone Ostiense il quale, parlando delle trattative precedenti la costituzione della lega, non menziona affatto Giovanni X. Fu invece Atenolfo (I) di Capua e Benevento (direttamente danneggiato dalla presenza dei Saraceni su terre confinanti con le sue) insieme con il figlio Landolfo a promuovere le trattative, come testimoniano gli Annales Beneventani e il Chronicon comitum Capuae, testimonianza che peraltro appare ovvia da parte di fonti locali. Già nel 903 Atenolfo (I) aveva tentato di attaccare i Saraceni con l'aiuto dei soli Amalfitani, ma senza successo e, rendendosi conto dell'impossibilità di riuscire nell'impresa senza validi alleati, inviò suo figlio Landolfo a Costantinopoli per chiedere aiuto a Leone VI il Saggio, che promise di dare il suo sostegno. Soltanto dopo che l'esercito della lega - costituita dai principi di Capua, Salerno, Napoli, Gaeta, e con l'appoggio della flotta bizantina - si era mosso per accamparsi sulla riva sinistra del Garigliano, anche G. partì da Roma insieme con Alberico di Spoleto per accamparsi sulla riva destra e chiudere in trappola i Saraceni. G., in una lettera al vescovo di Colonia Erimanno, scriverà di aver combattuto di persona.
T. Venni corregge in parte le posizioni di Fedele, condividendo l'idea che fondamentale sia stata l'attività dei principi di Capua e Benevento, ma sostenendo che i principi da soli non fossero in grado di organizzare una lega così importante ed efficace come quella che sconfisse i Saraceni al Garigliano. Secondo lo studioso a G., anche se eletto non molto tempo prima della battaglia decisiva, non mancò il tempo per riprendere le trattative con Bisanzio, già avviate da Landolfo, ma che ancora non avevano dato frutti tangibili, e ottenere così l'invio della flotta bizantina. Lo studioso sottolinea inoltre che G. riuscì a ottenere che i Gaetani si unissero alla lega soltanto confermando loro la donazione del patrimonio di Traetto fatta a suo tempo da Giovanni VIII, senza contare che anche il duca Gregorio di Napoli, dapprima alleato di Landolfo, aveva abbandonato la lega per poi rientrarvi all'arrivo della flotta bizantina. Venni infine sottolinea che per G. questa vittoria, che egli considerò un successo personale, costituì la base su cui poggiare la sua attività futura.
G. si trovò a dover sostenere l'autorità di Corrado I di Franconia, minacciata all'esterno dagli Ungari e all'interno da alcuni principi tra cui Enrico di Sassonia; nel 916 si riunì il sinodo di Hohenaltheim sotto la presidenza di Pietro di Ostia, inviato dal papa. A quanto sembra, la debolezza di Corrado impose al pontefice di sostituirsi a lui nel ristabilirne l'autorità. Quanto alla questione relativa alla ingerenza dei laici nell'elezione dei vescovi, G., coerente con le posizioni assunte nel sinodo di Hohenaltheim (sostegno all'autorità regia e totale collaborazione con essa) lasciò l'elezione del vescovo di Amburgo nelle mani del re. Quando Corrado annullò l'elezione di Leidrado, uno dei suoi avversari, a vescovo di Amburgo e diede la carica al chierico Unni di Brema, G. inviò il pallium a quest'ultimo.
G. sostenne l'importanza del consenso regio all'elezione vescovile anche nei confronti di Carlo il Semplice che, in conflitto con i feudatari laici, aveva deposto il vescovo di Liegi Ilduino (eletto dal clero e dal popolo della città) e aveva fatto eleggere al suo posto l'abate Richero. Poiché l'arcivescovo di Colonia Erimanno non volle riconoscere il nuovo vescovo, fu richiesto l'intervento del papa. G. rispose con due lettere, una a Carlo e una a Erimanno, sottolineando il valore decisivo del consenso regio nell'elezione vescovile; si riservò poi di giudicare chi tra i due candidati fosse il più degno di ottenere la sede vescovile dopo averli esaminati di persona e scelse, come c'era da aspettarsi, Richero. G. inoltre aveva voluto che ad accompagnare a Roma i due candidati fosse proprio Erimanno, al quale volle dire di persona di non osare mai più danneggiare in qualche modo il regno di Carlo.
La fortuna di Carlo intanto stava precipitando; i feudatari gli opposero prima Roberto I poi Rodolfo; nel 923 Eriberto di Vermandois lo imprigionò a tradimento e nel 925 mandò a Roma il vescovo di Soissons, Ebbone, per chiedere la conferma dell'elezione di Ugo, suo figlio, a vescovo di Reims. Dal racconto di Flodoardo sembrerebbe che G. non abbia opposto resistenza, salvo affidare a Ebbone le funzioni episcopali in sostituzione di Ugo che aveva solo 5 anni. G. sapeva che Rodolfo non era contrario all'elezione e si attenne alla sua consueta politica di appoggio dell'autorità regia, anche se al trono era giunto un nuovo re.
In Oriente G. dovette intervenire nell'annoso problema del quarto matrimonio di Leone VI il Saggio, che non finiva di provocare disordini.
