MALATESTA (de Malatestis), Pandolfo
Terzo di questo nome nel casato, nacque il 2 genn. 1370 da Galeotto e Gentile da Varano. Signore di Fano, Mondolfo e Scorticata dal 1385, anno della morte del padre, accompagnò il fratello Carlo nelle imprese militari, palesando fin dai suoi primi anni carattere avventuroso e naturale inclinazione per la guerra. A partire dal 1386, insieme con Carlo, occupò Santarcangelo ai danni della famiglia Balacchi, che aveva cercato di sottrarsi dal protettorato riminese. Nel 1388 il M. s'impegnò nella difesa di Cervia e delle sue saline, minacciate da Guido da Polenta: di ritorno da questa campagna decise di unirsi alla compagnia del capitano Giovanni degli Ubaldini, per trasferire le truppe in Toscana e Umbria, ma i due andarono incontro a una rovinosa sconfitta nelle vicinanze della Fratta, presso l'odierna Umbertide, a opera dell'armata inglese di Giovanni di Beltoft (18 giugno). Nel 1390 il M. fu coinvolto, come capitano dell'esercito milanese, nella contesa che oppose Gian Galeazzo Visconti a Firenze e Bologna: spalleggiato dal fratello, sconfisse Giovanni da Barbiano nei pressi di Santarcangelo impedendogli di spingersi in Toscana con i rinforzi.
Tre anni dopo il M. giunse a contesa con gli Ordelaffi per l'acquisto di Bertinoro guadagnandosi la benemerenza di Bonifacio IX, che nel 1397 lo nominò comandante supremo delle armi della Chiesa e rettore del Ducato di Spoleto.
Il pontefice manifestò più volte il favore concesso ai Malatesta, come nel 1391 quando rinnovò loro il vicariato su Rimini, Fano e Fossombrone riconoscendo, otto anni più tardi (26 genn. 1399), al M. e ai suoi fratelli il governo cumulativo di Cesena, Cervia, Senigallia, Pergola, Montalboddo, Corinaldo, Serra de' Conti, Osimo, Montelupone, Castelfidardo, Montefano, Filottrano, Monsano, Maiolati, Montecarotto, Staffolo, Offagna e altri luoghi. Un'ulteriore conferma dei predetti possessi malatestiani avvenne tramite una bolla di papa Gregorio XII, datata 27 genn. 1407.
Nel maggio 1399 ritroviamo il M., in veste di fidato vicario di papa Bonifacio IX, a difendere la Marca di Ancona dalle incursioni di Conte da Carrara. Egli consolidò la sua fama militare dividendosi fra le battaglie a fianco del fratello e quelle al soldo di Gian Galeazzo Visconti, aggiungendovi altresì periodi di servizio reso alla Chiesa. Il M. ritornava a Fano solo occasionalmente, come nel 1398 per stare vicino alla moglie morente, Paola Bianca Malatesta, sua cugina del ramo pesarese sposata nel 1388.
È probabile - come afferma la maggior parte degli storici - che, dopo la scomparsa di Paola, il M. compì un pellegrinaggio in Terrasanta, ove ricevette le insegne di cavaliere per mano del gran maresciallo d'Inghilterra.
La lontananza del M. dai domini marchigiani, ai quali si aggiunse Iesi da lui acquistata nel 1409, non implicava un suo disinteresse nelle cose di Stato: egli - come si ricava dalle registrazioni dei preziosi Codici malatestiani - delegava la gestione del suo dominio ai fratelli, anche se manteneva stretti rapporti con Fano, ove risiedeva stabilmente la sua Cancelleria.
Alla morte di Gian Galeazzo Visconti (1402), il Ducato di Milano rimase nelle mani della moglie Caterina Visconti, che esercitò la reggenza coadiuvata da un Consiglio di tutela di cui facevano parte anche il M. e i fratelli. Ma il Ducato si trovava in un momento di profonda debolezza e Bonifacio IX pensò di approfittarne per riappropriarsi dei feudi sottrattigli dal Visconti. A tale scopo, richiamò a sé tutti i vicari della Chiesa presenti alla corte milanese, compresi Carlo e Andrea Malatesta che fecero immediatamente ritorno nei rispettivi domini. Il M., invece, s'impegnò in prima linea nella guerra, che ne seguì, contro l'esercito della lega antiviscontea promossa dal papa e da Firenze. Tuttavia le forze in gioco erano impari: di fronte all'avanzata dell'esercito della lega che, capitanato da Carlo Malatesta e dal conte Francesco Gonzaga, riuscì a entrare nel maggio del 1403 nel Bolognese, le armate viscontee dovettero abbandonare l'Umbria e la Toscana. Di fronte a una situazione divenuta critica, il Consiglio di tutela decise di chiedere la pace e ottenne la firma il 25 ag. 1403: guidato dal fratello Carlo, lo stesso M. presentò atto di sottomissione al pontefice. Rientrato nella sua carica di generale delle armate milanesi, condusse azioni militari contro Como. Nel gennaio 1404, insieme con Facino Cane, accorse in soccorso di Verona, per fare ritorno a Brescia, il cui dominio gli era stato ceduto dalla duchessa quale riconoscimento per i servigi resi ai Visconti, cui si aggiunse il possesso del castello di Trezzo.
