EMILI, Paolo
Di famiglia patrizia, nacque a Verona intorno alla metà del sec. XV.
Non si conoscono avvenimenti e circostanze della sua vita giovanile (si sa, comunque, che ebbe due fratelli e una sorella) se non il suo trasferimento a Roma, dove ben presto acquistò fama come letterato e storico frequentando anche la Curia come studente in teologia. Secondo quanto sostenuto dal Renaudet in opposizione ad altri, per i quali la data sarebbe stata posteriore, nel 1483 il cardinale Carlo (II) di Borbone, con cui l'E. era in contatto a Roma, lo portò con sé a Parigi, dove sotto la protezione dello stesso cardinale fu introdotto alla corte di Carlo VIII.
In Francia era vissuto, alla fine del sec. XIV, un parente dell'E., Ambrogio, che era stato segretario di Ludovico d'Orléans, amico di letterati e letterato lui stesso. In un assai più tardo epigramma autobiografico (fra l'altro pubblicato dal Giuliari e poi dal Dionisotti), l'E. ricorda con pari importanza il suo giovanile soggiorno romano (a noi così poco conosciuto) e la sua successiva, lunga permanenza in Francia: "incolui Romam, retinet me Gallia".
Entrato a far parte della cerchia degli intellettuali che godevano della stima e dei favori del sovrano, l'E. si rivolse in un primo momento agli studi teologici. Ben presto, tuttavia, tornò a dedicarsi ai suoi precedenti interessi storici e, nel 1487, compose un saggio sulla storia dell'antica Gallia (forse intitolato De rebus a recentiore Francia gestis, il cui manoscritto, conosciuto dal Maffei a fine Settecento, non sembra essere a noi pervenuto), che offrì in omaggio al suo mecenate, il cardinale di Borbone. Allo stesso dedicò pure due carmi encomiastici (conservati a Milano, Bibl. naz. Braidense, AD XI 44., cc. 1v-3v, 55r). Nel primo, accanto alla celebrazione umanistica dell'otium litterarum e della umanità del suo protettore, l'E. esprime una certa nostalgia per la famiglia e l'Italia lontane. Nel secondo, insistendo néll'esaltazione del cardinale, ne delinea un accorato ritratto che, fra l'altro, presenta la realistica probabilità del Borbone intento a tradurre la Commedia di Dante.
Con la morte del Borbone, avvenuta nel 1488, l'E. fu costretto ad accettare, sia pure per breve tempo, un incarico di insegnamento umanistico nell'università parigina; ma nel 1489 ottenne un appannaggio di 180 lire annue come oratore e storico ufficiale di corte. Non si sa se, in virtù di questa qualifica, abbia anche seguito Carlo VIII nella sua campagna in Italia. L'E. entrò, in questo periodo, in stretto contatto con i maggiori rappresentanti dell'umanesimo francese, fra i quali Jacques Le Fèvre d'Étaples, umanista e filosofo, del quale l'E. era stato anche precettore (il Le Fèvre, due anni prima della discesa in Italia di Carlo VIII, aveva conosciuto a Firenze Pico e Ficino, a Roma Ermolao Barbaro, a Padova il Pomponazzi), Guillaume Budé, che ebbe una parte rilevante nella diffusione dell'umanesimo transalpino, Gilles de Delf, Robert Gaguin, (Publio) Fausto Andrelini.
Poco dopo l'ascesa al trono di Luigi XII, incoronato nel maggio del 1498, per iniziativa dell'arcivescovo di Parigi, E. Ponchier, l'E. venne incaricato di scrivere la storia della monarchia francese dalle origini fino ai suoi tempi; come appannaggio per il suo mantenimento, gli venne concesso il beneficio di un canonicato della cattedrale di Notre-Dame. L'E. iniziò subito a dedicarsi alla composizione dell'opera affidatagli, ritirandosi nella quiete del collegio di Navarra, presso l'università di Parigi. Il lavoro risultò lungo e difficile, data anche la cura meticolosa con cui egli amava procedere, effettuando continue modifiche e limature sul testo. I primi quattro libri'dell'opera, intitolata De rebus gestisFrancorum, furono pubblicati a Parigi all'inizio del 1516: questa data, mancante nell'edizione a stampa, si deduce da una lettera di Erasmo da Rotterdam al Budé (scritta ad Anversa nel febbraio 1516) nella quale il filosofo olandese (che precedentemente era stato in contatto con l'E. a Parigi) affermava di essere venuto a conoscenza della pubblicazione dell'opera, sostenendo anche di essere certo che si trattava di un lavoro eccellente, compiuto da un uomo dotto e diligente nel corso di oltre vent'anni. Nel 1519 uscirono altri due libri del De rebus gestis Francorum: anche in questo caso, la data della stampa si deduce da una lettera di Pietro Egidio a Erasmo, scritta il 19 luglio di quell'anno, in cui il primo comunicava che l'E. aveva consegnato all'editore la continuazione della sua opera.