Dopo essere rimasto vedovo per tre volte senza eredi maschi ancora in vita, Leone voleva sposarsi per la quarta volta, nonostante le prescrizioni della Chiesa orientale che vietavano assolutamente il quarto matrimonio. Scelse quindi un nuovo patriarca, Nicola il Mistico, che, per aver partecipato a una congiura contro l'imperatore ed essere stato scoperto, doveva mostrarsi ora, se voleva salvare la vita, molto accondiscendente alla nuova unione di Leone, non ancora legittimata, dalla quale era nato intanto nel 905 Costantino (Porfirogenito). Successivamente però il patriarca cambiò condotta, cercando di invitare l'imperatore alla prudenza e non decidendosi a celebrare le nozze. Il conflitto tra il patriarca e l'imperatore durò fino all'arrivo dei legati del papa, nel febbraio del 907; Leone quindi fece deporre Nicola, e il nuovo patriarca, Eutimio, d'accordo con i legati del papa, adottò una soluzione equilibrata ratificando le quarte nozze di Leone ma sottolineando che tale dispensa non cambiava in nessun modo la disciplina in vigore nella Chiesa d'Oriente.
La deposizione di Nicola intanto aveva provocato un vero e proprio scisma all'interno del clero bizantino, che continuò anche dopo la morte di Leone, nel maggio del 912, e la reintegrazione di Nicola, fino al 920. Il sinodo di unione (920-921) riconciliò le due parti del clero bizantino, condannò il quarto matrimonio in linea di principio pur riconoscendo quello di Leone post factum. Nicola cercò, dopo aver concluso il conflitto interno, una riconciliazione con il papa; per questo scrisse, nel 920 o nel 921, una lettera a G., invitandolo a riprendere i rapporti con Costantinopoli. Nel 923 G. inviò due legati con i quali Nicola, senza tornare sulla questione dottrinale della tetragamia, sulla quale in Occidente si continuava a osservare una maggiore tolleranza, celebrò la rinnovata unione delle Chiese. La missione dei legati doveva proseguire in Bulgaria, con lo scopo di restaurarvi la sovranità di Roma.
Intanto a Roma erano scomparsi i vecchi alleati di G.: Teofilatto (morto nel 927) e Alberico di Spoleto, mentre si consolidava la posizione del fratello di G., Pietro. Marozia, vedova di Alberico, aveva sposato tra il 924 e il 927 Guido di Toscana. Nel 926 i legati del papa ricevettero il nuovo re d'Italia Ugo di Provenza a Pisa e probabilmente tentarono di prendere accordi per il conferimento a Ugo della corona imperiale. Di fronte a questo pericolo i marchesi di Toscana si allearono con l'aristocrazia romana contro G. e Pietro; quest'ultimo si rifugiò a Orte e chiamò in sua difesa gli Ungari; Guido di Toscana riuscì a sconfiggerli e a far fuggire Pietro di nuovo a Roma, dove fu ucciso, mentre pochi mesi dopo, fra il maggio e il giugno 928, G. fu imprigionato. Fallì così il suo tentativo di opporsi al potere dell'aristocrazia locale con l'appoggio del re d'Italia Ugo di Provenza, perpetuando quindi la pratica, non nuova ai papi altomedievali, di cercare aiuto presso un'autorità lontana contro degli "scomodi vicini" (Arnaldi, 1951). Il successivo tentativo di Ugo di assumere potere a Roma sposando Marozia fallirà, poiché Marozia sarà imprigionata e Ugo cacciato. L'aristocrazia romana si era liberata di entrambe le autorità: regia e papale.
G. morì probabilmente nel 929, in carcere a Roma, forse di morte violenta.
Fonti e Bibl.: Liutprandus Cremonensis, Antapodosis, a cura di J. Becker, in Mon. Germ. Hist., Script. rer. Germ. in usum scholarum, XLI, Hannoverae 1915, pp. 59 ss.; J.-P. Migne, Patr. Gr., CXI, nn. 28, 32, 53 s., 56, 77 (lettere di Nicola il Mistico); G.D. Mansi, Sacrorum conciliorum nova et amplissima collectio, XVIII, Florentiae 1773, coll. 192-201, 325-342; Invectiva in Romam, in E. Dümmler, Gesta Berengarii imperatoris, Halle 1871, p. 153; S. Löwenfeld, Acht Briefen aus der Zeit König Berengars, in Neues Archiv der Gesellschaft für ältere deutsche Geschichtskunde, IX (1884), pp. 513-539; Ph. Jaffé, Regesta pontificum Romanorum, a cura S. Löwenfeld, I, Lipsiae 1885, nn. 443-453; Liber pontificalis, a cura di L. Duchesne, II, Paris 1892, pp. 240 s.; P. Fedele, La battaglia del Garigliano, in Arch. della Soc. romana di storia patria, XXII (1899), pp. 181-211; T. Venni, G. X, ibid., LVI (1936), pp. 1-136; G. Arnaldi, Papa Formoso e gli imperatori della casa di Spoleto, in Annali della Facoltà di lettere e filosofia dell'Università di Napoli, I (1951), pp. 85-104; Id., Alberico di Spoleto, in Diz. biogr. degli Italiani, I, Roma 1960, pp. 657-659; N. Cilento, Atenolfo I, ibid., IV, ibid. 1962, pp. 519 s.; G. Arnaldi, Berengario I, ibid., IX, ibid. 1967, pp. 22-24; J.-M. Sansterre, Formoso, papa, ibid., XLIX, ibid. 1997, pp. 55-61; Dict. de théol. catholique, VIII, 1, coll. 616-618; IX, 1, coll. 365-379, s.v. Léon le Sage; Dict. d'hist. et de géogr. ecclésiastiques, XXVI, col. 1161.