Di lì a poco il Ducato di Milano si trovò ad affrontare una nuova e più delicata crisi di politica interna, determinata dalla debolezza dei suoi vertici dove si andavano delineando due fazioni, una ghibellina e l'altra guelfa, condotte rispettivamente da Facino Cane e dal M. e sostenute, la prima, dal duca Giovanni Maria, la seconda dalla duchessa. Nel corso dell'estate del 1404 la situazione degenerò: Caterina sentendosi in pericolo si rifugiò a Monza, scatenando la reazione degli uomini della cerchia del duca che decisero di occupare la città e di imprigionare la duchessa. A nulla valse l'intervento del M. il quale, dichiarato nemico pubblico, riuscì faticosamente a fuggire trovando riparo prima a Trezzo poi a Brescia dove, il 17 ottobre, fu raggiunto dalla notizia della morte di Caterina. Deciso a vendicarne la memoria e a imporsi in modo definitivo su Facino Cane, il M. mosse le sue armate contro Milano, ma fu costretto ad arretrare fino a Erba.
Nonostante la sconfitta, il M. decise di perseguire il tentativo di costruirsi una personale signoria lombarda. Nella primavera del 1405, sostenuto da Cabrino Fondulo e dai Cavalcabò signori di Cremona, il M. occupò Piacenza. La risposta del duca non si fece attendere e, riconquistata la città emiliana, concesse Brescia, la Valcamonica e la riviera di Salò a Giovanni di Carlo Visconti (detto il Piccinino). Il M. poteva però contare sul favore dei suoi sudditi che impedirono, di fatto, l'acquisizione di quei territori da parte del Visconti e, nel giro di poco tempo, la situazione passò a suo vantaggio: sconfitto anche Estorre Visconti, accorso in aiuto di Piccinino, il M. entrò anche in possesso del castello di Palazzolo sull'Oglio, guadagnandosi così una postazione strategica di tutto rispetto, che gli consentì di controllare la riva destra dell'Oglio. Dalla vicenda era nata anche un'insolita e inaspettata alleanza con Estorre, che giunse a intercedere presso il duca in favore della concessione di Bergamo al Malatesta. La proposta suscitò subito l'opposizione della nobiltà locale, primi fra tutti i Suardi e i Colleoni, e il M. fu, in effetti, costretto ad abbandonare il Bergamasco e a ritirarsi a Martinengo, limitandosi a continue scorrerie entro quei territori.
Intanto a Milano era intervenuto un accadimento tanto imprevisto quanto vantaggioso per il M.: suo fratello Carlo era stato nominato governatore e tutore del duca Giovanni Maria, elezione caldeggiata da Iacopo Dal Verme per eliminare l'influenza ghibellina sul Visconti. L'intento fu portato avanti anche con la forza, quando Dal Verme, formato un proprio esercito e appoggiato dal M., Ottobuono Terzi, Gabrino Fondulo, i Gonzaga, Venezia e il cardinale legato Baldassarre Cossa, marciò su Milano contro Facino Cane. Costui, dopo essersi spostato a Certosa di Garegnano e abbandonato anche da Giovanni Maria, fu sconfitto dalle truppe di Dal Verme a Binasco il 22 febbr. 1407. Il M. poté infine ottenere il riconoscimento ducale sulla signoria di Brescia.