Successivamente l'E. aggiunse altri quattro libri, l'ultimo dei quali rimase incompleto a causa della morte avvenuta improvvisamente a Parigi il 5 maggio 1529. L'E. venne sepolto nella cattedrale di Notre-Dame, e sulla sua tomba, situata nella navata settentrionale, venne posta un'iscrizione, non più visibile, che ne esaltava la profonda cultura e l'esemplare condotta di vita.
Se da un lato la fama letteraria dell'E. è legata al De rebus gestis Francorum, dall'altro non può essere sottovalutato il ruolo da lui avuto nel circolo umanistico parigino nei primi decenni del secolo XVI, tanto che Erasmo arrivava a scrivere (Epist., a cura di P. S. Allen, I, Oxford 1906, n. 136, pp. 315 s.) che bastava un suo intervento per facilitare l'ingresso a corte di uno scrittore. L'E., infatti, ebbe frequenti rapporti non solo con Erasmo, col quale era solito incontrarsi durante i soggiorni parigini del filosofo di Rotterdain e che lo stimava e apprezzava con evidenti manifestazioni di amicizia, ma anche con esponenti illustri della cultura francese di questi anni. Le Fèvre d'Étaples, ad esempio, che dall'E. fu stimolato allo studio di Aristotele, come ricorda nella prefazione del suo commento ai Magna moralia, in questo stesso libro aggiunse un carine encomiastico dedicato all'amico (Parisiis 1497, pp. 1, 200). Vicino all'E. fu anche Robert Gaguin, generale dei trinitari, autore di un Compendium historiae Francorum, come pure Guillaime Budé, segretario di Luigi XII, e il poeta ufficiale della corte, l'italiano Fausto Andrelini, segretario della regina Anna di Bretagna. Fu in contatto anche con i numerosi letterati italiani che abitarono e vissero a Parigi fra la fine del Quattrocento e i primi del Cinquecento, come Giovanni Giocondo da Verona, Girolamo Balbi e soprattutto Iacopo Sannazaro.
Di particolare rilievo fu l'amicizia con Girolamo Aleandro, umanista, teologo e futuro cardinale: quest'ultimo, ad esempio, da Parigi, il 15 giugno 1510 scrisse all'E., che era in viaggio col re Luigi XII verso Lione (insieme con Giovanni Lascaris, maestro di greco del Budé), una lettera affettuosa in cui dichiarava di attenderlo con gioia nella propria casa al suo rientro a Parigi. Nel dicembre dello stesso 1510 l'Aleandro, chiamato all'università di Orléans da Jean Pyrrhus Angleberme (compagno di studi a Parigi dello stesso Aleandro, di Erasmo e dell'E.), si fece accompagnare nel viaggio da un nipote dell'E., di nome Simon. Si sa che all'Aleandro l'E. procurava anche libri antichi; gli segnalò pure un importante manoscritto parigino di Sallustio per la sua edizione dei testi dello storico latino.
L'opera storica dell'E., il De rebus gestis Francorum, raccoglie in dieci libri (l'ultimo dei quali fu completato dal veronese Daniele Zavarisi, forse parente dell'E., sulla base degli appunti lasciati dall'autore, e fu probabilmente scritto in Italia: in Francia sarebbe stato portato, direttamente all'editore, da Pierre Danés) le biografie di cinquantacinque re di Francia succedutisi dal 420 fino al 1498, cioè da Faramundo fino a Carlo VIII, attraverso le dinastie dei Merovingi, dei Carolingi, dei Capetingi. In particolare, nel libro I sono riunite le vite dei primi diciannove re fino a Chilperico II (420-472); nel libro II quelle dei re da Teodorico II a Carlo Magno (751-771); nel libro III quelle da Carlo Magno a Filippo I (771-1060); nel libro IV si ha solo la vita di Filippo I; nel libro V si arriva fino a Filippo II (1180); il libro VI è dedicato al solo Filippo II fino al 1223; nel libro VII si hanno le vite dei re da Luigi VIII a Filippo III (1223-1285); nel libro VIII quelle da Filippo IV a Filippo VI di Valois (1285-1328); nel libro IX da Filippo VI si arriva a Carlo VI (1328-1380); nel libro X da Carlo VI a Carlo VIII (1380-1498).
