GAUDENZI, Paganino
Nacque a Poschiavo, nei Grigioni, il 3 giugno 1595 da Tommaso, in una eminente famiglia di confessione riformata. Frequentò le Università di Basilea, Ratisbona e Tubinga. Presso quest'ultima si addottorò in diritto e in teologia. Tornato in patria nel 1614, fu pastore di Mese e di Poschiavo. Nel 1616 si convertì al cattolicesimo: per questo, nel giugno 1617 fu imprigionato a Chiavenna.
Si trasferì quindi a Roma, dove fu introdotto dal generale dei gesuiti Muzio Vitelleschi presso Paolo V, ricavandone qualche assegnamento. Lo sbocco più naturale per il brillante neofita sembrava la lotta alla confessione riformata nella stessa sua patria: così, ricevuti gli ordini minori, il G. fu inviato dalla congregazione de Propaganda Fide, nell'aprile 1623, a Poschiavo. Preparò in questa occasione il De incertitudine Calvinianae doctrinae tractatus (Romae 1623).
L'attività del G. ebbe dapprima successo: la presenza, nell'autunno 1623, di un contingente neutrale pontificio in Valtellina, per impedire che vi si scontrassero Francia e Spagna, facilitava la diffusione della dottrina cattolica nella regione e il G. poté raccogliere molte conversioni. Tuttavia, nel corso del 1624 il suo entusiasmo scemò: mentre tornava in missione, dopo un breve soggiorno a Roma, rivelò anzi di voler prendere moglie e darsi alla carriera politica in patria, in caso non avesse ricevuto nuove cariche ecclesiastiche.
Rientrato a Roma, il G. si dedicò agli studi. La conoscenza del greco, dell'ebraico, del caldaico, oltre alla piena padronanza del latino, i vasti interessi eruditi lo posero a contatto con l'ambiente culturale gravitante attorno all'Accademia degli Umoristi e con i Barberini, la famiglia del pontefice Urbano VIII, che aveva conosciuto da cardinale. Ottenne così, nel 1625, la cattedra di greco alla Sapienza.
Il G. non sembrava soddisfatto e ambiva a un posto di maggior decoro. Tuttavia, la pubblicazione del De dogmatibus et ritibus veteris Ecclesiae. Haereticorum huius temporis, & praesertim Calvinianorum testimonia (Romae 1625-26) - l'opera che doveva aprirgli la strada - lasciò piuttosto perplessa la corte pontificia. Il G. aveva infatti commesso gravi ingenuità: cercando di dimostrare le contraddizioni degli scrittori riformati aveva trascritto ampi brani di testi condannati senza il contrappunto dei dogmi cattolici, con il risultato paradossale di addurre a sostegno delle tesi del card. Roberto Bellarmino quelle dell'eretico Marcantonio De Dominis, arso post mortem appena nel dicembre 1624.
Così, a nulla giovarono gli appoggi di membri influenti dell'entourage barberiniano, come Cassiano Dal Pozzo e Giovanni Battista Ciampoli. Vistasi chiusa la strada a Roma, il G. premette per passare allo Studio di Pisa, presso il quale venne chiamato nell'autunno 1628, come lettore di "lettere umane" con 500 scudi di stipendio annuo.
La sistemazione sembrò al G. ancora insoddisfacente: puntò a lungo a un incarico nella segreteria pontificia o a una cattedra più prestigiosa a Padova, a Bologna, a Milano. Ma i rapporti con l'ambiente romano, al quale il G. si rivolgeva, apparivano compromessi: esplicitamente il Vitelleschi lo avvertì di aver "trovato prevenuto" il card. Francesco Barberini nei suoi confronti (M. Vitelleschi al G., Roma 20 dic. 1631, in Godenzi, P. G. Uno scrittore barocco, p. 218). Esito non migliore ebbero le speranze suscitate dalla nomina a cardinale dell'amico Agostino Oreggi, teologo e cameriere segreto di Urbano VIII, alla fine del 1633: la sua morte, alla metà del 1635, troncò infatti ogni disegno.