Quando riuscì a far giustiziare, come traditore, uno dei capi ghibellini più influenti, Antonio Visconti, reo di non aver tenuto fede alla promessa di restituire al duca la città di Monza, il M. guadagnò la tanto perseguita signoria su Bergamo, acquistandola da Giovanni Ruggero Suardi per la cifra di 25.000 ducati d'oro. Ma Facino Cane, approfittando di una breve assenza di Carlo Malatesta e della debolezza di Giovanni Maria, riuscì a riportare nuovamente i ghibellini a Milano. Mentre Facino Cane aveva portato le sue truppe nei pressi di Pavia, il M. occupò la Brianza, giungendo allo scontro aperto il 7 aprile, giorno di Pasqua. Nessuna delle parti uscì, però, vincitrice dal conflitto e si giunse a un accordo di pace che non fece altro che formalizzare uno stato di fatto: al conte di Biandrate spettava il controllo della parte occidentale del Ducato, al signore di Brescia quella orientale. La riconciliazione tra i due era necessaria allo scopo di contrastare, in un'unione certamente di comodo, un nuovo avversario, il governatore di Genova, Jean le Meingre detto il Boucicault, cui era stato affidato dal duca di Milano il compito di contrastare Facino Cane, ma che costituiva un pericolo per i molteplici equilibri interni al Ducato. Entrambi i capitani attaccarono perciò congiuntamente il capoluogo lombardo, riuscendo a riprenderne il controllo ed eliminando la presenza francese dal Milanese. Ma l'alleanza tra Facino Cane e il M. aveva poco dell'autenticità e ancora meno della lealtà se, a causa di una nuova assenza di Carlo da Milano, il primo riconsegnò la città alla fazione ghibellina e fece confinare Carlo Malatesta e il M. di là dall'Adda. Si chiudeva, così, la dominazione del casato romagnolo sul Ducato milanese, non riuscendo più i Malatesta a separare Facino Cane da Giovanni Maria fino alla morte di quest'ultimo (16 maggio 1412).
Venezia osservava con attenzione la situazione sempre più critica della Lombardia e, in tale contesto, assoldò nel luglio 1412 il M. e Carlo nella guerra che la contrapponeva a Sigismondo di Lussemburgo re d'Ungheria e re dei Romani, che rivendicava il possesso del Friuli e dell'Istria. Nell'ambito dell'esercito veneziano crebbe la responsabilità del M. e, dopo il ferimento di Carlo presso Motta di Livenza (agosto 1412) e la partecipazione insieme con i fratelli alla tregua quinquennale tra Sigismondo e Venezia (17 apr. 1413), il M. ne divenne capitano generale (29 aprile).
Due distinti documenti, datati 30 apr. 1413, disponevano le ricompense al M. per i servizi militari resi alla Serenissima: il primo gli riconosceva una pensione annua vitalizia di 1000 ducati d'oro, il secondo gli conferiva la nobiltà veneziana con diritto d'ingresso nel Maggior Consiglio. Il M. ricevette, inoltre, la carica di duca di Candia (che rifiutò), la promessa di un palazzo sul Canal Grande e soprattutto un rinnovo semestrale della "condotta in aspetto" con un corrispettivo di 4000 ducati al mese per 1000 lance, purché non molestasse gli aderenti di Sigismondo d'Ungheria.
Le tensioni in Lombardia tornarono alla ribalta subito dopo il 17 apr. 1413. Già il 2 maggio, congedandosi da Venezia, il M. dichiarò di voler ristabilire l'ordine nella sua signoria. Nel frattempo la successione allo Stato milanese era passata nelle mani di Filippo Maria Visconti (12 giugno 1412). Questi decise di accordarsi con il M., considerato un avversario ancora troppo potente da affrontare e un'importante pedina come tramite con la Serenissima: il 29 maggio 1413 diede quindi mandato a Galeotto Bevilacqua di stipulare un'alleanza con il signore di Brescia.
L'accordo, poi confermato e ampliato a Venezia (10 marzo 1414), stabiliva che il M. avrebbe continuato la campagna contro Cabrino Fondulo per l'occupazione di Cremona e del relativo contado, purché non inglobasse le terre del duca. Una volta conquistata la città, l'avrebbe restituita dopo un decennio, ricevendone in cambio 25.000 ducati; se la concessione avesse raggiunto i dodici anni, la restituzione sarebbe stata gratuita. Da parte sua Filippo Maria avrebbe messo a disposizione del M. sei galeoni da utilizzarsi per la conquista di Cremona. Aggiungeva ai termini dell'intesa il beneplacito per la libera navigazione sulle acque del Po e dell'Adda e l'approvvigionamento di tutte le vettovaglie necessarie.