Notevole valore assume, all'inizio del De rebus gestis Francorum, la prefazione, in cui l'E. - sulla base di evidenti influenze classiche - si diffonde a parlare sul ruolo della storia e sul significato degli scritti storici, utili a ricostruire e valorizzare le imprese degli antichi. Se l'uomo conoscesse il passato si dedicherebbe maggiormente alle azioni pacifiche, attuando meno violenze e meno guerre; analogamente i potenti capirebbero quanto più importante è la clemenza rispetto alla malvagità, e quindi la vita umana sarebbe più sicura e l'uomo stesso, più mite e saggio, sarebbe più vicino a Dio, rinunciando in tal modo alla ricerca e alla conquista dell'utile a vantaggio di quella della pietà e della fraternità. La non conoscenza della storia ha provocato gravi danni, in quanto non si sono appresi gli ammaestramenti dell'antichità. Alla storia della Francia l'E. applica queste sue teorie morali: anzi la Francia viene da lui presa a modello dell'azione e dell'intervento della fortuna sul mondo e sull'umanità. Inoltre, l'E. sostiene che gli uomini, e soprattutto coloro i quali hanno responsabilità di governo sui popoli, devono compiere imprese degne di essere ricordate e celebrate dagli scrittori e dagli storici a insegnamento e edificazione dei lettori e dei posteri. In conclusione, nella elaborazione della sua opera l'E. afferma di voler seguire l'ordine cronologico, fermandosi però solo sugli avvenimenti storicamente più sicuri e più degni di essere tramandati.
Ai concetti fondamentali, spiegati in questa pagina proemiale, l'E. tiene fede nel corso della successiva e ampia trattazione. Come si è detto, il periodo preso in esame abbraccia oltre un millennio, dal 420 alla fine del sec. XV: un millennio di straordinaria importanza non esclusivamente nella storia della Francia ma dell'Europa intera e di tutto l'Occidente, che l'E. ricostruisce non solo sull'esame del comportamento e delle vicende dei singoli re francesi, ma con la narrazione di fatti e situazioni di grande respiro, che abbracciano tutti i popoli dell'Europa, e perfino quelli dell'Oriente, con i quali l'Europa fu a lungo in rapporto o in lotta.
A naturale che il quadro storico (per il quale l'E. prende a modello autori classici quali Polibio, Tucidide e Livio) si presenti discontinuo per l'ampiezza della trattazione stessa. Così, mentre la mancanza di sicura documentazione relativa ai primi re di Francia comprime il racconto in poche pagine, al contrario l'analisi delle vicende biografiche e storiche di sovrani famosi come Carlo Magno o, più avanti, come Carlo VIII, porta l'autore ad ampliare notevolmente la narrazione, spesso inserendovi testimonianze di lettere, di orazioni, di racconti orali o di documentazioni, che fanno pensare anche ad una sua accurata preparazione, nonché alla diretta ricerca archivistica di tali fonti. In questi casi spesso le pagine dell'E. si frantumano in particolari minuti (per certe figure anche in ritratti fisici), che arricchiscono il quadro di insieme, soprattutto in rapporto alle parentele dei singoli re, ai loro matrimoni, talvolta anche alla loro politica culturale.