Del resto, le origini riformate e l'inclinazione alla libertà di giudizio del G. non ne facilitavano la promozione ai vertici della cultura ufficiale: lo dimostrava il continuo "contrastar con frati e con politici" ad ogni tentativo di "metter alcuno fiero pensiero in carta" confessato dal G. stesso (lettera ad A. Piccolomini, arcivescovo di Siena, Pisa 7 genn. 1633, in Godenzi, Epistolario (1633-1640) di P. G., p. 137).
A Pisa riuscì, nondimeno, a conquistarsi un certo grado di autonomia. Aderì all'Accademia dei Disuniti, dove, con il nome di Spento, tenne orazioni su argomenti talvolta delicati, politici o morali. Nello Studio, poi, trovò un ambiente stimolante, nel quale spiccava la presenza del filosofo antiperipatetico Claude Bérigard e del matematico padre Vincenzo Renieri, di simpatie galileiane. Nel contempo, il G. aveva allacciato rapporti epistolari con letterati del rango di Alessandro Tassoni, Gabriel Naudé, Leone Allacci, Pietro Sforza Pallavicino, Luca Holstenius, Nicolò Heinsius. Coronarono questa attività più di settanta libri e opuscoli (senza contare i lavori rimasti manoscritti) su diverse materie: filologia, filosofia, erudizione, storia antica e contemporanea, esegesi biblica, diritto, politica, cui vanno aggiunti componimenti poetici e orazioni in latino e in volgare.
Le ambizioni di un ritorno a Roma del G. (che manteneva rapporti solo sporadici con la corte medicea) non si erano spente: dopo qualche anno di distacco, intorno al 1639-40, contattò C. Dal Pozzo, per stringere con il card. Francesco Barberini legami che gli permettessero di pubblicare le opere di maggior respiro. Tuttavia, naufragò subito il progetto di stampare sotto l'egida del cardinal nipote un "Musaeum historicum" di cinquecento epigrammi in latino dedicati a uomini illustri: dové irritare l'inclusione di soggetti poco adatti al rigido clima culturale romano di quegli anni, come Niccolò Machiavelli, Nicolò Franco, Nicola Copernico, Jean Bodin.
Nemmeno le altre opere ebbero vita facile. Proprio intorno al 1640-41, la congregazione del S. Uffizio prese a diffidare del G., nonostante i pareri favorevoli degli inquisitori toscani alle sue opere: il De evulgatis Romani imperii arcanis (Florentia 1640), già stampato, fu trattenuto per più di un anno a Roma, forse per le critiche alla scomunica pontificia o per la difesa del filosofo Cesare Cremonini, censurato dal S. Uffizio. Anche il De Pythagorea animarum transmigratione (Pisis 1641), stampato insieme con una exercitatio antiperipatetica (il De Aristoteleo veterum contemptu), venne sospettato di veicolare dottrine incompatibili con la fede. In entrambi i casi, il G. riuscì a superare le difficoltà con l'aiuto di C. Dal Pozzo. Non fu invece pubblicato il libello Dell'origine delle guerre d'Italia (ora in Bibl. apost. Vaticana, Urb. lat. 1579), probabilmente per il capitolo sull'interdetto di Venezia del 1606-07 e per i giudizi irriguardosi verso gli Spagnoli. In questa occasione, per la prima volta, il S. Uffizio romano minacciò l'uso di mezzi idonei a far "star cheto" il G. (lettera a C. Dal Pozzo, Pisa 22 nov. 1641, in Arch. C. Dal Pozzo, XXXII [29], c. 35r).