Il patto manifestò subito un carattere di profonda instabilità, con l'unico obiettivo, da parte del duca di Milano, di acuire i contrasti tra i contendenti: nel 1415, infatti, Filippo Maria decise di costituire una nuova realtà politica comprendente Cremona e il relativo distretto, ne dichiarò signore Fondulo e inglobò nel novello dominio anche alcuni territori recentemente acquisiti dal Malatesta. Questi reagì, chiedendo il rispetto dei termini che le parti avevano sottoscritto e invocando l'intervento della Serenissima, che ottenne un incontro tra i contraenti nel settembre dello stesso anno. Le trattative, comunque, si protrassero stancamente fino alla fine del 1415, quando il duca incaricò Bevilacqua di siglare una nuova lega alla quale, oltre al M. e a Venezia, avrebbe dovuto prendere parte il marchese Niccolò (III) d'Este. Ma ormai il M., avendo compreso che lo scontro diretto con il duca sarebbe stato imminente, aveva incominciato a favorire e a proteggere tutti i possibili nemici del Visconti. Nell'autunno del 1415 il M. si era alleato con Filippo Arcelli, Giovanni Vignati, Cabrino Fondulo e Niccolò d'Este per la conquista di Piacenza. Il duca di Milano riuscì a contrastare l'offensiva e a guadagnare Lecco, da poco occupata dal Malatesta. Prima che la situazione si deteriorasse intervenne di nuovo Venezia che costrinse, il 23 maggio 1416, i due contendenti a riprendere i negoziati per una tregua. Ma ancora una volta Filippo Maria Visconti, agendo con doppiezza, finanziò le truppe del capitano Braccio da Montone (Andrea Fortebracci), che portò lo scontro direttamente nella Marca. Conscio di non riuscire a controllare nemici su fronti tanto distanti, il M. si appellò a Venezia e ottenne un nuovo accordo comprendente oltre al duca di Milano, i signori di Rimini, Cremona, Lodi, Como, Piacenza e Ferrara (luglio 1416). Tra il novembre 1416 e il giugno 1417 il M., accompagnato dal condottiero Martino Bernabucci, fu costretto a ritornare in Romagna, a causa della cattura del fratello Carlo e del cugino Galeazzo, avvenuta presso Assisi da parte di Fortebracci (luglio 1416), e della morte di Andrea (20 settembre). Giunto a Rimini, il M. intavolò trattative riguardo alla scarcerazione dei suoi congiunti che, dietro pagamento di un oneroso riscatto, furono rimessi in libertà nel marzo 1417.
Della prolungata assenza del M. dalla Lombardia si approfittò il Visconti che, rompendo la tregua del luglio 1416, mosse guerra a Fondulo con l'intenzione di riconquistare Cremona. Le battaglie che ne seguirono furono caratterizzate da esiti altalenanti: alla vittoria del M., accorso in aiuto di Cremona, seguì una sua sconfitta a opera di Arcelli presso Piacenza. Dopodiché il M. prestò soccorso a Tommaso Fregoso, doge di Genova, che si trovava alle prese con uno dei più temibili capitani del Visconti, Vincenzo Bussone detto il Carmagnola. Il M. adottò una strategia che prevedeva di portare lo scontro direttamente a Milano per costringere Carmagnola a distogliere la sua attenzione da Genova, ma andò incontro a una nuova sconfitta presso Olginate.
Nel momento in cui la situazione volgeva a favore del Visconti, l'elezione al soglio di S. Pietro di papa Martino V (1417) contribuì a portare un nuovo rivolgimento sullo scacchiere politico perché, di ritorno da Costanza, il pontefice si recò in visita a Brescia (1418) ed emanò un lodo, ratificato il 30 genn. 1419, in favore del M. che poteva continuare a esercitare la signoria su Brescia e Bergamo vita natural durante. La pacificazione comunque fu di breve durata, tanto che di lì a poco il Visconti attaccò nuovamente Fondulo che, rimasto escluso dalla sentenza pontificia, si rivolse a Venezia e al Malatesta. Costui, presentate le proprie rimostranze al papa, spostò le sue truppe presso Castelleone adducendo, a sua discolpa, l'acquisto di Cremona da parte di Fondulo e la necessità di assicurare un'efficiente difesa al dominio. Pure il duca si appellò a Martino V, il quale richiamò duramente il M. per aver formalmente rotto l'accordo di pace. Il M., tuttavia, non retrocesse dalle sue posizioni e Carmagnola attaccò quindi il Bresciano e successivamente, il 24 luglio 1419, conquistò Bergamo. Filippo Maria inviò, nel giugno 1420, un suo procuratore a Venezia allo scopo di rompere il sodalizio fra la Serenissima e il Malatesta. Nonostante l'arrivo di rinforzi, il M. non riuscì ad avere la meglio su Carmagnola che, a Montichiari, l'8 ott. 1420 gli inflisse l'ultima, rovinosa, sconfitta. La disfatta del M. si fece completa allorché il 24 febbr. 1421 Venezia firmò un accordo di durata decennale con il Visconti, nel quale la Serenissima si impegnava a disinteressarsi delle cose del Bresciano. Il M., perduta anche l'ultima possibilità di poter contrastare le forze ducali, cercò una pace più vantaggiosa possibile. Ceduta Brescia e ricevuti in cambio 34.000 fiorini, egli abbandonò per sempre il suo dominio lombardo e ritornò in Romagna, dove si dedicò alla gestione dello Stato.