Comunque, alcuni motivi centrali appaiono presenti in ciascun profilo dell'E., che tende ad accomunare fra loro i re di Francia per il costante impegno nella ricerca e nell'ampliamento della gloria nazionale, nella difesa della Cristianità minacciata, nella diffusione della religione romana fra i popoli pagani. Allo stesso tempo l'E. tende sempre a valorizzare la figura personale di ciascun sovrano: il coraggio in battaglia, il disprezzo del pericolo, il desiderio di gloria, l'ampio senso di umanità, la condanna per inutili violenze e atrocità. I re francesi dell'E. sono dunque personaggi "positivi" e le loro azioni sono sempre spinte da nobili ideali: da Clodoveo (la cui prima gloria fu quella di aver portato in Francia la religione cristiana) a Carlo Martello (il cui merito fu quello di essersi dedicato a imprese militari e a conquiste territoriali, ma ancor più quello di aver fermato l'avanzata araba in Occidente), da Carlo Magno (col quale fu stabilita una nuova base per i rapporti tra Stato e Chiesa) a Luigi IX (nel quale l'espressione dell'umanità e della fede trovarono la più perfetta coniugazione con la politica e la ragione di Stato), fino a Carlo VIII (di cui si racconta l'impegno per riappacificare la Bretagna, ma non la discesa in Italia). A a Carlo Magno, comunque, che sembra rivolgersi il maggior interesse dell'E.: sia perché lo storico poteva senz'altro contare su una tradizione biografica di notevole importanza e valore, sia per il ruolo stesso avuto da Carlo Magno nella storia dell'Europa, e non solo della Francia, prima del Mille. Si comprende così come l'E. si diffonda a lungo e positivamente a parlare del rinnovatore del Sacro Romano Impero, proprio celebrandone quegli aspetti che trovava presenti in tutti i re di Francia, ma che in Carlo Magno assumevano una configurazione e un significato speciali: crescita della gloria francese, propagazione della fede cristiana, convivenza col Papato. E in più lo specifico interesse per le vicende dell'Italia e della cultura, rinnovata con risultati destinati a trasmettersi nei secoli successivi.
Poiché uno dei motivi fondamentali dell'opera dell'E. fu quello della diffusione della religione e quindi della guerra contro gli infedeli, non fu certo un caso che a fine Cinquecento il piemontese Francesco Rachis di Racconigi (medico, filosofo, lettore dell'università di Torino) estrapolasse dal De rebus Francorum tutte quelle parti relative alle crociate in Terrasanta, e ne ricavasse un volumetto autonomo, non in latino ma in volgare (che Onorato Derossi, nel Settecento, forse per celebrare una gloria locale, gli attribuiva come suo togliendone la paternità all'E.) col titolo La sacra impresa e guerra di Terra Santa, stampandolo a Torino nel 1590. La narrazione prende avvio con l'inizio della prima crociata (corrispondente al libro quarto del De rebus gestis Francorum) per concludersi con la sconfitta dei cristiani nel 1291 e la distruzione della città siriana di Tolemaide (che si trova nel libro ottavo dell'Emili). Nella premessa alla sua riduzione il Rachis, dopo aver confessato di essere stato incerto se usare per la traduzione il noscano schietto", o procedere semplicemente, parola per parola, dichiara di aver seguito questa seconda strada per maggiore convenienza e opportunità: in verità la sua traduzione non appare molto originale, ma piuttosto assai dipendente da quella veneziana del 1549.
La fortuna del De rebus gestis Francorum fuassai rilevante: il testo latino, oltre alle prinie edizioni parziali già ricordate, ebbe a Parigi nel 1539 la prima edizione completa a cura del tipografo Michele Vascosano, che la dedicò al re Francesco I e che negli anni successivi più volte la ristampò anche con le aggiunte di Arnoldo Ferroni e Gioacchino Tommaso Frey, i quali completarono la narrazione dell'E. fino al re Enrico II (varie altre edizioni furono pure procurate nel corso del sec. XVI e agli inizi del successivo da tipografi diversi). Il De rebus gestis Francorum ebbe pure numerose traduzioni, alcune più volte ristampate: in italiano a Venezia nel 1549, a cura di M. Tramezzini; in tedesco a Basilea nel 1572, a cura di C. Wurstisen; in francese a Parigi nel 1553 (limitata ai primi cinque libri), a cura di J. Regnart, e nel 1556 (limitata ai primi due libri) a cura di S. de Monthière.
Ulteriori testimonianze della diffusione dell'opera dell'E. sono date da un lato dalla parafrasi che del De rebus gestis Francorum fece, nel 1576, Bernard de Girard nella sua Histoire généraledes rois de France (dove pure inseri considerazioni politiche di scarso rilievo), dall'altro dalla ripresa di alcune pagine fatta da Matteo Bandello nella novella IV, 1, ambientata a Mantova.
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