Quest'episodio turbò sensibilmente il G., che non rinunciò però a portare a termine lavori ambiziosi, favorito anche dal clima di incertezza che si viveva a Roma per il declino delle fortune dei Barberini, intorno al 1643-44. Videro così la luce il De philosophiae apud Romanos initio et progressu (Pisis 1643), che conteneva un elogio di Lucrezio Caro, come massimo ingegno filosofico romano, e il De philosophicis opinionibus veterum ecclesiae patrum (stampato insieme con il De errore sectariorum…, ibid. 1644), che attribuiva ai Padri della Chiesa il riconoscimento della libertà filosofica. Ne nacquero nuovi sospetti della censura romana, che il G. imputò ai gesuiti, con i quali era entrato in polemica nel settembre 1639, in occasione delle celebrazioni per il centenario della nascita della Compagnia di Gesù.
Questi contrasti erano destinati ad acuirsi: infatti il G. fece precedere al De candore politico (ibid. 1646) - un commento agli Annali di Cornelio Tacito - la Ad Famianeam historiam exercitatio: atto d'accusa pacato nei toni, ma duro nella sostanza contro il gesuita Famiano Strada e la sua opera sulla guerra di Fiandra, giudicata parziale e supina verso le ragioni cattoliche e spagnole. Fu il vecchio Gaspare Scioppio a levarsi contro il G., dando origine a una feroce polemica.
Gli ultimi anni del G. furono dedicati alla stampa di opere di un certo spessore, come la Letteraria istoria (Pisa 1648), formata da 450 sonetti dedicati al nuovo protettore romano, il card. Giovan Giacomo Panciroli e gli Alamannici guerrieri (ibid. 1648), elogi in versi dei protagonisti della guerra dei Trent'anni appena conclusa, che suscitarono ancora malumori in corte di Roma.
Morì inaspettatamente a Pisa il 3 genn. 1649.
Il G. ebbe ingegno serrato e versatile. Nondimeno, sulla qualità dei suoi studi, già i contemporanei apparivano divisi: alcuni lo ritenevano effettivamente dotato di grande padronanza nell'interpretazione di testi e di questioni di difficile comprensione; altri contestavano l'eccessiva disinvoltura e i risultati spesso farraginosi. Ciò che si ricava dalle sue opere è anzi tutto una passione di stampo umanistico per la classicità e per la letteratura volgare (Petrarca e Dante), che lo stimolò a una prolifica produzione di versi latini e "toscani". Apprezzò nondimeno la poetica di Giambattista Marino, che (ne La galleria dell'inclito Marino, ibid. 1648) difese dagli attacchi non solo dei letterati, ma anche della censura (che aveva colpito l'Adone del 1627). Anzi, proprio la De Mariniana poësi apologetica oratio (pubblicata nell'Academicum instar, Florentiae 1639) diede spunto al G. per ricordare le simili sorti di Machiavelli e Bodin, parimenti condannati, ma universalmente riconosciuti come massimi esperti nella loro disciplina, la scienza politica.
Questa insofferenza per l'auctoritas indiscussa caratterizzò anche gli studi filosofici del G., che mostrò grande interesse (comune del resto a molti intellettuali dell'ambiente pisano del Seicento) per i presocratici. Opere come il già citato De Pythagorea animarum transmigratione o il De philosophiae apud Romanos initio et progressu costituiscono nondimeno, più che riflessioni originali, studi di carattere storico-erudito. Ma negli anni '30 e '40 del Seicento, anche questo tipo di speculazione, poiché condotta "per dir così sulle porte di Roma" (lettera a C. Dal Pozzo, Pisa 9 luglio 1641, in Arch. C. Dal Pozzo, XXXII [29], c. 26r), poteva causare problemi: così il G. preferì lasciare in manoscritto il De doctrina Democriti (Bibl. apost. Vaticana, Urb. lat. 1555) e le Deambulationes in Lyceo (ibid. 1553), nelle quali discuteva della dottrina di Aristotele.
Dal punto di vista teorico caratterizza il pensiero del G. una forte avversione per la scolastica, un'interpretazione di Aristotele molto lontana da quella dell'aristotelismo tomista (con la valorizzazione di tesi come quella dell'eternità del mondo o della mortalità dell'anima, già propugnata dal Cremonini). In questo modo, il G. cercava altresì di dimostrare l'indipendenza della filosofia dalle certezze della fede, essendo quella sorta proprio "quia homines coeperunt dubitare" (De philosophiae apud Romanos, p. 449).