Ancora una volta però gli equilibri politici si stavano velocemente alterando per l'avanzata del duca di Milano che, dopo aver recuperato Parma e Reggio restituitegli da Niccolò d'Este, progettava di entrare in Romagna. Il pretesto gli era stato offerto dalla morte di Giorgio Ordelaffi (1422) che, nel suo testamento, aveva nominato tutore del figlio Tebaldo il duca. Questi poteva così fare di Forlì un importante avamposto delle armate milanesi, ma anche Firenze vantava alcuni diritti in merito al giovane Ordelaffi ed era interessata al controllo della città per gli stessi motivi del Visconti. Il comando dell'esercito fiorentino fu affidato al M. che, l'8 settembre, attaccò l'esercito nemico presso Ponteronco, accompagnato nell'impresa da Niccolò da Tolentino. Dopo un iniziale successo, il M. cadde in un'imboscata che causò la capitolazione di Imola. Gli scontri più forti scoppiarono, tuttavia, nella primavera del 1424, quando le forze degli alleati, capitanate da Carlo con a fianco il M., attaccarono il castello di Fiumana detenuto dai Ducali, costringendo questi ultimi prima alla resa e poi a riparare a Sadurano, dove vennero nuovamente sconfitti il 10 luglio. Verso la fine del mese le armate viscontee riuscirono, però, a riorganizzarsi e assediarono il castello di Zagonara. L'esercito guidato dai due Malatesta aveva a proprio vantaggio una cavalleria più numerosa: il 28 luglio Carlo diede l'ordine di attaccare. Lo scontro fu particolarmente duro e le forze del Visconti ebbero la meglio: il signore di Rimini venne fatto prigioniero e condotto a Milano, il M. riuscì a stento a fuggire a Ravenna lasciando, di fatto, la Romagna in balia delle truppe nemiche. All'inizio di novembre il condottiero Angelo Della Pergola, che militava al soldo dei Visconti, conquistò Dovadola, Gradara, ove fu catturato Galeazzo Malatesta, e altri castelli del Pesarese prima di rivolgersi verso Faenza, mentre Firenze tentava di riorganizzare l'esercito alla guida di Niccolò Piccinino. Solo nel gennaio 1425 Filippo Maria liberò il fratello Carlo, disponendo, inoltre, che il commissario di Romagna gli restituisse tutti i territori occupati dalle truppe viscontee. La trattativa fu lunga e lo stesso M. dovette recarsi a Milano per perorare la sua causa, ma a metà maggio fece ritorno, soddisfatto dell'accordo.
Al M. restava ancora da definire la spinosa questione della successione. Già sposato due volte, con Paola Bianca Malatesta (1388) e con Antonia di Rodolfo da Varano (1421) e padre di tre figli naturali, Galeotto Roberto, Sigismondo Pandolfo e Domenico detto Pandolfo Novello, all'età di cinquantasette anni, nel giugno 1427, il M. contrasse il terzo matrimonio, anche questo rivelatosi infecondo, con la giovanissima Margherita Anna dei conti Guidi di Poppi. Provato da anni di battaglie e di eccessi, ammalatosi all'inizio dell'autunno di quello stesso anno progettò di fare un pellegrinaggio a piedi da Rimini fino al santuario di Loreto. Giunse, tuttavia, solo a Fano, ove fu costretto a fermarsi per l'aggravarsi della malattia, che lo condusse alla morte il 3 ott. 1427.
Il suo corpo venne tumulato con sommi onori nella locale chiesa di S. Francesco, dove nel 1398 era stata sepolta la prima moglie.
Sarebbe riduttivo considerare il M. solo come soldato e politico. Le fonti ci tramandano infatti l'immagine di un personaggio elegante e raffinato che aveva saputo creare a Brescia e a Fano una corte cosmopolita, allineata alla moda del tempo e aperta alla novità, munifica e disponibile verso letterati, copisti, miniatori di elevata capacità, pittori, di cui ricordiamo solo Gentile da Fabriano, che affrescò a Brescia la cappella dell'antico broletto (1414-19), trasformato in dimora signorile, mentre a Fano operavano notevoli artisti veneti quali i pittori Michele Giambono, il Maestro di Roncaiette e lo scultore Filippo di Domenico, che eseguì intorno al 1415 la tomba di Paola Bianca.
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