Questa affermazione di una necessaria autonomia del giudizio fu comune a tutti gli studi del Gaudenzi. Nelle opere storiche (Di Cleopatra reina d'Egitto la vita, Pisa 1642; I fatti d'Alessandro il Grande, ibid. 1645) lamentò la decadenza della storiografia a lui contemporanea proprio perché "troppo sospetta, […] adulatrice verso i suoi, e maledica maligna verso i nemici" (I fatti d'Alessandro, p. 195). Si rammaricò dell'invadenza della censura ed esplorò, ma senza esito, le possibilità di arrivare almeno a una edizione emendata dell'Historiarum sui temporis di Jacques-Auguste de Thou.
Simile fu la posizione nei confronti della nuova scienza: come il suo amico Claude Bérigard, il G. mise in luce le difficoltà della teoria eliocentrica nello spiegare fenomeni ben inseriti nel sistema tolemaico. Nondimeno, parve compiutamente consapevole dell'importanza culturale della rivoluzione galileiana: esaltò la messa in discussione di teorie consolidate e progettò persino di redigere una biografia di Galileo lasciando "da bada tutto il seguito di Roma" (lettera a C. Dal Pozzo, Pisa 27 apr. 1642, in Arch. C. Dal Pozzo, XXXII [29], c. 47r). Ma il clima non era favorevole a un'idea del genere: poté pubblicare (ne La galleria dell'inclito Marino) solo tre sonetti in memoria dello scienziato, aggiungendo un'umiliante didascalia che disapprovava la teoria della mobilità della terra.
Stessa cautela imponeva l'argomento politico: nel De candore politico condannò decisamente Machiavelli, che pure considerava "Italici nominis… amantissimus" (Bibl. apost. Vaticana, Urb. lat. 1604, c. 282r). Dal canto suo, il G. sostenne teorie politiche chiaramente influenzate dalla relativa tolleranza della sua patria grigionese. Condannò infatti apertamente le pretese assolutistiche delle monarchie, giungendo a considerare difesa legittima la lunga ribellione di Fiandra, la rivolta catalana del 1640, la rivoluzione inglese del 1641 e la separazione del Portogallo dalla Corona di Spagna. Considerò invece più efficace un sistema misto di governo, temperato dalla presenza di un Senato elettivo e di un principe cui fosse affidata principalmente la condotta della guerra.
Fonti e Bibl.: G. Godenzi, Epistolario (1633-1640) di P. G. (1595-1649), Poschiavo 1991. Per l'elenco delle opere si rimanda a G. Godenzi, P. G.Uno scrittore barocco in bianco e nero nel quarto centenario della nascita 1595-1995, s.n.t. Alle fonti segnalate da G. Godenzi, P. G., Berna-Francoforte 1975, si aggiungano: Roma, Biblioteca dell'Accademia nazionale dei Lincei e Corsiniana, Archivio C. Dal Pozzo, XXXII (29); Biblioteca apostolica Vaticana, Barb. lat. 2178, 6464, 6499, 10001; F. Menghini, P. G. letterato grigionese del '600, Milano 1941; R. Pintard, Le libertinage érudit dans la première moitié du XVIIe siècle, I-II, Paris 1943, ad ind.; G. Stabile, Claude Bérigard (1592-1663), contributo alla storia dell'atomismo seicentesco, Roma 1975, pp. 35 s., 86 s., 90, 96 s., 102; T. Gregory et al., Ricerche su letteratura libertina e letteratura clandestina nel Seicento, Firenze 1981, ad ind.; Storia dell'Università di Pisa, I, Pisa 1993, ad ind.; M.C. Ronza, Il "Candore politico" di P. G., in Cheiron, XI (1994), 22, pp. 125-147.